Non è Google l’intellettuale che ci manca

Che fine hanno fatto donne e uomini di pensiero, come si sentono, che ruolo dovrebbero avere? Sabino Cassese prova a descrivere la crisi della categoria nel suo “Intellettuali”, che recensiamo.

Quando la titolare del B&B di Anagni in cui avevo pernottato la sera prima mi ha mandato un WhatsApp per dirmi che avevo lasciato un libro sotto il cuscino, il primo pensiero non è stato di rammarico.

Ci trovo un fondo di verità nel credere che la parte meno razionale di noi provi a liberarsi in modo incidentale di ciò che non le piace. Oppure – mettiamola così – credo sia quello che mi è successo con l’ultimo libro di Sabino Cassese, edito da Il Mulino, Intellettuali.

Cassese è un uomo del primo Novecento che ha accettato in pieno le sfide contemporanee e non si sottrae alle trasformazioni, non si tira indietro se c’è da dire la sua. Da giurista lo leggo e lo ascolto, prendo spunti e a volte ribalto. Da intellettuale che scrive dei suoi omologhi, però, mi annoia. Lo confesso.

Sta qui il passo falso del libro, di certo scritto nel tempo giusto – l’aridità di pensiero è evidente e dilagante al tempo stesso; la categoria è in crisi nera e non sa che reinventarsi – ma da un pulpito sbagliato. Al Cassese intellettuale, che tenta di stanare i difetti della categoria, già a un quarto di libro si riesce a fargli tana: per quanto nobile possa essere stato l’intento di scrivere centotré pagine in formato tascabile con cui suscitare un mea culpa collettivo, il suo errore più grande è non essersi accorto di far parte del problema.

Provo a spiegare perché.

Sabino Cassese descrive (e incarna) la crisi degli intellettuali

Intanto i pesi del libro: fino a pagina 82 sembra di stare a leggere dentro una bolla del sapere, tra citazioni e riferimenti che disarmano chiunque, malauguratamente e da non intellettuale, si fosse comprato il libro sperando di non sentirsi ignorante e di trovarci dentro un modo differente, più empatico, di esporre le questioni. È solo negli ultimi due capitoli che finalmente si accorge che siamo nel 2021 e che bisogna pensare a un contesto più reale della colta teoria, insistere contro la crisi delle domande interiori aggravate dalla pandemia e rimarcare l’abbandono di una dimestichezza con quelle domande vitali che ci fanno dire ogni giorno che vale la pena campare e anche pensare.

Dei due capitoli finali ho apprezzato il coraggio di essersi buttato in mare pur senza essere un nuotatore esperto, ma i rischi li ha corsi ugualmente. Quando parla di memoria transattiva – “le persone fanno affidamento su quello che possono trovare nel web” – e quando si chiede “se Google diventa una componente del proprio sistema cognitivo, c’è ancora bisogno degli intellettuali?”, la prima sensazione è stata di sconforto. Il web non è lo spazio in cui andiamo a cercare un intellettuale, bensì lo spazio in cui cerchiamo risposte, a volte importanti e spesso banali.

L’intellettuale invece fa le domande, e dovrebbe farle scomode: alla società e alla politica, alla cultura, all’uomo medio, ed è un altro mestiere rispetto a quello di Google e i suoi fratelli. Mi piace, invece, quando rimarca che il vero disastro sociale arriva quando ai cittadini non educati si sommano delegati non competenti: in Italia il disastro è arrivato da tempo, aggiungo io.

Un libro del 2021 denso di cultura di inizio Novecento

Altro scivolone è che tutti i nomi di intellettuali che cita o tutti gli esempi meritevoli di libri e letture che snocciola si fermano a troppo inizio del secolo scorso, come se la sua formazione andasse ostentata e rimarcata rispetto a un passato recente, per non dire a un presente: certo che abbiamo alle spalle secoli di cervelli validissimi, ma non vedo perché non ci si possa sforzare di suggerire a un lettore una strada più attuale.

Mi consola che abbia almeno riportato una frase di Ivano Dionigi, “il latinista”: certo che Dionigi lo è, ma definirlo in modo lapidario ed esaustivo come “il latinista” fa arrivare un puzzo di etichette autorevoli e di sapere lontano che di sicuro non aiuta la messa in circolo della conoscenza, e che per di più poggia polvere e patina sopra persone molto più sfaccettate di come le rappresentano gli intellettuali.

Mi fa sorridere amaro anche quando sottolinea che uno dei contesti in cui trovare ancora gli intellettuali sono i quotidiani: ma chi li legge più i quotidiani, col livello vergognoso di disinformazione che hanno toccato? I dati parlano da soli.

Un finale interessante, ma con l’autore fuori dal suo ambito

Domande buone ne pone, Cassese, ma non con la stessa cura che dedica alle pagine con cui si illude di aver scritto un libro utile sulla crisi degli intellettuali mentre con l’altra mano si incipria il naso del proprio sapere.

Infatti è nei capitoli finali di attualità, quando si addentra nelle logiche del web e dei linguaggi e quando invita gli intellettuali a cambiare registro e comunicazione per parlare a un pubblico più ampio, che un po’ intenerisce perché non poche falle, mentre scrive, gli tolgono la strada sotto i piedi. Mi ha intenerito e ricordato Corrado Augias lo scorso gennaio (86 anni come Cassese) quando, dalla pagine della sua rubrica su Repubblica, si lamentava del servizio clienti di Enel per una mail di richiesta di 92 euro a suo avviso non dovuti, mentre in realtà era stato palese vittima di phishing: io lì, a dire il vero, mi sono resa conto della inesistenza di un editing serio dentro i “grandi” giornali, o ancor peggio dell’inviolabilità dei testi a firma di un intellettuale, e tutto torna per chiudere il cerchio a questo articolo.

Ad ogni modo, il libro rimasto sul cuscino di Anagni poi mi è tornato a casa a mezzo posta. Quanto è bastato per finire di leggerlo in un colpo solo, terrorizzata che il mio vigile inconscio me lo facesse perdere di nuovo.

Perché leggere Intellettuali?

Perché, se si ha la pazienza di arrivare alla parte finale del libro con un Cassese un po’ più libero dalle etichette dell’intellettuale, vale la pena provare a rispondere a certi quesiti che pone.

A me ha lasciato la voglia di capire se gli intellettuali, piuttosto che parlare al grande pubblico, scelgano la strada della consulenza al potere, alle istituzioni; se preferiscano cioè farsi pagare per non pensare o per dare soluzioni comode piuttosto che porsi domande per far tremare la società.

Giuro che non c’è ironia, né polemica, in questo mio dubbio. Ci sto ancora pensando.

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