Generazioni su strada

Mio nonno paterno era un muratore e per andare al lavoro inforcava ogni giorno la bicicletta. Faceva decine di chilometri per raggiungere il cantiere. Pioggia, neve, inverno, estate, non ha mai perso un giorno di lavoro. Non aveva i soldi per il treno e quello era l’unico modo per spostarsi in economia. Lo ha fatto per anni, mai […]

Mio nonno paterno era un muratore e per andare al lavoro inforcava ogni giorno la bicicletta. Faceva decine di chilometri per raggiungere il cantiere. Pioggia, neve, inverno, estate, non ha mai perso un giorno di lavoro. Non aveva i soldi per il treno e quello era l’unico modo per spostarsi in economia. Lo ha fatto per anni, mai una lamentela. Ascoltava ogni giorno la radio che era la sua unica finestra sul mondo. L’unico viaggio che fece in vita sua fu quello verso Creta come prigioniero di guerra.

Mio padre era di un’altra generazione. Come tutti i giovani degli anni ’60 usò prima la vespa, poi, quando poté permettersela, comprò una SIMCA 1000 bianca. Ero piccolo ma me la ricordo molto bene. Ci siamo fatti un sacco di viaggi seduti su quei sedili marroni in similpelle che in estate ti si attaccavano alle gambe come un adesivo. Per evitare questa spiacevolezza mia madre stendeva un asciugamano e ad ogni curva sembrava di stare sull’ottovolante. Di chilometri lui ne faceva una quarantina. Tutti i giorni fino alla pensione. Anche lui non ha mai perso un giorno di lavoro e non si è mai lamentato. Ogni sera guardava il telegiornale dalla TV in bianco e nero con il telecomando digitale, nel senso che per cambiare canale dovevamo usare il dito. Alla soglia dei settantanni lavora ancora. Ne ha girati di posti, Africa, Estremo Oriente, Asia. Adesso è in Russia e negli ultimi anni ha preso più aerei di quanti non ne aveva presi in tutta la sua vita. Non ho idea di quanti chilometri faccia ora.

Quando andavo all’università, io di chilometri ne facevo 200 circa, ogni settimana, in treno. Un momento che era tutto mio, incentrato sulle relazioni amicali, lo scambio di appunti sugli esami e i momenti di relax scanditi dalle note che uscivano dalle cuffie del walkman nero della Sony che macinava musicassette. Erano gli anni novanta e non c’erano MP3 ed ammennicoli vari. Ora faccio il libero professionista. Seguo il personale delle aziende clienti muovendomi nel mio triangolo delle Bermuda, come lo chiamo io. Chilometri all’anno? 40-50000, quasi tutti in macchina. Ore e ore trascorse al volante che uso per riflettere sui miei progetti, per organizzare un discorso, prendendomi degli appunti mentali su una consulenza, acquisire informazioni dai podcast del Sole 24 ore. Come molti lavoro mentre mi sposto e mi faccio grandi discorsoni, spesso ad alta voce. Se lo avessi fatto in treno quando andavo all’università avrebbero chiamato l’ospedale psichiatrico, ora si chiama commuting (se non ci metto una parola in inglese nessuno mi prende sul serio). Il commuting identifica l’utilizzo del tempo di spostamento per lavorare. Un’attività che prende una discreta parte del nostro tempo libero, visto che le distanze sono aumentate e il tempo di percorrenza si è dilatato di conseguenza.

Non ho mai chiesto a mio nonno come usasse il tempo della bicicletta, probabilmente rifletteva, programmava, sperava, sognava. Non lo so. Appena mio padre rientrerà dalla Russia gli chiederò come trascorre le sue ore in volo. Immagino che anche lui rifletta sui progetti che sta seguendo, pensi alla famiglia lontana e programmi i lavori da portare a termine.

Il commuting ci offre una prospettiva diversa di noi stessi, sia mentale che spaziotemporale. In questo senso lo spostamento non è più solo fisico ma anche percettivo. Compriamo da New York, vendiamo ad Hong Kong, chattiamo con Mosca, osserviamo le spiagge della Thailandia da una webcam. Siamo diventati nomadi digitali, una tendenza ancor più accentuata per chi lavora nell’IT. Stando a casa o in ufficio, attraverso internet, riusciamo a spostarci velocemente e, pur senza muoversi, a portare a termine progetti importanti, magari coordinando un team sparso su tutti i continenti della terra. In Italia sono già il 30% del totale le aziende italiane che si dichiarano favorevoli al lavoro da remoto. Chissà quanti saranno in futuro? Potremmo definirli digital travellers una categoria di cui facciamo parte anche noi. Stiamo fermi ma possiamo arrivare dall’altra parte del pianeta e allora lo spostamento diventa una percezione del tutto individuale come lo è, del resto, l’essenza stessa del viaggio.

Si stima che siano un miliardo i nomadi digitali, un miliardo. Una cifra impressionante, ma credo che i potenziali nomadi non solo digitali siano, anzi siamo, 7 miliardi e rotti. Spostamento e riflessione sono dall’alba dei tempi una costante dell’essere umano. La scimmia nuda scese dall’albero e migrò, seguendo il desiderio di scoprire cosa c’era oltre l’orizzonte, un desiderio che abbiamo anche oggi. Il viaggio, dunque, è anzitutto una pulsione mentale. Dal punto di vista antropologico potremmo parlare di commuting degli ominidi, perché anche quell’essere antropomorfo che percorse migliaia di chilometri in migliaia di generazioni, durante il suo eterno viaggio pensò a come trasformare l’ambiente circostante cambiando contemporaneamente se stesso e diventando ciò che è oggi. Un viaggio che dura da milioni di anni e che non intende volgere al termine. Forse dentro di noi abbiamo tutti il gene del viaggiatore, una parte di doppia elica che ci porta a spostarci, continuamente. Forse è quel gene che in qualche modo ci salva dalla banalità della staticità, costringendoci ad avere uno spazio tutto nostro in cui poter meditare in pace, in solitudine, su ciò che siamo e dove stiamo andando, così come facevamo davanti al fuoco sotto le brillanti stelle della savana. Dentro di noi non è cambiato nulla.

Dai tempi della bicicletta di mio nonno, le possibilità di commuting si sono amplificate enormemente, anche grazie a tutti i device tascabili che ci offrono una finestra sul mondo. Le occasioni che abbiamo oggi per pensare a come cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda sono diventate immense.

I tempi della bicicletta sono finiti. Internet ci offre la possibilità di compiere un viaggio mentale slegandolo da quello fisico, basta un click. Possiamo leggere un articolo depositato alla biblioteca centrale di New York muovendoci tra il salotto e il bagno e lì rimanendo approfondire sfogliando un tomo digitale ad Oxford. Figuriamoci cosa possiamo fare ogni giorno nelle due ore che in media impieghiamo a percorrere il tragitto che ci porta da casa al lavoro e viceversa. Come diceva Bruce Chatwin “Il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma”. E’ vero, il viaggio ti costringe a conoscere ma soprattutto a conoscerti.

Siamo spinti a spostarci dalle nostre pulsioni, un nomadismo naturale che è anche nomadismo mentale. Un nomadismo che cerca ponti con altri mondi diversi dal nostro, capaci di offrire altre prospettive, altri paesaggi, altri orizzonti, altre occasioni che non avremo mai se non migrando, almeno con il pensiero. Viaggiare ti rende diverso perché “comporta il sacrificio di un programma ordinario a favore del caso, la rinuncia del quotidiano per lo straordinario, (viaggiare) deve essere una ristrutturazione assolutamente personale alle nostre convinzioni” (Herman Hesse).

Il pensiero va quindi a coloro che non viaggiano, neppure attraverso un libro, e rimangono ancorati alla sicurezza del suolo che calpestano ogni giorno. Ne ho visti di imprenditori il cui confine mentale era quello delle mura del capannone. Ho visto anche la crisi fare scempio delle loro aziende. Continuano ancora a non comprendere come possa essere successo.

Non so dove saremo tra qualche decade. Ho un nipote di sette anni. Prima di andare a lavorare deve mangiare ancora tanta polenta, come mi diceva mio nonno, ma è un cucciolo di scimmia nuda e sta già compiendo il suo personale commuting. Chissà dove lo porterà?

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