Putin ha invaso la lingua russa, ma i letterati resistono

I professionisti della parola russa sono coinvolti in una guerra parallela contro la lingua dittatoriale che distorce la realtà e mette a rischio l’anima di un popolo intero. Alcune tra le voci più cristalline del dissenso.

I professionisti della parola russa sono coinvolti in una guerra parallela contro la lingua dittatoriale che distorce la realtà e mette a rischio l’anima di un popolo intero. Alcune tra le voci più cristalline del dissenso.

La lingua russa ha due modi per definire la verità: pravda, termine legato alla sfera della realtà terrena, e istina, al mondo ultraterreno. E ha due modi per il suo contrario: nepravda e lož’. Nel dichiarare la sua insofferenza per la falsità, Čechov utilizza il secondo, che indica la menzogna profonda, quella nella quale chi mente mette in gioco l’anima. Lo sa bene lo starec Zosima, che nei Karamazov di Doestoevskij ammonisce a non cadere nella catastrofe del bugiardo che mente anche a se stesso: «Chi mente a sé stesso è anche il primo a risentirsi per un’offesa» (la traduzione è quella einaudiana, recentissima, di Claudia Zonghetti).

La maggiore tradizione letteraria russa ha dunque tutti gli elementi per non cadere nella trappola di un linguaggio interamente costruito sul rovesciamento della verità, e sulla imposizione di una verità ufficiale che coincide con la menzogna più pericolosa. Eppure lo scorso 24 febbraio, e in seguito, il presidente Putin si è rivolto alla nazione usando termini quali «demilitarizzazione» e «denazificazione» per motivare l’inizio dell’«operazione speciale» in Ucraina: una guerra che non può essere chiamata « guerra» salvo rischiare fino a quindici anni di reclusione.

Tanto dunque costa oggi in Russia pronunciare la verità. Non un’interpretazione articolata dei fatti, ma proprio la verità elementare, quella per negare la quale non basta la nepravda ma è necessaria, atrocemente, la lož’. Come non ricordare Vivere senza menzogna, uscito in Occidente nel 1974, in cui Solženicyn invitava i connazionali a non mentire più. Quel saggio sarebbe stato pubblicato in Unione sovietica solo nel 1988, stampato su un giornale di Kiev, Rabočee slovo.

Il grande popolo russo sembra ascoltare ancora questo appello, e per ridurlo al silenzio non bastano leggi e minacce. Non basta la lož’ perché tutti smettano di proclamare la verità. E rischiando con coraggio, persone comuni nelle manifestazioni di piazza, e numerosi intellettuali con dichiarazioni e messaggi, hanno fatto sentire la loro voce di dissenso. Hanno chiesto la pace e hanno chiamato «assassina» questa guerra fratricida. Salvano la verità, certo, e mettono in salvo l’anima russa.

Le voci del dissenso: la letteratura russa contemporanea al servizio della verità

Tra le prime a intervenire è stata Ljudmila Petruševskaja, scrittrice moscovita del 1938, emarginata nell’infanzia ai tempi della Grande guerra patriottica perché accusata di appartenere a una famiglia di nemici del popolo, e poi negli anni Settanta, agli esordi della carriera letteraria. Petruševskaja si è rivolta al pubblico dei suoi lettori occidentali, dichiarandosi pronta a essere arrestata, per denunciare Putin quale unico responsabile di questa guerra. In un passaggio di intenso lirismo, la sua voce e il suo corpo si sono simbolicamente trasferiti dalla casa a Mosca, dove vive, in Ucraina, per fondersi con un popolo di sorelle e fratelli.

Ancora prima di lei ha scritto un lungo post sulla propria pagina Facebook lo scrittore moscovita Lev Rubinštejn. Rubinštejn negli anni Settanta è stato uno dei fondatori del Concettualismo moscovita, una tendenza poetica nata in opposizione al Realismo socialista che dal 1934 era il canone imperante in tutte le arti. Come Petruševskaja, anche lui deve aspettare l’era di Gorbacëv per poter pubblicare in Unione sovietica le proprie opere, fino ad allora circolate solo attraverso il samizdat e all’estero. A proposito delle parole usate dal presidente Putin per motivare l’aggressione militare in Ucraina, lo scrittore ha fatto notare che esse «non hanno affatto il significato che hanno nei dizionari accademici e molto spesso hanno significati direttamente opposti» e, quel che è peggio, sottolinea come sia minoritaria la parte della popolazione russa non influenzata dalla retorica ufficiale.

Accanto alle “voci storiche” e più note (la lista potrebbe proseguire con i nomi, tra gli altri, degli scrittori Vladimir Sorokin, i cui interventi sono stati pubblicati anche sulla stampa italiana, e di Boris Akunin), ci sono voci più giovani come quelle, per esempio, di Alisa Ganieva e di Kantemir Balagov. Ganieva è una scrittrice e giornalista di origini daghestane, ma residente da molti anni a Mosca, dove ha sempre manifestato e lavorato per la difesa dei diritti civili. In un lungo articolo pubblicato sulla stampa tedesca il 28 febbraio, Ganieva confessa di provare «vergogna» nel far parte di un Paese «che ha formato un humus così ricco per cannibali, parassiti e assassini». La scrittrice evidenzia inoltre come questa guerra provocherà uno scollamento tra le generazioni – una sorta di guerra interna tra madri fedeli alle scelte del loro presidente e figli “ribelli” – e allude a una «reazione perversa della paura» quando parla dei molti intellettuali in linea con la scelta di «riprendersi Kiev».

L’appello del 5 marzo: la pravda della lingua russa

Ganieva, Rubinštejn, Sorokin, Akunin, con Svetlana Aleksievič e altri importanti scrittrici e scrittori russi e bielorussi, sono anche tra i firmatari di un appello del 5 marzo rivolto a tutti coloro che parlano in russo, affinché in questa lingua – si riferiscono evidentemente all’«alta parola russa», «pura e libera», come scriveva Achmatova nel 1942, e non a quella distorta della retorica ufficiale – si possa raccontare ai cittadini russi «cresciuti a menzogne» tutta la verità concreta dei fatti, cioè la pravda.

Balagov, allievo di Aleksandr Sokurov, è il regista di La ragazza d’autunno (2019). Ambientato a Leningrado subito dopo la fine del conflitto mondiale, il film ne racconta gli effetti post-traumatici su due amiche reduci di guerra. Nel valorizzare il femminile traumatizzato, il giovane regista si è ispirato all’opera di Aleksievič La guerra non ha un volto di donna, in cui la Grande guerra patriottica viene ricordata dalle donne che vi hanno preso parte ed è filtrata dall’intensità delle loro emozioni. Come anche l’altro allievo di Sokurov Aleksandr Zolotuchin in A Russian Youth, Balagov si è così discostato con talento e originalità da un filone dominante nella cinematografia russa degli ultimi venti anni, secondo cui la guerra legittima e rafforza con modelli di eroi militari aggressivi l’interpretazione “corretta” e quindi patriottica della storia russa, nonché la “santità” del suo territorio. Il 24 febbraio, su Instagram, Balagov ha usato parole quali «vergogna» e «dolore» per commentare l’«incubo» della guerra.

Lui e molti altri hanno lasciato la Russia poco prima o subito dopo lo spartiacque del 24 febbraio; altri, come Petruševskaja e Ulickaja, sono rimasti. Tra le non molte cose che possiamo fare in queste ore buie, c’è ascoltare queste voci contro la guerra, aiutarle a viaggiare libere; aiutarle con l’ascolto e con il dialogo a liberarsi dalla lož’.

Per la versione integrale dei documenti qui citati l’autrice rimanda a questo link.

Leggi gli altri articoli a tema Linguaggio.

Leggi il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.


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In copertina un’immagine tratta dal film “La ragazza d’autunno”, ambientato a Leningrado subito dopo la fine del conflitto mondiale

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