Il whistleblowing diventa film. Federico Anghelé, The Good Lobby: “Senza una legge sul tema rischia anche il PNRR”

Il regista Marco Ferrari, intervistato da SenzaFiltro: “Nel documentario protagonisti distantissimi usavano le stesse parole: mobbing, isolamento, stress psicologico”. E l’Italia è ancora in ritardo rispetto alla direttiva europea sul whistleblowing.

Mobbing, intimidazioni, tentativi di coinvolgimento, intimidazioni, isolamento. Nel migliore dei casi indifferenza totale da parte di capi e colleghi. È spesso questo il destino dei whistleblower, lavoratori che con coraggio segnalano illeciti all’interno del loro contesto professionale. Coraggiosi e indispensabili, se pensiamo che la corruzione è un sistema criminale che in Italia muove, secondo le stime del Centro Rand, più di 230 miliardi l’anno. Somma non semplice da verificare, ma l’impatto negativo sulla qualità della vita e dei servizi pubblici – oltre che sui concetti di democrazia ed eguaglianza – è invece sotto gli occhi di tutti.

Peccato che la bontà delle azioni di chi denuncia, al contrario,  sia difficile da raccontare, e paradossalmente anche da definire. Perché se il termine whistleblowing in inglese ha un’accezione più che positiva, la stessa cosa non si può dire per l’italiano, che nel suo vocabolario presenta espressioni, per così dire, poco nobili. Delatori, talpe, gole profonde. Semplifichiamo in modo brutale? Chi fa la spia non è figlio di Maria.

Questione culturale tipicamente nostrana, e raccontata in modo magistrale dal regista e sceneggiatore Marco Ferrari nel suo film La Bufera, cronache di ordinaria corruzione, proiettato lo scorso 8 giugno nella Sala Conferenze Palazzo Theodoli-Bianchelli della Camera dei deputati. Un momento di confronto interessante, all’interno dell’evento dal titolo: “Il ruolo del whistleblowing per proteggere il PNRR”, che tra gli altri ha visto la partecipazione di Anna Macina, Sottosegretario al ministero della Giustizia. Occasione utile, in particolare, per capire a che punto è il recepimento della direttiva europea 2019/1937 sulla materia, considerato che l’Italia è tuttora in infrazione comunitaria per il mancato adeguamento nei tempi previsti.

A sentire la Macina, sembra che la legge sia sul tavolo. “Confidiamo che vi sia la sensibilità di tutte le forze politiche per ottenere il risultato sperato, perché appena approvata la legge da parte del Senato il Governo avrà l’obbligo di produrre entro tre mesi il decreto applicativo”, spiega Federico Anghelé di The Good Lobby, organizzazione non governativa promotrice dell’iniziativa. “Non possiamo permetterci passi falsi con il PNRR, o peggio l’onta di possibili casi di corruzione legati al piano. Per questo serve una normativa più completa a tutela del soggetto che denuncia l’illecito”.

Osservazione corretta, ripensando al film, visto che racconta la storia vera di sette whistleblower trattati, dopo la denuncia dei crimini, come autentici traditori. Vittime, nei fatti, della loro stessa organizzazione. Vale la pena approfondire.

Marco Ferrari, dopo aver visto il film la domanda è d’obbligo: quant’è dura la vita del whistleblower?

Durissima, perché il dramma tocca la tua esistenza a 360°. Nasce all’interno del luogo di lavoro ma la cosa non finisce lì, il problema te lo porti a casa. Sono scelte che impattano sull’intera vita della persona che denuncia, e di questo non si parla abbastanza. Pensa ai piccoli Comuni, dove i protagonisti li incontri ogni giorno per strada, a quanto queste vicende possano diventare di dominio pubblico.

Il titolo originale è Never whistle alone. Però, a ben vedere, i tuoi personaggi fischiano da soli. E vivono un isolamento conseguente che incute timore.

Abbiamo scelto un titolo originale in inglese per una doppia ragione. In primis il respiro internazionale, anche se si tratta di fatti italiani, che porta con sé una provocazione di genere. Sembra quasi un film dell’orrore, incentrato sull’atmosfera che i personaggi vivono, un universo di tensione molto simile al thriller. L’altro motivo è la volontà di indicare nel titolo un suggerimento: non fatelo da soli. Quando si affronta questa strada bisogna sapere su chi potersi appoggiare, perché il percorso è lungo, faticoso, psicologico.

In effetti la cosa che più ho apprezzato è l’approccio di relazione verso un tema complesso. Impressiona pensare che la denuncia rappresenti, anziché il lieto fine, l’inizio di un lento calvario.

Vedi, il mobbing è il primo strumento per arginare il whistleblower. Una goccia che scava la pietra, con pratiche pensate sul lungo periodo. Singoli eventi magari insignificanti se presi singolarmente, ma quando poi diventa prassi quotidiana la tua libertà ne risente. E ti devasta al punto da diventare malattia.

Mazzette, minacce, prepotenze, trasferimenti. La Bufera racconta un ventaglio di angherie non indifferenti. Con quale stato d’animo un regista ascolta e interpreta queste situazioni?

Lavorare a un documentario sociale con drammi di fondo è faticoso, bisogna entrare in empatia con l’interlocutore, vivere quelle emozioni. A questo si aggiunge la difficoltà della tematica, molto tecnica perché legata a specifiche professionalità. Serve un impegno di analisi e ricerca molto profondo, capire la terminologia e il contesto, per afferrare l’origine del conflitto di interessi o della truffa.

Alla fine, però, hai deciso di ricondurre le sette vicende a fattor comune, raccontando una storia collettiva. Perché?

Tra tutti gli aspetti legali e tecnici, la cosa che mi ha colpito di più è la vicenda umana di ciascun caso. All’inizio cercavo un episodio esemplare ma, durante le mie interviste, mi sono accorto che i protagonisti, per raccontare avvenimenti anche distantissimi tra loro, utilizzavano le stesse parole. Le situazioni si ripetevano: mobbing, isolamento, stress psicologico. Per questo abbiamo deciso di portare una visione d’insieme.

Il progetto non è nato ieri, l’inizio dei lavori risale al 2015. Com’è cambiata la narrazione del whistleblowing negli ultimi sette anni?

Domanda difficile. I processi normativi in genere sono molto lunghi. Sotto questo punto di vista la novità è rappresentata dalla direttiva europea. Di fondo c’è l’intenzione di implementare l’ambito della tutela. Però il processo va molto a rilento. Sotto l’aspetto sociale, invece, ho vissuto una bellissima sorpresa quando tramite Keaton (piattaforma distributiva di taglio sociale) siamo sbarcati nelle scuole. Pensavo annoiasse; all’opposto, i ragazzi si sono dimostrati pubblico attento, capace di ragionare su tematiche che riguardano il loro futuro. Credo sia questo il fattore di cambiamento più importante.

Nel film affronti perlopiù la pubblica amministrazione, ma anche nelle piccole imprese private gli abusi di potere sono all’ordine del giorno. Basti pensare al tanto dibattuto tema della sicurezza sul lavoro.

Un mondo difficile da approfondire. Per certi versi il business tra privati è se possibile ancor più selvaggio. La pubblica amministrazione, quando si avvale di fornitori privati, ha regolamenti certi. Quindi è facile individuare l’abuso. Nel privato è diverso, senza etica e sostenibilità rischia di diventare terra di nessuno. Di strada da percorrere ce n’è tantissima, però partire dalla PA è importante, a maggior ragione perché ha ricadute sociali dirette sulla comunità.

In coda al lungometraggio scorrono diversi dati interessanti, tra cui la media di due denunce al giorno. Un dato sottostimato a causa del sommerso o da ridurre grazie a leggi e cultura?

Guarda, non ti saprei dire. Se la statistica è basata sulla popolazione italiana, allora il dato è tuttora molto basso. Però se devo riflettere di pancia e con emotività, pensare che ogni giorno due persone si recano al lavoro e denunciano illeciti è una notizia dirompente. Dopodiché, sono convinto che il sommerso non sia irrilevante.

Nel capitolo 4 della pellicola parli di contrattacco al sistema corrotto. Uno spunto di rivalsa verso un contesto malato, che non tutti purtroppo riescono a cavalcare.

In questa parte del film la storia comune torna a essere individuale. La conclusione dipende da tanti fattori. Ci sono finali positivi, come la storia di Raphael Rossi, che grazie alla sua resistenza e professionalità oggi è manager affermato e dirige lo smaltimento rifiuti in una città importante. Altri, invece, faticano a sopportare il peso di questa responsabilità. Serve anche fortuna.

Di questo progetto cosa ti rimane?

Un’esperienza intensa, difficile da cancellare. Ho conosciuto persone che si sono fidate di me, che mi hanno affidato pezzi della loro vita, con le quali ho costruito un rapporto di intimità profonda. È appagante, uno dei motivi per cui faccio questo lavoro. Infine, rimane senza dubbio la voglia di continuare ad affrontare tematiche di interesse sociale, che non mi limitino soltanto all’esperienza cinematografica.

Leggi gli altri articoli a tema Whistleblowing.

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Nella foto di copertina, un’immagine tratta dalla locandina del film La Bufera.

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