Orientamento sessuale, il 16,8% dei discriminati abbandona i territori. E la PA fa rete

Gli enti pubblici sono sensibili all’inclusione delle persone LGBT e reagiscono con attività di formazione e accoglienza. Vediamo come con Cinzia Melis, della segreteria nazionale della rete RE.A.DY.

Discriminati per l'orientamento sessuale, due donne in tailleur si tengono la mano davanti a una bandiera arcobaleno

La promozione dei diritti non dovrebbe mai conoscere steccati e men che meno compartimenti stagni tra ambiti. Su SenzaFiltro abbiamo parlato di prevenzione sul fronte discriminazioni riferite all’orientamento sessuale per quanto riguarda i contesti aziendali, sia grandi che piccoli, ma nel settore pubblico qual è la situazione? Per scoprire il lavoro che si sta facendo a questo livello ci confrontiamo direttamente con RE.A.DY., la rete nazionale delle Regioni, province autonome ed enti locali che ha come obiettivo la prevenzione e il superamento delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere.

RE.A.DY., la PA che fa rete contro le discriminazioni sull’orientamento sessuale

RE.A.DY. nasce a Torino nel 2006 nell’ambito del Pride nazionale: il suo primo vagito è rappresentato dalla condivisione della cosiddetta Carta di Intenti che mette in rete 12 pubbliche amministrazioni di tutta Italia, tra cui Regioni ed enti locali. A riunire i vari e le varie rappresentanti di queste pubbliche amministrazioni è stata la Città di Torino, in sinergia con il Comune di Roma.

Ad oggi sono in tutto 276 gli enti partner che aderiscono alla rete. “La condivisione di buone prassi è uno dei suoi elementi più significativi”, sottolinea a questo proposito Cinzia Melis, funzionaria in posizione organizzativa del servizio LGBT della Città di Torino che gestisce la segreteria nazionale di RE.A.DY.

Le buone prassi menzionate riguardano la promozione dei diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, transgender, ponendo al contempo attenzione nei confronti di altri fattori di discriminazione che si possono sovrapporre, come ad esempio il genere, l’età, la disabilità, l’origine etnica e l’orientamento religioso.

“Il confronto tra enti diversi per grandezza, tipologia e territorialità aiuta a ispirarsi e riprodurre sui vari territori iniziative molto diverse tra loro”, spiega la referente. Focalizzandoci sul nostro tema cardine, Cinzia Melis ci fornisce alcuni esempi di progettualità: “Sono stati realizzati percorsi formativi per il superamento delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere rivolti non solo a dipendenti di enti pubblici, ma anche a insegnanti, studenti e personale della scuola. Ulteriori iniziative sono i tavoli interistituzionali con altri enti pubblici e terzo settore, per coordinare le azioni sui territori, e gli eventi di sensibilizzazione rivolti alla cittadinanza in collaborazione con le associazioni LGBTQI. Sono stati inoltre attivati degli sportelli antidiscriminazioni che accolgono persone LGBTQI, offrendo loro supporto in diversi ambiti della vita”. Anche la divulgazione culturale ha avuto il suo ruolo: “Alcune biblioteche civiche realizzano spazi tematici e percorsi bibliografici sia per le persone adulte che per bambini, bambine e adolescenti”.

L’inclusione lavorativa è uno dei nostri temi centrali e chiediamo quali iniziative siano state concretizzate su questo fronte, sempre a livello di enti pubblici. “Alcuni enti, che coinvolgono grandi città e piccoli Comuni, hanno previsto per i e le dipendenti transgender e non binary la possibilità di utilizzare il nome di elezione in ambito lavorativo, per esempio sui cartellini identificativi o per gli account e-mail”.

Se da un lato si configura come un traguardo, dall’altro riteniamo che questo aspetto dovrebbe essere garantito a priori da tutti gli enti, nessuno escluso.

Orientamento sessuale e discriminazioni, gli enti pubblici rispondono in ordine sparso

Andiamo avanti accendendo i riflettori su quelle dinamiche di discriminazione la cui scorza da scardinare richiede ulteriori strategie, come evidenzia Cinzia Melis: “All’interno dei bandi per la concessione di contributi, alcuni enti hanno previsto il sostegno allo sviluppo di attività progettuali volte a favorire l’inserimento lavorativo delle persone LGBT, in particolare delle persone transgender, che subiscono ancora una forte discriminazione nell’accesso al lavoro”.

Dalle nostre recenti interviste e dalla stessa indagine ISTAT-UNAR 2020-2021 sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBT+ ci viene sempre più confermato quanto la formazione gestita da esperti risulti essenziale all’interno delle aziende per prevenire e contrastare dinamiche quali pregiudizi, discriminazioni e omolesbobitransfobia. Qual è la situazione attuale a livello di formazione dei e delle dipendenti pubblici sul tema?

“Noi possiamo commentare solo le attività formative degli enti partner della rete”, precisa Cinzia Melis. “Possiamo allo stesso tempo dire che, a differenza del passato, oggi la formazione su queste tematiche è ritenuta da molte pubbliche amministrazioni, così come da diverse aziende private, una necessità con il fine di garantire da un lato il benessere organizzativo, dall’altro maggiori strumenti per rispondere alle richieste delle persone LGBTQI che si rivolgono ai servizi. Sono infatti numerosi gli enti aderenti alla RE.A.DY. che, anche in collaborazione con le associazioni del territorio, hanno organizzato e organizzano percorsi formativi rivolti ai e alle loro dipendenti”.

La formazione nel pubblico, come nel privato, sembra, almeno a livello della rete, evitare dinamiche standardizzate e mirare invece alle peculiarità: “Per esempio alcuni enti hanno scelto di formare soprattutto dipendenti che svolgono mansioni di front office, altri hanno offerto una formazione più eterogenea, laddove magari il numero dei e delle dipendenti risulta più ridotto. Altri enti hanno dedicato i percorsi formativi alle figure apicali. In un’ottica di ottimizzazione delle risorse, soprattutto per i Comuni più piccoli, alcuni enti hanno deciso di organizzare percorsi formativi in ‘rete’, coinvolgendo più amministrazioni”.

La rete RE.A.DY. stessa, in occasione dell’ultimo incontro annuale, ha presentato agli enti partecipanti il progetto formativo dal titolo PA.RI – Pubblica Amministrazione Risorse per l’Inclusione: “Il progetto, nato dalla collaborazione tra l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali e Formez PA e finanziato dal PON inclusione, è finalizzato al rafforzamento della capacità della pubblica amministrazione di prevenire e rimuovere discriminazioni rivolte a soggetti vulnerabili e a rischio di esclusione sociale”.

“I e le dipendenti pubblici possono seguire diversi percorsi formativi attraverso una piattaforma e-learning”, precisa Melis. “Il progetto è attualmente in fase sperimentale e diversi enti partner hanno già aderito”.

Geografia delle discriminazioni: quando le vittime preferiscono trasferirsi

La rete RE.A.DY presenta una sua articolazione, a seconda dei territori e della tipologia di enti, che ci offre un quadro interessante: a essa aderiscono 91 partner al Nord, 138 al Centro e 47 al Sud, che registra ad oggi il numero minore di adesioni. Riguardo alle tipologie di enti pubblici coinvolti troviamo: 233 Comuni, 8 Regioni, 17 Province e città metropolitane, 18 organismi di parità, municipi, associazioni di Comuni e comunità comprensoriali.

RE.A.DY non ha attivo un osservatorio nel senso letterale del termine, ma si confronta con diverse istanze comunque intercettate. Cogliamo l’occasione per approfondire la questione dell’omolesbobitransfobia. Il fenomeno risulta più diffuso in alcuni territori italiani o in determinate tipologie di contesti, come ad esempio piccole o grandi città, piccoli Comuni?

“Confermo che la nostra segreteria nazionale non svolge un ruolo di raccolta dati”, spiega Cinzia Melis. “Abbiamo comunque rilevato in questi anni che l’interesse per queste tematiche è molto diffuso, oltre che nelle città più grandi, anche nei piccoli Comuni, che sono la maggioranza in Italia. Il fatto che le amministrazioni locali dichiarino vicinanza e svolgano attività su questi temi ha sicuramente una ricaduta importante sulla cittadinanza ed evita il fenomeno dei trasferimenti nei grandi centri che spesso ha caratterizzato le vite delle persone LGBTQI”.

A questo proposito ci agganciamo all’indagine ISTAT-UNAR 2020-2021, che rileva un dato emblematico: “Il 16,8% degli individui si è trasferito in un altro quartiere, altro Comune o all’estero per poter vivere più tranquillamente la propria omosessualità o bisessualità (il 12% in un altro Comune, il 3,4% all’estero). Il 16,7% è stato trattato male dai vicini di casa; il 13,1% dichiara di essere stato trattato/a meno bene degli altri in uffici pubblici, mezzi di trasporto, negozi; il 10,4% ha avuto problemi in ambiente sanitario da medici, infermieri o altro personale dei servizi sociosanitari”.

Fatta questa premessa, chiediamo: avete mai ricevuto segnalazioni, relativamente a questo tipo di dinamica, all’interno della vostra rete? E in ogni caso, che cosa proporreste per contrastare questo fenomeno di abbandono del territorio per sfuggire da contesti discriminanti? “Gli enti che aderiscono alla rete si connotano come luoghi accoglienti per le persone LGBTQI, attivando buone pratiche di inclusione e cercando di rendere sempre più ‘sicuri’ per esse i loro territori”, evidenzia Cinzia Melis. “In alcuni casi l’adesione alla rete è nata proprio come risposta istituzionale a episodi di omolesbobitransfobia avvenuti nei territori di appartenenza. L’adesione alla rete e la sottoscrizione della Carta di Intenti conferma chiaramente l’intenzione di prevenire e ostacolare con forza le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere sul proprio territorio, anche in un’ottica intersezionale”.

 

 

 

Photo credits: skuola.net

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