Dite la verità, Napoletani

Dite ai napoletani che Napoli non è una persona ma “solo” una città. Non è un individuo. È “solo” un luogo. Non ha, quindi, un Dna ma un tessuto sociale. Non ha un codice genetico ma una catena di relazioni che si chiama società. Diteglielo, così la smettono di offendersi ogni volta che qualcuno muove […]

Dite ai napoletani che Napoli non è una persona ma “solo” una città. Non è un individuo. È “solo” un luogo. Non ha, quindi, un Dna ma un tessuto sociale. Non ha un codice genetico ma una catena di relazioni che si chiama società. Diteglielo, così la smettono di offendersi ogni volta che qualcuno muove una critica a Napoli, manco gli toccassero la mamma o gli stessero bestemmiando l’albero genealogico.

Napoli è un luogo dove si è costruito un tessuto sociale, economico, culturale e politico. Esattamente come a Cuneo. D’accordo: la bellezza, il mare, la storia, la tradizione, l’arte. Perché, Cuneo o Vercelli o Frosinone non hanno una loro bellezza, una loro arte, una loro storia, una loro tradizione? Ma non c’è paragone, risponderebbero i napoletani. Vuoi mettere Napoli con Cuneo? Non vogliamo mettere nessuno con nessuno. Ma Napoli è una città e Cuneo è una città: vanno trattate entrambe non come persone ma come strutture. Quindi senza nulla di innato e senza nulla di immutabile.

Perché partire da qui per parlare di lavoro e sviluppo al Sud? Perché se non ci si schioda da questa idea quasi magica di superiorità genetica o di inferiorità immutabile, è inutile anche cominciare a parlare. Il grande equivoco è proprio questo: siamo i più belli del mondo e lo saremo sempre. Non è vero. Siamo una città marcia e non cambieremo mai. Non è vero.

La bipolarità radicale dei giudizi su Napoli è il vero dramma, spesso alimentato dagli stessi napoletani che, come quando ti bagni in mare e prima lo trovi freddo, poi ti acclimati e non senti più nulla, meno di tutti riescono a guardare alla società di cui sono attori con il distacco che si deve ad una struttura, perché Napoli non è mia mamma, non è mia sorella, non è la donna che amo, non è neppure la donna che odio, è “solo” una città.

Nelle ultime settimane sono successi, uno dopo l’altro, due episodi che rivelano tutta la questione del ritardo di Napoli e del Sud, sia culturale sia economico. Il primo ha riguardato il presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi. Arrivata a Napoli, la deputata, in una conferenza stampa, ha avuto la sventura di dire che la camorra è un “dato costitutivo della città”. Non l’avesse mai fatto. Immediata è partita la giostra di permalosità collettiva. Ma come si permette? Quando a Napoli facevamo il bidet voi puzzavate di pipì. Aveva ragione Berlusconi: “La Bindi è più bella che intelligente”. Fino ad arrivare alle speciose interpretazioni linguistiche dei giornali. “Ha detto che abbiamo la camorra nel Dna”. “Ha detto che siamo tutti camorristi”. “Ha detto che non cambierà mai nulla”.

No, cari napoletani, non ha detto questo. E caso mai non fosse chiaro, ha anche precisato il suo pensiero. Ha detto che la camorra è parte integrante della città, è un suo elemento costitutivo, fondante. Significa che la camorra è un asse portante del tessuto sociale, economico e politico. Significa che è una protagonista assoluta della vita della città. Una frase forte ma di una verità lampante. Che contrasta con l’altra narrazione – quella preferita perché più rassicurante – che vuole, invece, la camorra come un affare di 3mila delinquenti mentre 990mila napoletani sono onesti. No, non è così. La camorra non è solo affare di killer, spacciatori e taglieggiatori. È affare sociale ed economico ampio e diffuso.

Il secondo episodio, quasi a conferma del primo, è arrivato due giorni dopo le dichiarazioni della Bindi. Un blitz di Procura e Polizia ha portato in carcere più di 40 persone del clan Mariano dei Quartieri Spagnoli. Tra loro – chiaramente -: spacciatori, assassini, taglieggiatori, usurai. Ma anche un cardiologo incensurato accusato di certificazioni false al camorrista in cambio di vantaggi, tre politici in cerca di voti, pizzaioli incensurati che riciclavano soldi sporchi, professionisti senza macchia che cambiavano assegni. Tutti i segmenti della vita economica e sociale della città. Il dato costitutivo, appunto.

Del resto, emerge da tutte le inchieste giudiziarie la capacità pervasiva e camaleontica della camorra. Chi la descrive come fatto di guapparia e malaffare è fermo agli anni Trenta. Oggi la camorra ha la laurea: è economia, impresa, lavoro, consenso sociale, professione, potere politico, potere economico, perfino cultura delle relazioni. Solo occasionalmente spara e spaccia. Per lo più domina, comanda, gestisce, orienta. È tessuto sociale. È pensiero dominante. In quanto tale pervade di sé i rapporti personali ed economici e orienta la comunità, anche quella non affiliata, anche quella che si crede fuori. Condiziona flussi di mercato, decide gli investimenti, altera la concorrenza, fagocita l’impresa sana, scoraggia l’iniziativa privata, rallenta i servizi, zavorra la modernizzazione, inertizza la politica. È, appunto, dato costitutivo. Che non significa immutabile ma profondo.

Leggerlo nella sua giusta dimensione, nella sua corretta gravità, è l’unico modo per fronteggiarlo. Se ci raccontiamo la favola di un ceppo di delinquenti in una città onesta, siamo fuori strada. Il problema è che a tenerci lontano dalle soluzioni contribuisce proprio questa incapacità di prendere coscienza, di dirsi la verità. Come l’uomo violento che spacca la faccia alla sua donna, dicendo di amarla, molti miei concittadini condannano Napoli, pensando di difenderla. Sono loro il vero problema.

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