Più di un giorno alla settimana non è peccato

Non so se ci avete fatto caso, ma dopo almeno tre anni di convegnistica sul tema dello smartworking di cui tanto si è parlato e pochissimo concretizzato, dal lockdown in avanti gran parte dei commenti sui social e ai webinar non hanno fatto altro che sottolineare che: “quello che. stiamo facendo non è smartworking, ma […]

Non so se ci avete fatto caso, ma dopo almeno tre anni di convegnistica sul tema dello smartworking di cui tanto si è parlato e pochissimo concretizzato, dal lockdown in avanti gran parte dei commenti sui social e ai webinar non hanno fatto altro che sottolineare che:

  • “quello che. stiamo facendo non è smartworking, ma telelavoro!”
  • “non confondiamo l’home office con lo smartworking!”
  • “c’è una bella differenza fra il lavoro da casa e il lavoro agile!

Tutto giusto, ma anche ridondante, mi viene da dire.

Tutto giusto perché, come più volte ricordato, il lockdown è stato per certi versi e per fortuna il fallimento di alcuni modelli di pensiero e di manutenzione dei piccoli poteri da parte di alcune direzioni del personale e organizzazioni sindacali fortemente convinte che “più di un giorno alla settimana fosse impossibile”.

Ma anche l’evidente rivelazione che dietro a questi progetti di smartworking non ci fosse il supporto fondamentale e ancor più importante di una formazione capace di convincere e allenare i “Capi” alla gestione dei lavoratori a distanza, insegnare ai collaboratori a gestire progetti e processi da remoto, investire in tecnologie e piattaforme capaci di virtualizzare adeguatamente i team e la loro operatività.

Perchè non crederete mica che certi accrocchi tipo Meet, Teams, Skype, Zoom, ideati da ingegneri e programmatori che evidentemente non hanno mai fatto una riunione in vita propria, siano gli strumenti adeguati per gestire la complessità e il numero di confronti quotidiani fra collaboratori e organizzazioni?

Dunque, dopo l’ubriacatura di case history farlocche degli ultimi tre anni, il lockdown ha definitivamente spogliato il Re e messo ogni tipo di organizzazione di fronte alle proprie responsabilità e soprattutto alla necessità di un passo culturale prima ancora che operativo.

Adesso dunque, è l’ora di smetterla di puntualizzare sui termini e remare tutti nella stessa direzione:

Scegliere i luoghi da cui lavorare a seconda delle proprie necessità economiche, familiari, rispettare i propri valori;

Operare per obiettivi e non per numero di “beggiate”;

Recarsi in ufficio quando è ritenuto effettivamente indispensabile e strategico ai fini di una riunione, di un progetto, di un allineamento con i colleghi.

Fra gennaio e febbraio di quest’anno FiordiRisorse ha lanciato una indagine attraverso il proprio network al fine di realizzare una ricerca sulla cultura del lavoro nelle imprese. I risultati in termini di risposte sono stati straordinari e ci hanno dato un’immagine molto realistica e totalmente diversa dai dati confrontati con altre ricerche dei vari osservatori universitari, associazioni manageriali e soprattutto industriali, lette nei mesi scorsi. La ricerca è stata poi ampliata sui temi dello smartworking durante il lockdown per verificare lo stato delle imprese “prima” e “dopo”.

Come è stata realizzata la ricerca, la composizione degli intervistati e le risposte nel dettaglio potete leggerle scaricando la ricerca.

Da cani da pastore a manager

É doveroso fare una premessa sulla mia posizione in merito al concetto di smartworking troppo spesso considerato più un insieme di procedure legali e amministrative e che invece ritengo sia uno strumento di rilevazione dello stato di salute dell’ambiente lavorativo e di quanta cultura del lavoro venga generata in azienda. Senza cui nessun processo di innovazione avrà mai senso.

Fra i dati raccolti, c’è quello riguardante l’attenzione che l’azienda presta ai propri collaboratori valorizzandoli e permettendo loro di interagire e anche di interferire nelle decisioni. O quantomeno nella possibilità di esprimere opinioni. Il che, a mio avviso qualifica il livello di attenzione che l’organizzazione presta al valore della fiducia.

Per come la si voglia leggere, almeno un dipendente su due non si sente valorizzato e libero di esprimersi sul luogo di lavoro.

Da qui in avanti è evidente quanto ci sia da fare prima che un’organizzazione possa permettersi di fare quel cambio culturale per permettersi il lusso di avere lavoratori lontani dalle scrivanie e dagli occhi di quei “cani da pastore” citati da Marco Bentivogli in un articolo su Repubblica.

Marco Bentivogli, ha scritto la presentazione, commentando la Ricerca di FiordiRisorse

La fiducia è il valore primario senza il quale non può esistere un contratto credibile fra le due parti. E purtroppo, su questo tema siamo ancora molto indietro se pensiamo che ancora molte delle nostre aziende costruiscono il patto fra dipendente e azienda sulla catena di comando e controllo.

Altri due dati interessanti che emergono dalla ricerca riguardano la situazione pre – covid riguardo a quante aziende avessero già attivato lo smartworking (un giorno alla settimana / due giorni al mese).

Un dato incoraggiante per certi versi, se messo in relazione con l’aggiornamento che abbiamo lanciato durante il lockdown dove – ricordiamolo – solo grazie ad un’epidemia abbiamo visto quanto sia stato veloce il primo processo di innovazione in area Risorse Umane da 50 anni a questa parte, che ha portato le aziende a riorganizzarsi e a dare continuità operativa a dispetto di tutti i retropensieri e i pregiudizi.

Tornare in ufficio?

Infine, è bene fare chiarezza su quali siano i prossimi scenari.

Abbiamo già risposto e preso una posizione molto chiara nei confronti delle dichiarazioni di Beppe Sala e di un’economia che sta pagando da sola i risultati di scelte auto riferite che per anni hanno portato valore e investimenti in un’unica direzione. Non lo affronteremo qui.

Restiamo invece su quelli che sono i veri cambiamenti a livello sociale. Le aziende più strutturate (multinazionali con sede in Italia e multinazionali italiane con sedi all’estero) hanno già esteso il lavoro agile per tutto il 2021. Alcune di queste stanno già ripensando le proprie sedi e gli uffici per attività differenti. Servono spazi culturali, formativi, coworking di qualità.

Le aziende medio grandi si stanno tutte livellando sui 2-3 giorni la settimana di lavoro agile. Questo significa un’occupazione degli uffici al 30% e la possibilità di lavorare in luoghi che abbiamo scelto, rivalutando molti territori di provincia, abbattendo i costi (personali ma anche aziendali), riqualificando molte province.

Di certo, la ricerca di FiordiRisorse ha fatto emergere ancora due dati in totale controtendenza alle affermazioni di Confindustria e di alcune ricerche riportate da Affari Italiani e Wall Street Journal.

Solo il 28% degli intervistati ha dichiarato che la propria azienda ha ripreso le normali attività da ufficio esattamente come prima del lockdown, mentre il 45% ha decretato il lavoro agile tout court.

Ben il 74% degli intervistati ritiene opportuno tornare a lavorare in ufficio solo per motivi urgenti o strategici.

Probabilmente il campione dei cani da guardia di cui sopra, rientra in quel tristissimo 12% che ha dichiarato di voler “tornare assolutamente in ufficio, lo smartworking non fa per me”.

D’altro canto, abbiamo visto tutti la posizione di Confindustria Lombardia nel periodo più nero dell’emergenza.

Un vero peccato non disporre dei dati di questo campione, perché sarebbe oro puro per quelle aziende che ogni giorno lavorano per la propria crescita ed evoluzione e non capiscono chi sia, proprio all’interno della propria azienda, il freno al cambiamento e all’innovazione.

Qui è possibile scaricare l’intero dossier sulla cultura del lavoro alla prova del Covid.

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