Tanta carne al fuoco, ma il problema al momento non è stato ancora debellato. “Parlare di sfruttamento minorile mi sembra francamente esagerato, una caratterizzazione catastrofistica che non aiuta a migliorare le cose”, spiega a SenzaFiltro Ivana Barbacci, segretaria generale di CISL Scuola. “Però è chiaro che ci sono molti casi di abuso, perché le aziende non svolgono in maniera adeguata il loro compito educativo in assetto lavorativo professionale”.
Qual è quindi la strada da seguire? “Noi da sempre auspichiamo una sorta di sistema integrato tra scuola e mondo del lavoro. Un cambio di passo che in passato non è stato agevolato, anche perché non c’erano strumenti normativi che consentivano alle scuole di potersi misurare in questa relazione. Una relazione che non può essere costruita semplicemente per rispondere alle esigenze dell’azienda, ma che deve avere a cuore lo scopo primario: mantenere il livello di formazione anche fuori dalle quattro mura degli edifici scolastici. Il principio è immaginare un’attività formativa, durante gli studi, in un assetto non d’aula, ma con un profilo professionale e lavorativo”.
Più facile a dirsi che a farsi. “Per arrivare a questo obiettivo serve una serie di strutture sia all’interno delle scuole che dentro l’azienda. Ad esempio, il tutor nelle istituzioni scolastiche è una specializzazione che va sempre più affinata, diciamo specializzata, con insegnanti dedicati alla ricerca di aziende adeguate. La stessa cosa vale anche per le stesse aziende, che non possono immaginare di accogliere ragazzi in alternanza lasciando tutto intatto all’interno del proprio organigramma. Trattandosi di attività formativa, le realtà organizzative che si candidano devono giocoforza dotarsi di alcune professionalità in grado di accogliere i ragazzi nel migliore dei modi”.
Nella pratica, però, il panorama industriale italiano è costellato per la stragrande maggioranza da piccole medie imprese, non strutturate secondo i canoni descritti, e anzi restie ad approfondire la questione. “Servono incentivi, dobbiamo spronare il sistema per riuscire a costruire cultura, così da agevolare figure qualificate anche all’interno del processo organizzativo di queste specifiche realtà. Altrimenti gli imprenditori da soli non ce la possono fare e, mi consenta, non hanno nemmeno l’interesse per farlo. Che ci guadagnano, in fin dei conti? I ragazzi non producono e non devono partecipare al processo lavorativo, sono nei fatti inutili se inquadrati nel semplice contesto di profitto”.
Forse è meglio utilizzare il condizionale: i ragazzi non dovrebbero partecipare al processo produttivo. “Se utilizzi male lo strumento sconfini nell’abuso. Senza parlare per forza dei trecentomila infortuni, anche solo accogliere uno studente e impiegarlo a produrre fotocopie è un uso improprio, perché i ragazzi vanno coinvolti secondo dinamiche educative e non operative. Devono avere qualcuno al loro fianco, secondo una sfida formativa non automatica. Noi crediamo che i ministeri di Istruzione e Lavoro debbano implementare un albo che certifichi l’idoneità delle aziende ad accogliere i ragazzi in PCTO, strutturato secondo specifici requisiti. Questa è la nostra proposta concreta, per combattere ogni forma di spontaneismo, anche di buona volontà, che sconfini in usi e abusi”.
Un albo può essere una buona idea. Oppure un ulteriore e semplice cavillo burocratico. “In molti casi parliamo di minori. Capisco la necessità di rendere le procedure snelle ed efficaci, ma dobbiamo concentrarci sul bisogno primario della formazione, percorribile attraverso incentivi e contributi. Qualcuno deve mettere soldi per agevolare la partecipazione attiva delle piccole medie imprese. In particolare nelle Regioni del Sud, dove già il grosso del problema sta nel fatto che neanche ci sono le aziende. Davvero, non possiamo lasciare i giovani studenti alla buona volontà delle persone, con scuole abbandonate a sé stesse. Al contrario, quando l’alternanza scuola lavoro diventerà un percorso incentivante per le imprese, allora potremo dire di aver invertito la rotta”.
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