Tanzania, l’Eldorado del traffico di minori

64 milioni di abitanti, un’età media di 17 anni e un PIL pro capite di 1.000 euro: la Tanzania è un Paese i cui minori sono ad altissimo rischio di tratta e sfruttamento, specie di lavoratrici domestiche presso i ricchi Stati arabi. Una rete di associazioni locali, però, punta a cambiare la situazione

Minori in Tanzania: una minore frequenta un corso per apprendere i suoi diritti da lavoratrice

“Ora che ho finito la scuola davanti a me ho due possibilità. Fare i due anni aggiuntivi che mi permetterebbero di iscrivermi poi a una facoltà universitaria, o andare subito a lavorare”.

Firdaus ha sedici anni e vive a Zanzibar, in Tanzania. Per la legge locale potrebbe già lavorare da due, purché l’impiego non sia logorante. Il sorriso timido e gli occhi che abbassa continuamente celano solo in parte il suo stato d’animo. Il suo sogno è quello di studiare Legge o Relazioni internazionali, ma sa che le circostanze e il contesto famigliare segnano quello che sarà con ogni probabilità il suo futuro. Essendo la terza di dieci figli in una famiglia monoreddito, sarà costretta ad andare a lavorare, e nel suo caso andare significherà proprio una partenza.

“Ho uno zio che vive in Qatar e quando ci fa le videochiamate vedo che lì sono molto ricchi, che è tutto di lusso, che la gente sta bene. Mi ha detto che se lo raggiungo trovo subito un impiego come lavoratrice domestica. Potrei mettere da parte i soldi e poi tornare a casa tra qualche anno e riprendere gli studi.”

Firdaus, come molte giovani del Corno d’Africa, guarda ai ricchi Paesi del Golfo come a una speranza, come una sorta di nuova America dove andare a cercare fortuna. Vede solo le luci, non ha idea delle reali condizioni di vita dei lavoratori stranieri non occidentali, né del quadro dei diritti umani in generale. Non parla l’arabo, ma ha studiato inglese ed è convinta che le basterà per cavarsela, perché “qui tutti parlano inglese”, le ha detto lo zio. Qatar, Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti impiegano infatti molta manodopera africana nel settore del lavoro domestico, e ogni anno migliaia di giovani donne partono e vanno a lavorare lì. Dovrebbero però aver compiuto almeno diciotto anni, ma non sempre le convenzioni internazionali vengono rispettate e spesso le partenze avvengono tramite vie illegali.

Tanzania, età media 17 anni e pochissime opportunità: terreno fertile per tratta e sfruttamento di minori

La Tanzania, Paese di 63,59 milioni di abitanti, con un’età media di circa 17 anni, un’aspettativa di vita di 60 e un PIL pro capite di circa 1.000 dollari, in questo senso è un Paese molto a rischio.

Mentre diverse normative regolamentano l’ingresso in territorio nazionale – anche agli italiani è richiesto il visto di ingresso – non ci sono norme specifiche che contrastino le partenze irregolari, né che tutelino nello specifico le partenze dei minori. Approfittando dell’ingenuità e dei sogni di ragazze che vorrebbero fuggire dalla povertà, molti trafficanti riescono infatti a convincere le famiglie o le giovani stesse ad affidarsi a loro, facendosi pagare coi soldi messi da parte moneta dopo moneta, e non di rado finiscono purtroppo vittime di sfruttatori di vario genere. Non solo quelli che le portano a lavorare letteralmente come schiave nelle case di famiglie facoltose o in laboratori e fabbriche dove non hanno diritti: molte minorenni finiscono anche nel giro dello sfruttamento sessuale o del traffico di organi. Un’industria della malavita redditizia e attiva, che attinge ai Paesi del Sud del mondo, dove c’è concomitanza di povertà e giovinezza, per accrescere il suo volume di affari.

In questo quadro è facile capire come il lavoro minorile sia un fenomeno diffuso per tante ragioni, non ultima la necessità di sopravvivenza. Avere dati ufficiali aggiornati è difficile, ma secondo le ultime stime, risalenti al 2021, sono circa cinque milioni i bambini tra i 5 e i 17 anni costretti a lavorare, e il fenomeno è evidente agli occhi di tutti. Le regioni più colpite sono quelle di Geita e Manyara, dove lavorano rispettivamente il 56 e il 53% dei minori. Formalmente, sono già state invece ratificate la Convenzione ILO 182 per il contrasto alle peggiori forme di lavoro minorile e la Convenzione ILO 138 sull’età minima per lavorare, ma nella realtà la situazione è ben diversa.

Ignare di stipendi e contratti: le lavoratrici domestiche bambine e le associazioni che le sostengono

Per una Firdaus sedicenne che vorrebbe partire, ce ne sono altre centinaia che lavorano, anche dall’età di nove anni, restando murate nelle case delle famiglie che le sfruttano. Come Maryuma, che vive nel villaggio di Bagamoyo e che non ha mai visitato altre zone della Tanzania, non è mai andata a scuola, e l’unica realtà che conosce è quella del lavoro. La mattina si sveglia presto e va a caricare i bottiglioni di acqua alla sorgente. Prepara la colazione, pulisce, lava a mano la biancheria dei componenti della famiglia, poi cucina, rassetta e si occupa anche dei figli minori dei padroni di casa. Non ha nemmeno uno spazio per sé, dorme su una brandina per terra e può chiamare la madre solo una volta a settimana dal telefono del suo “datore di lavoro”.

La vita di Maryuma sembra segnata come quelle di altre bambine della Tanzania. Quando piange al telefono la madre le dice che “deve ringraziare Dio che ha da mangiare”. Solo quello le danno, perché non ha uno stipendio, né un contratto. Non sa nemmeno cosa siano. Non è neppure consapevole di averne diritto. Crede, infatti, che ciò che fa non sia un lavoro come quello del meccanico, del medico, dell’avvocato. A cominciare a trasmetterle queste nozioni sono giovani donne che a Bagamoyo hanno costituito una piccola associazione per fare rete, lottare per i propri diritti e far emergere il lavoro nero e lo sfruttamento di cui sono state vittime da bambine e di cui sono ancora vittime bambine e giovani donne come loro.

Parlare alle bambine e ai bambini lavoratori di diritti e contratti, soprattutto quando questi minori non hanno nemmeno frequentato la scuola, è una sfida importante. Le lavoratrici domestiche in Tanzania possono contare oggi su una rete di piccole associazioni nate dal basso, che stanno chiedendo la ratifica della Convenzione ILO 189 sul lavoro domestico per proteggere se stesse e le future generazioni e spezzare questo meccanismo di sfruttamento.

Con loro operano anche associazioni di volontariato internazionali come la Comunità dei Volontari per il Mondo, CVM, che in Tanzania ed Etiopia sostiene progetti di formazione dedicati proprio alle lavoratrici domestiche, offrendo corsi gratuiti sulla sicurezza sul lavoro, sul diritto a orari, contratti e giorni di riposo, sulla cura della casa e della persona, su come trattare con i propri datori di lavoro e come contattare i sindacati. Spesso questi corsi, di cui si viene a conoscenza tramite il passaparola, hanno cambiato la vita delle bambine, aiutandole a prendere in mano le proprie vite e a diventare giovani donne consapevoli di essere anzitutto persone e non fantasmi, e di poter dire “no” e “voglio”.

La missione dei Community Justice Facilitator, che insegnano i diritti ai minori lavoratori

Il CVM in Tanzania sostiene anche l’impegno di figure chiave che sul territorio fanno letteralmente la differenza. Si tratta dei cosiddetti Community Justice Facilitator, CJF, donne, ma anche uomini, che viaggiano in lungo e in largo tra i villaggi, casa per casa, per essere al fianco di bambine e bambini in stato di disagio e aiutarli.

“Le forme di sfruttamento sono molte e in diversi settori. Ci sono bambini impiegati nella pesca, altri in lavori manuali, nelle miniere, in agricoltura, nella raccolta di tabacco in particolare, e negli allevamenti. Verifichiamo che abbiano cibo, acqua, che abbiano turni di riposo, che non vengano picchiati o maltrattati. Non possiamo impedire loro di lavorare perché spesso le famiglie non hanno di che sfamarli”, racconta Mashi Chaku, CJF in diversi villaggi dell’entroterra.

Lungo le strade del Paese, dalle prime ore dell’alba al tramonto, si assiste allo spettacolo di un fiume umano di bambini in divisa che vanno a scuola. Ci sono anche autobus carichi, ma non tutte le famiglie possono permettersi il costo dei mezzi, e per questo sono in tanti a camminare. Un movimento che è fisico, ma anche metaforico verso il futuro.

Vorrei che tutti potessero studiare. Quando mio padre è morto e sono stata costretta ad andare a lavorare avevo appena compiuto quindici anni e mi sono sentita morire. È stato come essere condannata ad andare in prigione”, racconta Deborah. “Ora che ho venticinque anni ho fondato un’associazione proprio per tutelare le bambine. Non vorrei mai vedere una bambina con le mani piene di calli come erano le mie. Non vorrei nemmeno passare davanti a una finestra e accorgermi che dietro c’è una bambina che sogna di fare la bambina”.

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