Perché lo sport veste poco italiano

Su due delle ventiquattro magliette ufficiali degli Europei 2016 è cucito un logo italiano. E in nessuno dei due casi si tratta della divisa azzurra. A rappresentare il made in Italy in terra francese sono le nazionali dell’Islanda e dell’Albania, vestite da Erreà e Macron, due delle principali aziende di abbigliamento tecnico-sportivo del nostro paese. […]

Su due delle ventiquattro magliette ufficiali degli Europei 2016 è cucito un logo italiano. E in nessuno dei due casi si tratta della divisa azzurra. A rappresentare il made in Italy in terra francese sono le nazionali dell’Islanda e dell’Albania, vestite da Erreà e Macron, due delle principali aziende di abbigliamento tecnico-sportivo del nostro paese. Fra le poche a riuscire e a reggere la competizione internazionale.

La favola dell’Islanda parla anche italiano

La maglia dell’Islanda, “squadra simpatia” di Euro2016, è stata ritenuta la più bella della competizione dallo storico quotidiano sportivo francese L’Équipe. Un riconoscimento prezioso, se si pensa che sia la nazionale islandese che Erreà sono new entries del campionato europeo. Ma anche il frutto di una lunga collaborazione, come ha spiegato a SenzaFiltro Fabrizio Taddei, Export Manager dell’azienda a conduzione familiare di San Paolo in Torrile (Parma): “Lavoriamo con la Federazione islandese dal 2002. Proprio l’ottimo rapporto di lavoro, di amicizia e di partnership stabilito in questi quattordici anni è uno dei motivi per cui, adesso che sono diventati ‘famosi’ e hanno ricevuto importanti offerte, hanno deciso di rimanere con noi”.

Se marchi come Diadora, Lotto e Kappa hanno vissuto in passato tempi di gloria, oggi le aziende italiane faticano a farsi spazio tra i colossi del teamwear, prestigiosa nicchia dello sportwear. Gli Europei di Francia 2016 sono la fotografia dell’oligopolio che regna nel settore. Nove le magliette firmate Adidas, vera regina delle sponsorizzazioni calcistiche; sei quelle che si è aggiudicata la Nike e cinque le maglie Puma (compresa quella degli azzurri). Una maglietta ciascuno, infine, per Erreà, Macron, Umbro e Joma. Anche le anticipazioni sulle divise dei prossimi campionati per club rispecchiano la tendenza. Dalle italiane Juventus e Milan, alla tedesca Bayern Monaco alle inglesi Chelsea e Manchester United, il marchio Adidas continua a trionfare, seguito da Puma e Nike, e da qualche “comparsa”, come New Balance. Nike e Adidas non a caso occupano il primo e il terzo posto (il secondo è di un’emittente televisiva, ESPN) nella classifica annuale dei brand sportivi più ricchi al mondo, stilata dalla rivista americana Forbes.

La competizione internazionale si avverte anche in casa nostra: le big della serie A vestono tutte straniero. Mentre i brand italiani, a parte qualche eccezione, si fanno strada più all’estero. Si pensi al caso Macron, azienda di Crespellano di Valsamoggia (Bologna) nata nel 1971 da un semplice negozio di articoli sportivi. Il suo export in dieci anni è passato dallo 0 al 70% del fatturato (80 milioni di euro totali) e il primo mercato straniero è l’Inghilterra, dove nel 2014 il Reebok Stadium del Bolton Wanderers Football Club è diventato il Macron Stadium. Il prossimo passo è la quotazione in Borsa. Quanto a Erreà, ricava dal mercato straniero – e in particolare da Regno Unito e Olanda – almeno la metà del suo fatturato (circa 50 milioni di euro totali). Dopo l’Islanda agli Europei, rappresenterà alle Olimpiadi di Rio 2016 i comitati Olimpici di Gabon, Senegal e Rwanda e le nazionali di pallavolo di Olanda, Francia e Portorico.

Mancanza di cultura sportiva e falso: i limiti del mercato italiano

Ma perché le aziende italiane del settore devono spesso parlare straniero per farsi comprendere? Una delle ragioni è la mancanza in Italia di una vera cultura sportiva, il paradosso di un paese dove tutti sono tifosi e si improvvisano allenatori e opinionisti. “All’estero – afferma l’Export Manager Erreà – il tifoso ama andare alla partita indossando la maglia della propria squadra, che deve essere originale”.
Un altro degli ostacoli alla competitività del made in Italy nel comparto dell’abbigliamento tecnico-sportivo è proprio la contraffazione del merchandising. In Italia il mercato dei prodotti ufficiali rende davvero poco, ad eccezione di squadre come Juventus e Milan, nona e decima nella top ten dei club del mondo per maglie vendute nella scorsa stagione. Si stima che il mercato del merchandising illegale causi un mancato introito di circa 10 milioni l’anno per ogni big del campionato italiano, praticamente l’equivalente dell’acquisto di un calciatore di fascia media.

Fantasia, qualità e flessibilità: così si può sfidare lo strapotere dei colossi

Ma una decisione controcorrente come quella di “snobbare” le multinazionali straniere può avere diversi vantaggi. Ad esempio, se i contratti con i grossi marchi prevedono generalmente prodotti standardizzati, con minime possibilità di personalizzazione, la concorrenza italiana offre alle squadre una maggiore libertà nel disegnare la propria immagine. Uno dei casi più eclatanti è quello del Napoli che – firmando nel 2008 un contratto di sponsorizzazione con Macron – ha potuto indossare nel 2014 una maglia non convenzionale quanto discussa come quella camouflage.

È proprio la flessibilità uno degli elementi chiave per vincere la concorrenza. “Quello che cerchiamo di fare in Erreà – racconta Taddei – è lavorare insieme ai clienti, chiedere loro qual è la loro maglia ideale. Ogni maglia che disegniamo per i nostri club professionistici è personalizzata. Siamo una specie di sartoria industriale, in grado di fornire un prodotto personalizzato in tempi brevi, senza dover attendere sei mesi per un container dalla Cina”. “Ciò è possibile – aggiunge – perché noi siamo produttori, altri sono marchi che usano parti terze per produrre”.

Insomma, il segreto è differenziarsi: “Non puoi scontrarti con chi fattura miliardi usando le sue stesse armi. Noi – spiega l’Export Manager – cerchiamo di essere degli specialisti e non dei distributori. Il teamwear è un mercato piuttosto complicato: meglio avere una struttura media e flessibile, che ci permette di lavorare con gli amatori e non solo con i professionisti, piuttosto che gigante e rigida”.

La differenza si gioca anche sulla qualità delle materie prime: ad esempio Erreà è l’unica azienda del teamwear ad aver ottenuto la certificazione Oeko Tex, il principale istituto internazionale che testa la qualità e la sicurezza dei tessuti. Ancora, fondamentale è puntare sulla genialità insita nel DNA del made in Italy. “Fantasia, creatività e flessibilità – conclude Taddei – devono essere le nostre armi contro lo strapotere delle grandi multinazionali, per continuare la grande tradizione manifatturiera italiana che, nello sport come altrove, c’è e continuerà sempre ad esserci”.

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