Ricostruire la faccia del merito

Il riconoscimento del merito è un taglio radicale con tutto ciò che non ci rende eguali sulla linea di partenza, alla nascita. Nega l’ereditarietà dei privilegi; nega il familismo; nega il sistema dei favori e delle raccomandazioni; maledice chi salta la fila perché conosce qualcuno che conta. Forse afferma che l’eredità debba essere pesantemente tassata, […]

Il riconoscimento del merito è un taglio radicale con tutto ciò che non ci rende eguali sulla linea di partenza, alla nascita. Nega l’ereditarietà dei privilegi; nega il familismo; nega il sistema dei favori e delle raccomandazioni; maledice chi salta la fila perché conosce qualcuno che conta. Forse afferma che l’eredità debba essere pesantemente tassata, in modo da togliere il privilegio dei pochi e ridistribuire le risorse ai molti. Berlusconi ha voluto togliere la tassa di eredità per tutti, anche se lui – il più ricco del reame – qualche motivo personale in più degli altri l’aveva. Non so quanti sarebbero favorevoli oggi a reintrodurre la tassa. Eppure dovrebbe essere il primo passo verso il merito, cioè l’eguaglianza dei punti di partenza. Non c’è gara se io ho potuto comprarmi una casa solo a 60 anni, dopo aver visto evaporare in affitti bella parte di ciò che ho guadagnato, mentre tu invece l’hai ricevuta dai tuoi e dei tuoi soldi hai potuto disporre liberamente. Ma forse non è giusto neppure che mio figlio, essendo io un professore universitario, parli un buon italiano e anche un inglese “fluente”, abbia letto libri sin dall’infanzia, sia stato subito conscio dell’importanza della ricerca scientifica – e che tu invece abbia fatto scuole di serie B, ti esprima in dialetto, non abbia mezzi culturali per apprezzare tutto ciò che una libreria o un teatro ti possono offrire.

Con il principio siamo tutti d’accordo. Ma non entriamo troppo in dettaglio. Il merito ci parla di eguaglianza, ma l’eguaglianza, si sa, è un mito: nasciamo belli o brutti, sani o malati, persino di sesso diverso. E allora? Allora il principio va rimodulato, riportato nei suoi confini più appropriati. D’accordo, non siamo affatto eguali, qualcuno è affetto da una certa zoppia sin dalla partenza, qualcuno respira con più difficoltà e le donne, si sa, hanno meno muscoli (almeno a noi maschi piacciono così, di solito). Forse loro hanno anche meno convinzione che la vita sia una gara e che l’importante sia vincerla. Già, qualche dubbio potrebbe assalirci: di che gara si tratta? “A ciascuno secondo il suo merito” non ci dice di che cosa si sta parlando esattamente, quale sia la torta che si sta dividendo.

Il discorso si fa complicato, forse troppo. “Ciascuno ha pari diritto di realizzare se stesso”: bello, ma non significa granché. Non avrebbe alcun senso dire che ho pari diritto a realizzare il mio handicap. Già, la “mano nel berretto” (hand-in-cap, appunto) nasce proprio nel lessico della competizione, della gara sportiva. E poi, a guardare con più attenzione, se devo realizzare me stesso, la mia felicità, forse non sono in competizione con nessun altro. Forse non avrei alcun motivo di accettare la logica della competizione. Potrei preferire di starmene in pace a guardare le nuvole che cambiano di forma. Già, invece devo lavorare, devo far fronte ai doveri di solidarietà, pagare le tasse. Ecco che i miei diritti – di cui il merito è la misura – diventano improvvisamente dei doveri. Si passa così bruscamente dal “a ciascuno secondo il suo merito” (i diritti, appunto) al “da ciascuno secondo le sue possibilità” (che profuma di tassazione e di doveri). Perché – ci dicono – non ci sono diritti senza doveri; perché viviamo in una società da cui è assai rischioso recedere; perché solo nella società è possibile che l’essere umano possa realizzare pienamente se stesso. Il merito garantisce l’eguaglianza di quanti in quella società vogliono vivere e realizzarsi, non di chi pensa di sottrarsi alla fitta trama di doveri che avvolge chi vi abita. Il merito è selettivo; anzi, è una misura relativa, che regola i rapporti tra chi nella società accetta di vivere e di seguirne le regole.

Sempre più complicato venire a capo delle applicazioni del principio. In tanta confusione soccorre però l’autorità. È l’autorità che decide che gara si corra, ne stabilisce la lunghezza e i premi per il vincitore. È vero, ognuno ha il diritto di realizzare se stesso, ma solo a parole. La società ha idee precise sulla competizione che ci attende: ha incaricato la scuola di organizzare una gara ben definita e unica per tutti, che inizia sin dai primi anni di vita, e che non bada molto a quale sia la mia vocazione o il tuo te stesso. Ormai la gara è bandita, le regole ci sono e sono stringenti, parteciparvi è un obbligo (è o non è la scuola dell’obbligo?) se nella società vuoi restare: poco importa l’handicap con cui parti, è l’Invalsi che ti misura all’arrivo; sono i voti della pagella che rilevano la tua posizione a ogni giro, gli stupidi test d’ingresso che decidono che studi universitari puoi intraprendere (alla faccia di quello che volevi realizzare di te), il voto di laurea che pesa se vuoi proseguire nel dottorato, un altro traguardo che ti darà una marcia in più nella ricerca di un posto di lavoro adeguato.
Adeguato? Sì, adeguatamente retribuito. Alla fine ci sono i soldi, l’unica misura che valga nel mercato, il campo di gara in cui ogni competizione si colloca (concorrenza si chiama) e ogni concorrente (competitor) viene misurato. È con quel metro che si misura il successo, quanto hai “meritato” nel corso della vita. Salvo poi, a gara finita, non poter lasciare tutto il premio ai propri figli, perché non sarebbe giusto, violerebbe il principio del merito. Sì, ma nel frattempo ai figli hai spiegato come allenarsi, come dosare le forze, in che modo guardare agli obiettivi e avvantaggiarsi sugli altri. E magari, in nome del merito, ne hai fatto dei perfetti cretini, ma di successo.

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