La vostra occupazione da record fa acqua da tutte le parti

I numeri del lavoro sono cresciuti durante il 2023, ma è un record solo sulla carta: crescono gli inattivi, le assunzioni sono la metà di quelle previste, la contrattazione integrativa è al 4%. E i lavoratori atipici sono abbandonati a loro stessi

21.02.2024
Altro che occupazione da record: degli uffici deserti visti dall'esterno attraverso una finestra

L’occupazione cresce. L’affermazione, in termini assoluti, è incontrovertibile. Dati alla mano il numero di lavoratori in forza a dicembre 2023 conta un aumento del 2%, per un totale di 456.000 unità, rispetto a dicembre 2022. Anche sul mese precedente si registra un seppur stringato miglioramento, uno 0,1% depotenziato dall’aumento dello 0,7% dei contratti a termine. Ma tant’è, sempre di lettura positiva si tratta. Ci sarebbe, quindi, da continuare a festeggiare e brindare al florido periodo occupazionale. Eppure qualcosa non torna.

Qualcosa non torna appena si sposta la mira verso un grado di dettaglio diverso. Guardiamo i subordinati, ad esempio. Per loro la situazione presenta già il primo numero negativo: -0,2%. Particolare che non cambia la sostanza, si dirà, il tasso di disoccupazione è al 7,2% e quello dei giovani supera di poco il 20%: percentuali così non si vedevano da prima della crisi dei subprime, ormai sedici anni fa. Certo, se non fosse che il calo dei disoccupati è in parte da associare alla crescita del numero degli inattivi, coloro cioè che hanno smesso di cercarlo, un lavoro, arrivati come ricorda l’ISTAT al 33,2%. Il tutto con salari da fame. Riprendendo La Notizia, a fronte dell’aumento inflattivo del 5,9%, gli stipendi dei lavoratori italiani sono cresciuti in media del 3,1% rispetto all’anno precedente.

Insomma, il quadro inizia a presentare degli elementi di riflessione interessanti. A questo bisogna aggiungere che sono in attesa di rinnovo ben 29 CCNL, per un totale di 6,5 milioni di dipendenti, ai quali si aggiungeranno il prossimo anno anche quelli del contratto re, il metalmeccanico, che nel biennio 2023-2024 ha supportato e non poco i minimi tabellari grazie ad aumenti ritarati sull’IPCA, la media ponderata degli indici dei prezzi al consumo per i Paesi in area euro.

Altro che lavoro da record: qui c’è da iniziare a riflettere seriamente sul futuro più immediato.

L’occupazione da record non è neppure la metà di quella prevista dalle imprese

Come riportato su X dal presidente della fondazione Adapt Francesco Seghezzi, “i dati sembrano indicare un rallentamento del mercato del lavoro italiano, che continua a crescere ma grazie ad autonomi e occupati a termine e, allo stesso tempo, mostra una crescita di inattivi e un calo dell’occupazione femminile”. D’altro canto, leggendo i dati di Excelsior Unioncamere, rispetto ai 5,5 milioni di assunzioni programmate per il 2023, alla fine non si è arrivati neppure al 50%. Due gli aspetti da prendere in considerazione: il fisiologico calo dell’industria registrato nell’anno, dopo un 2022 clamorosamente positivo, e il numero degli inattivi in crescita, sintomo forse della carenza di competenze ricercate nelle imprese.

Focalizzandoci sul secondo punto torna d’aiuto proprio Adapt, che racconta come per il PNRR uno dei punti fondamentali sia l’incontro tra giovani e imprese, tanto da destinare agli ITS Academy la cifra non irrisoria di 1,5 miliardi. Questo in considerazione della demografia italiana – i lavoratori over 50 sono raddoppiati negli ultimi vent’anni – e del tasso di abbandono scolastico. Ebbene, nonostante lo sforzo, la richiesta di diplomati ITS nel 2023 è stata ben superiore al numero effettivo di iscrizioni. I più difficili da trovare? Siamo alle solite: tecnici elettronici (70,6%), progettisti e amministratori di sistemi (69,8%), attrezzisti di macchine utensili (69,5%).

Una narrativa che non mi convince del tutto. Provo un esperimento, complice la necessità specifica dell’azienda che supporto in termini di selezione del personale. Ebbene, pubblicando su una semplice piattaforma ATS (applicant tracking system) un annuncio per la ricerca di un operatore macchine controllo numerico (cioè, la terza posizione sottolineata dai dati Adapt), i risultati sono stati a dir poco sorprendenti e in controtendenza. Dal 23 gennaio, data della pubblicazione, si sono candidate ben 24 persone, delle quali solo 5 sono risultate inidonee. Le altre 19 hanno iniziato il processo di selezione, culminato con 4 candidature finaliste e ben 2 assunzioni.

E parliamo di una zona del Veneto dove il mercato è saturo e le aziende non sono raggiungibili con facilità, se non dagli autoctoni. Come mai questi risultati? Forse dotarsi di uno strumento tecnologico dai costi tutto sommato irrisori, se paragonato alla mancata produzione derivante dalla carenza di personale, aiuta a raggiungere l’obiettivo. Forse pubblicare un annuncio chiaro, indicazione retributiva compresa, aiuta le persone a orientarsi meglio. O forse lamentarsi sulle pagine della cronaca locale non è uno sforzo sufficiente per superare retaggi culturali retrogradi.

Contratti di secondo livello fermi al 4%: li applicano (poco) quasi solo le grandi aziende

Chiaro, questo non significa fingere che non esistano difficoltà di reperimento, da un lato, e di contrazione del mercato del lavoro, dall’altro. In particolare soffre l’industria, e qui si torna al primo punto, lo strutturale calo del 2023 dopo l’anno record messo a referto nel 2022. Tornano utili, in proposito, i dati Excelsior, con una tendenza negativa sulle assunzioni previste nel mese di gennaio 2024, -2,3% rispetto all’anno precedente. A gennaio l’industria ha programmato 172.000 assunzioni, -1,1% su base annua.

Il tutto condito dalla consueta sperequazione territoriale, con la maggior parte delle assunzioni previste nelle Regioni del Centro Nord, in particolare Veneto e Lombardia: la tanto raccontata Italia a due velocità, che torna a velocità unica quando si parla di contrattazione collettiva e, soprattutto, di contratti integrativi aziendali. I cosiddetti secondi livelli. Come riporta INAPP, istituto nazionale per le attività produttive, negli ultimi quattro anni le aziende che hanno aderito al CCNL sono passate dal 75% all’87%. Dato positivo che, però, lascia perplessi in relazione alla percentuale degli integrativi, applicati appena dal 4% delle imprese.

Vero, si registra un lieve incremento rispetto a un lustro fa, quando la percentuale raggiungeva a malapena il 3,5%. Il problema però rimane, ed è facilmente individuabile nella proporzione tra grandi e piccole aziende in Italia, con le seconde presenti a stragrande maggioranza. Se nel primo caso, infatti, sindacalizzazione e struttura organizzativa possono essere impattanti al punto da alzare la percentuale di contratti integrativi al 14%, nel secondo caso l’assenza di protagonisti competenti fa vacillare in particolar modo gli aspetti culturali di crescita. Questo senza contare i lavoratori atipici, gig economy in testa.

Le debolezze strutturali del lavoro in Italia

La sintesi complessiva è piuttosto chiara. A fronte di elementi in apparenza rassicuranti sul fronte occupazionale, ci sono indicatori che suonano come veri e propri campanelli d’allarme. In primis la crescita costante di inattivi, che erode quota parte della percentuale di disoccupazione, dato che evidenzia carenze strutturali nelle politiche attive così come nella distanza tra domanda e offerta di lavoro. In secondo luogo, il deficit culturale di parte del mondo dell’impresa, incapace di dotarsi di strumenti e competenze utili a formare o sopperire all’incapacità di attrarre le persone giuste all’interno delle organizzazioni. Il terzo fattore è rappresentato dal mondo della contrattazione collettiva, nazionale e di secondo livello, ancora troppo debole e precaria per garantire una corrispondenza salariale degna di questo nome. Infine c’è chi un CCNL nemmeno ce l’ha, con l’esigenza sempre più netta di un salario minimo dal quale partire.

Insomma, ci sono meno disoccupati ma troppi inattivi. E chi, invece, è coperto da un rapporto di lavoro subordinato, spesso paga dazio con stipendi da fame. Fadda, presidente INAPP, a commento dei dati raccontati, ha dichiarato che “un salario minimo per legge non sarebbe un salario sostituivo dei salari definiti dalla contrattazione collettiva, ma semplicemente una soglia minima invalicabile al di sotto della quale le retribuzioni non possono scendere, ci sia o non ci sia contrattazione collettiva”.

Questo è il primo punto. Il resto lo dovrebbe garantire lo sviluppo culturale del Paese.

 

 

 

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