Moda e tessile, lo sfruttamento non ha età

I vestiti nei nostri armadi sfruttano il lavoro di minorenni, talvolta bambini. SenzaFiltro intervista Gianni Rosas, direttore dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro: “Al mondo 13 milioni di bambini fanno lavori che mettono al rischio la salute, nel settore tessile. Ma abbiamo strumenti per intervenire”

Sfruttamento di bambini nella moda: una bambina lavora in un campo di cotone

In tutto il mondo, i bambini che invece di andare a scuola e giocare sono costretti in attività lavorative sono circa 160 milioni. Ma fare indagini in questo campo non è semplice, e per prima cosa dobbiamo dire che i numeri che abbiamo sono sicuramente sottostimati. Nel settore moda è ancora più difficile fare una stima, perché la filiera è lunghissima e complicata.

Nell’industria, cioè nella parte finale del confezionamento, i bambini impiegati sono circa 16 milioni, ma questo dato riguarda solo l’ultima parte della filiera. Non possiamo dimenticare tutti i minori sfruttati in agricoltura, in particolare nella raccolta del cotone. La maggior parte dello sfruttamento minorile (70 %) è proprio nel settore agricolo, e il cotone è una delle colture in cui vi è un’altissima incidenza di lavoro minorile.

Il cotone è la materia prima per eccellenza del settore tessile. Fa parte della nostra vita quotidiana: è dappertutto, nei nostri abiti, nei tessuti per la casa e in molti prodotti manifatturieri. Va da sé che i bambini sfruttati dalla moda per la produzione dei nostri vestiti, scarpe e accessori sono molti di più di 16 milioni.

La situazione durante la pandemia è anche peggiorata. La crisi economica generata dal COVID-19, i conflitti e le catastrofi umanitarie hanno esposto i bambini e gli adolescenti a un alto rischio di sfruttamento, perché il loro lavoro è strettamente legato alla povertà delle loro famiglie.

In realtà prima della pandemia si erano registrati risultati più che positivi. Nel 1999 i bambini sfruttati erano 250 milioni, e grazie all’azione e alle iniziative di diversi Paesi nel primo quindicennio degli anni Duemila c’è stata una grande riduzione. In quei 15 anni, 100 milioni di bambini sono stati strappati dal lavoro e riportati a scuola, oppure, se avevano l’età minima per lavorare, sono stati inseriti in condizioni di lavoro più dignitose. Purtroppo però, rispetto al 2015, nel 2019 c’è stato un incremento da 152 a 160 milioni.

Ne ho voluto parlare con Gianni Rosas, direttore di ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), che conduce indagini su campioni statisticamente significativi in tutto il mondo. La conversazione con lui è stata sconfortante, ma questo articolo non è tutto nero. Gianni Rosas e ILO propongono soluzioni concrete e attuabili per ridurre il fenomeno dello sfruttamento dei bambini. A cominciare da come si fanno le indagini, e da come si dovrebbero incrociare i dati per individuare le situazioni di difficoltà, per finire con le policy che tutti i Paesi dovrebbero adottare.

 

 

 

Direttore, i numeri dei bambini impiegati nel settore moda sono spaventosi, ma vorrei che lei descrivesse anche le condizioni i cui lavorano.

Partendo dai dati, bisogna fare un po’ di stime cautelative. Noi abbiamo un numero che si aggira attorno ai 16 milioni nel settore dell’industria tessile, ma dobbiamo anche considerare che, con la pandemia, alcune produzioni sono state interrotte, e quindi hanno provocato una caduta immediata del reddito delle lavoratrici e dei lavoratori che già avevano un salario davvero modesto. In Bangladesh, che è uno dei Paesi che alimenta il settore tessile della moda, il salario medio si aggira intorno agli 80 dollari mensili, e i bambini percepiscono meno della metà degli adulti (per la precisione il 40% dello stipendio di un adulto).

E poi il tessile con l’impiego di tutti i prodotti chimici è anche molto pericoloso.

Il dato è ancora più allarmante in questo caso, perché di quei 16 milioni di bambini, 12.800.000 svolgono lavori pericolosi per la loro salute. Pensiamo solo a tutti i prodotti necessari per produrre i jeans. I bambini non hanno tutti gli strumenti per conoscere gli agenti chimici e farne un utilizzo appropriato. Quindi, in questa filiera, l’incidenza dei lavori pericolosi è ancora più alta rispetto ad altre.

Come si combatte questa situazione?

Come ILO abbiamo stipulato due trattati internazionali: la Convenzione 138, che definisce l’età minima di ammissione al lavoro – che è al completamento della scuola dell’obbligo, quindi in media 15/16 anni – e la Convenzione 182, che stabilisce che se il lavoro è pericoloso l’età minima sale a 18 anni. La strategia più efficace è riportare i bambini a scuola e aiutare i genitori ad avere delle forme di reddito più dignitose. Poi bisognerebbe abbattere i costi della scuola, perché molto spesso, anche se la scuola non si paga, ci sono una serie di costi indiretti, come i trasporti e i libri, che alcune famiglie non si possono permettere. Aiutare in primis le famiglie è il modo migliore perché i loro bambini evitino di finire in condizioni di sfruttamento lavorativo.

Per esperienza personale posso citare il lavoro del CEFA, un’organizzazione non governativa con cui collaboro, e che in Guatemala da anni porta avanti un programma di borse di studio per le bambine e le ragazze delle comunità rurali più povere. Le famiglie si sono ritrovate così, costi scolastici azzerati insieme a un reddito più sostenibile. E in effetti, il risultato è stato un evidente calo dell’abbandono scolastico, e quindi dello sfruttamento minorile. Solo che oggi, in tutto il mondo, sono 400 milioni le persone che lavorano e che non riescono a sottrarsi alla povertà estrema, e per loro far lavorare i bambini sembra l’unica alternativa.

Le alternative esistono. Ci sono Paesi che elargiscono sussidi alle famiglie, aiuti che sono strettamente vincolati al fatto di mandare i bambini a scuola, e questo è un bel modo di arginare il problema. I Paesi dell’America Latina, ad esempio, hanno adottato queste strategie e hanno visto una grande riduzione del lavoro minorile. Anche la questione dei trasporti sarebbe risolvibile con un intervento pubblico. E poi ci sono dei meccanismi per far sì che i bambini non fuoriescano da scuola. Se le istituzioni educative fanno interventi e segnalazioni precoci, ad esempio, si può intervenire con più facilità. In alcuni paesi dell’Africa c’è stato un impegno istituzionale forte che ha avuto buoni risultati. Anche perché lo sfruttamento dei bambini, se non viene arginato, diventa una questione generazionale e sistemica.

Intende dire che non riusciranno mai ad affrancarsi dalla povertà?

Il bambino che oggi lavora domani sarà un lavoratore povero, perché non ha la possibilità di acquisire gli strumenti di base per crescere nel percorso lavorativo. È destinato a non riuscire a cambiare la sua posizione, in una sorta di circuito generazionale legato alla povertà. Far studiare i bambini deve essere una priorità per le policy di tutto il mondo. Bisogna spezzare la catena, anche perché un domani questi bambini avranno dei figli che saranno condannati allo stesso sfruttamento.

Quali sono oggi i Paesi dove la situazione è peggiore?

In generale il lavoro minorile è diffuso nei Paesi più poveri, ad esempio nella regione dell’Africa Sub Sahariana, soprattutto per i lavori agricoli (e ribadiamo che la raccolta del cotone è la prima parte della filiera del tessile, che comprende anche l’America centrale e l’Uzbekistan). Nella questione dell’industria tessile i Paesi dove la situazione è gravissima sono sicuramente quelli del Sud Est Asiatico, dove ci sono gli stabilimenti produttivi. La situazione del Bangladesh, che citavamo prima, non è diversa da quella dell’India e del Pakistan, dove i bambini subiscono orari di lavoro improponibili che vanno dalle 12 alle 14 ore al giorno, con paghe bassissime. E si ricorre allo sfruttamento dei bambini proprio per questo: già in quei Paesi gli adulti costano poco, ma i bambini costano ancora meno.

Ha citato tutti i Paesi dove lavorano i grandi marchi, anche quelli sportivi.

In realtà i singoli marchi tengono a non avvalersi del lavoro dei bambini, ma molto spesso la produzione è difficile da tracciare. Soprattutto quando è così frammentata da arrivare a commissionare il lavoro a domicilio. Come dicevamo, la filiera del tessile è lunghissima e complicata, ma si possono prendere misure per controllarla, anche perché qui si parla di vera e propria violazione dei diritti umani. Comunque, nel “business and human rights” c’è un grande movimento in questo periodo. Le soluzioni ci sono, le strategie sono tante e applicabili. Dalle politiche educative alle politiche del lavoro. Ad esempio, se i ragazzi hanno l’età minima per lavorare, ma svolgono lavori pericolosi, basta spostarli e procedere a un cambiamento di ruolo finché non hanno la maggiore età.

È arrivato il momento di parlare dell’Italia.

Rispetto ad altri Paesi noi non misuriamo statisticamente l’incidenza del lavoro minorile. Pensiamo che sia un problema degli altri, ma non è così. Le rilevazioni di Eurostat evidenziano che in Italia nel 2020 un minore su quattro era a rischio di povertà ed esclusione sociale. Il rapporto dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza indica che la dispersione scolastica degli alunni delle scuole secondarie di primo grado (età 11–14 anni) riguarda principalmente i bambini e gli adolescenti, e le Regioni del Sud e delle isole, con la Sicilia che registra il tasso più alto. In queste Regioni il rapporto segnala un’apparente correlazione tra abbandono scolastico e lavoro minorile, che riguarda in particolare i ragazzi di età compresa tra i 14 e i 15 anni. In Italia il problema è diffuso soprattutto in agricoltura, ma anche nel terziario e nel commercio. Come negli altri Paesi, però, risolvere il problema non è poi così difficile. Se facciamo un’analisi della dispersione scolastica, ad esempio, si possono avere nomi e cognomi di chi ha abbandonato la scuola e cercare di risolvere la questione direttamente nelle famiglie. In generale, però, il lavoro minorile in Italia rimane sottotraccia a causa della mancanza di rilevazioni statistiche e di dati amministrativi.

 

 

 

L’intervista con Gianni Rosas è finita. Per la prima volta da quando faccio questo mestiere, durante la conversazione mi sono mancate le parole. Soprattutto quando il direttore ha descritto le condizioni in cui lavorano i bambini, che poi chiamarlo lavoro è già un insulto, perché un bambino non dovrebbe lavorare. La parola giusta è sfruttamento. Si trovano in situazioni pericolose per la loro salute, sottopagati e anche per 14 ore al giorno; lì mi sono bloccata. Il direttore ha capito la mia difficoltà ed è andato avanti quasi da solo.

Nella mia testa scorrevano le immagini di bambini intossicati da sostanze chimiche, impiegati nelle discariche dei rifiuti a raccogliere materie plastiche, sfruttati nelle loro stesse case per produrre in fretta le magliette che finiranno nei nostri armadi. Fanno male, ma spero che si fissino anche nella vostra testa. Perché quello che tutti dovremmo chiederci è: dove sta di casa la giustizia sociale? Non certo, come ha concluso Gianni Rosas, dove abbiamo milioni di bambini che lavorano, e milioni di giovani che vorrebbero lavorare e sono disoccupati.

 

 

 

Photo credits: vaticannews.va

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