Retail apocalypse, perché in Italia non sarà la fine del mondo

Con il termine retail apocalypse si indica la desertificazione dei negozi, tradizionali e non, che è in corso negli Stati Uniti. Il fenomeno, iniziato nel 2010, ha determinato la chiusura di decine di migliaia di negozi, e anche di tanti centri commerciali: esso è legato alle mutate abitudini dei consumatori, che hanno cominciato a privilegiare gli […]

Con il termine retail apocalypse si indica la desertificazione dei negozi, tradizionali e non, che è in corso negli Stati Uniti. Il fenomeno, iniziato nel 2010, ha determinato la chiusura di decine di migliaia di negozi, e anche di tanti centri commerciali: esso è legato alle mutate abitudini dei consumatori, che hanno cominciato a privilegiare gli acquisti online a scapito di quelli che prima facevano nel negozio fisico.

Questo è accaduto durante una fase espansiva dell’economia americana, che non ha subito la crisi del debito, a differenza dell’Europa che invece ne è stata investita nel 2011-2012. Teniamo a mente questo dato, perché serve a comprendere e delineare lo scenario italiano.

La spiegazione del fenomeno, semplificando al massimo, è dovuta a due fattori:

  1. il consumatore non vede/vive l’esperienza d’acquisto nel negozio tradizionale come qualcosa di gratificante, ma come un dovere o un peso;
  2. considera uno spreco il tempo dedicato allo shopping (e quello impiegato per il viaggio di andata e ritorno casa/negozio), quando esiste la possibilità di comprare online mentre si guarda la tv o si chatta e si commentano gli acquisti con gli amici sui social network: niente traffico, ricerca del parcheggio e neanche la complicazione di aspettare che partner e/o figli siano disponibili ad accompagnarci.

Questo cambiamento, fino al periodo del COVID-19, ha inciso soprattutto sulla distribuzione non alimentare: elettronica di consumo, abbigliamento, libri, musica e video, pc e informatica. Successivamente, però, ha interessato anche quella alimentare.

 

Non è tutta colpa del COVID: i negozi chiudevano già prima della retail apocalypse

Secondo i dati della distribuzione forniti da Federdistribuzione, in Italia alla fine del 2019 vi erano poco più di 901.000 negozi, di cui 652.000 non alimentari e 249.000 alimentari: si registrava un calo, rispetto al 2013, di circa 45.000 negozi, di cui circa 38.000 nel non alimentare e 7.000 nell’alimentare. In termini di fatturato questo settore vale 234 miliardi, occupa 2,38 milioni di persone e ha anche un forte impatto in termini di urbanistica.

Già prima del COVID-19, come abbiamo visto, il settore registrava una contrazione numerica di punti vendita che interessava anche la distribuzione moderna. Infatti i negozi della Grande Distribuzione Organizzata sono passati dai 28.300 del 2013 ai 25.500 del 2019: tra essi l’unico canale cresciuto come numerica di punti vendita è quello dei discount. Anche i progetti per l’apertura di nuovi centri commerciali, in quel periodo, sono entrati in una fase di stallo, e addirittura in molti casi sono stati abbandonati.

Il lockdown per il COVID-19 ha introdotto nello scenario nuovi elementi:

  • i negozi sono rimasti chiusi, con l’eccezione di quelli alimentari e di quelli dei beni di prima necessità;
  • per comprare in quelli rimasti aperti occorreva affrontare il rischio di frequentare luoghi affollati, e spesso lunghe code.

Questo ha favorito il forte incremento della pratica della spesa online alimentare, un servizio già presente da anni in molte città (da decine di anni in città come Milano), ma sempre rimasto una parte residuale del business delle insegne della grande distribuzione.

 

Retail apocalypse, in Italia come negli USA?

Proviamo ora a rispondere ad alcune domande sul futuro prossimo del retail in Italia: ci sarà una retail apocalypse in Italia? 

La risposta a questa domanda è complessa perché, rispetto alla definizione che abbiamo dato di retail apocalypse, quello che ipotizziamo possa accadere non è perfettamente sovrapponibile a essa. In Italia la retail apocalypse sarà il risultato di quanto è successo negli Stati Uniti combinato con tre ulteriori fattori:

  1. la crisi economica derivante dal COVID-19 come crisi da domanda/capacità di spesa dei consumatori;
  2. la crisi di liquidità delle imprese medio-piccole conseguente ai mesi di chiusura e di lento ritorno alla normalità;
  3. il cambiamento nella modalità di lavorare e viaggiare, che abbiamo sperimentato durante il COVID-19 e che diventerà la nuova normalità.

Secondo uno studio di The European House – Ambrosetti si prevede, per la fine del 2020, la chiusura di 80/90.000 negozi e la perdita tra i 220.000 e i 380.000 posti di lavoro: in sostanza, in un solo anno chiuderanno più del doppio dei negozi chiusi nel periodo 2013 / 2019 e si perderà una percentuale di occupati tra il 15,5% e il 26,9% del totale. Questo, però, è solo l’effetto atteso come conseguenza diretta dell’epidemia di COVID-19: esso sarà ulteriormente aggravato dal cambiamento già in atto nello stile di vita e nelle modalità di lavoro, oltre che da tutte le chiusure che la contrazione dei consumi determinerà nei prossimi anni.

La diversa conformazione del nostro Paese rispetto agli Stati Uniti e il nostro diverso modo di consumare incideranno ulteriormente sui cambiamenti attesi. Proviamo a elencare queste differenze:

  • abbiamo ancora un sistema distributivo molto più frammentato: molti più negozi per numero di abitanti rispetto agli USA, e la stragrande maggioranza di essi non appartiene a catene commerciali;
  • rispetto agli USA abbiamo una percentuale più bassa di vendite dell’online a confronto del totale delle vendite;
  • l’Italia ha un territorio lungo e stretto, per cui la distribuzione di beni, specie alimentari, è molto onerosa; e, ancora, la numerosità dell’offerta commerciale (localismo) non è comparabile con quella degli Stati Uniti.

Per riassumere e per dare una risposta alla domanda, credo che in Italia ci sarà una crisi del mondo del retail, ma con caratteristiche profondamente differenti da quelle registrate nel recente passato e ancora oggi rilevabili negli USA.

Possiamo stimare quanti negozi chiuderanno in totale e in quale categoria? La stima sui numeri totali oscilla dai 200.000 ai 300.000 negozi nei prossimi 3-5 anni, ovvero da un 20% a un terzo del totale dei negozi in Italia. Ragionando sul numero più alto di chiusure, a mio avviso, è realistico stimare uno scenario che oscilla da una percentuale del 66% delle chiusure nel non alimentare e di un 34% nell’alimentare, a una percentuale del 50% in entrambi i settori.

 

Le caratteristiche del retail dopo la pandemia

Per il non alimentare la concorrenza dell’online è molto forte, e le stesse aziende del settore (dall’abbigliamento all’elettronica) stanno modificando la loro strategia di distribuzione passando dal negozio fisico (negozio diretto/distributore) alla vendita online diretta tramite il proprio sito aziendale, o utilizzando siti di commercio terzi.

È sufficiente leggere i giornali o visitare i siti delle aziende per avere conferma dei piani di chiusura e di riconversione in atto: al momento l’unica eccezione è Apple, ma l’Apple Store era ed è pensato non solo come spazio per la vendita, ma anche per far vivere al consumatore l’esperienza di sentirsi parte di una grande famiglia. Credo che, nel futuro prossimo, il negozio fisico di successo si dovrà ispirare ai principi dell’Apple Store, ovviamente declinati nel contesto in cui esso opera e aggiornati alle nuove esigenze del consumatore.

Per l’alimentare, credo che la concorrenza dell’online sarà minore per le ragioni che indicherò di seguito. La gran parte delle chiusure nel settore sono, a mio avviso, legate a circostanze che preesistevano rispetto al COVID-19:

  • un numero troppo elevato di negozi rapportati ai consumi attuali;
  • dimensione piccola delle aziende con scarsa capitalizzazione finanziaria.

Inoltre bisogna prendere atto che, per la prima volta dopo decenni, i consumi fuori casa sono diminuiti in conseguenza del lockdown, e su ciò ha inciso anche il cambio delle modalità di lavoro con l’incremento dello smart working, e la riduzione dei viaggi. Per continuare a restare competitivo rispetto ai punti vendita online anche il negozio alimentare dovrà investire per rendere più attrattiva l’esperienza e/o i servizi offerti al consumatore.

 

L’Italia farà spesa online?

Gli esperti prevedono ancora una forte crescita dell’online nel non alimentare, e anche le aziende di produzione si stanno organizzando in tal senso: più che una crescita del retail online vedremo in questo settore una competizione tra retail online, retail tradizionale con il canale online e la stessa industria per provare a conquistare il consumatore: il marketing e la consumer experience saranno i fattori chiave di successo.

Per l’alimentare la questione è molto dibattuta tra chi vede uno sviluppo dell’online per il Food, e fa una stima del 5% del fatturato nel 2025, e chi vede uno sviluppo più lento e pensa che questa quota non si raggiungerà prima del 2030. In realtà la distribuzione di prodotti online ha una serie di limitazioni fisiche: la spesa alimentare, in molti casi, deve viaggiare in veicoli refrigerati, e quindi il deposito e il punto di consegna non possono essere troppo lontani: il localismo è uno dei punti di forza e di differenziazione dell’Italia, dove in pochi km si passa dal consumo al non consumo di un prodotto.

Tutte queste difficoltà distributive, a mio avviso, rendono molto più complicato lo svilupparsi del commercio online nell’alimentare.

 

Come cambieranno i supermercati (e le città)

Meno negozi, ma anche diversi da quelli che abbiamo conosciuto finora: infatti a fianco della spesa tradizionale e di quella online con consegna a casa avremo, specie nel settore alimentare, quella con il ritiro nel punto vendita. Probabilmente esisteranno punti vendita solo con questa funzionalità. Un supermercato senza magazzino né prodotti a scaffale: solo una fila di armadi per ritirare la spesa fatta online, e macchine distributrici per acquistare i prodotti di prima necessità. Punti vendita riforniti da altri negozi della catena, posizionati in aree o comuni che non potrebbero sostenere i costi fissi di un punto di vendita tradizionale.

Come abbiamo visto, la distribuzione è un settore importantissimo nell’economia del nostro Paese, e questo cambiamento inciderà anche sul panorama urbano delle nostre città, che per comprendere a 360° la realtà prossima ventura dovranno analizzare e mettere in conto anche il tema dei negozi chiusi e dei centri commerciali abbandonati in parte o del tutto.

 

 

Photo credits: ft86club.com

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