Il robot che fa il mio mestiere

I robot faranno sempre più i lavori che noi umani non vogliamo fare più. Il problema è che i robot faranno sempre più anche i lavori che noi potremmo fare. Invece, quello che i robot non faranno mai è ciò che Cesare Pavese ha chiamato una volta per tutte il mestiere di vivere. Forse. Perché […]

I robot faranno sempre più i lavori che noi umani non vogliamo fare più. Il problema è che i robot faranno sempre più anche i lavori che noi potremmo fare. Invece, quello che i robot non faranno mai è ciò che Cesare Pavese ha chiamato una volta per tutte il mestiere di vivere. Forse. Perché è pensabile che, fra qualche generazione, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della robotica supereranno nella realtà la nostra fantasia, ferma a un immaginario cinematografico.

Non ci sono ancora robot nella Reggiana, nel cuore dell’Emilia rossa. Ma qui c’è la più grande comunità indiana d’Italia, affluita nel nuovo millennio, che fa i lavori più sporchi e più duri abbandonati dagli italiani, come quelli nei porcilai. Difficile che un algoritmo prenderà il loro posto nella cura delle mucche, ma chissà. La parola robot, usata per la prima volta nel 1920 dallo scrittore cecoslovacco Karel Capek, significa “lavoro duro”, “lavoro forzato”. Infatti il robot viene usato spesso nell’industria, dove è più facile sostituire la fatica umana. Nel luglio dell’anno scorso, in una fabbrica della Volkswagen in Germania un tecnico è stato ucciso per errore mentre montava il braccio di un robot. L’incidente ha inevitabilmente accelerato il dibattito su a chi appartiene o apparterrà il lavoro domani, lasciando molti punti interrogativi fra economia ed etica.

Dall’America, invece, la chirurgia urologica italiana ha importato da qualche anno il robot per operare. Quattro braccia come l’uomo vitruviano, comandate attraverso una console da un essere umano presente in sala, insieme ad altre persone a fianco della macchina. Il problema è che il paziente (in America ormai è sempre così) per farsi operare sceglie spesso la struttura dove c’è il robot, e non il chirurgo. Un errore, perché qui l’esperienza e la mano sono ancora un passo avanti rispetto alla tecnologia disponibile.

Perfino il mestiere di scrivere, come quello che sto esercitando in questo momento, potrebbe essere affidato presto a una macchina. Già succede, in realtà, solo che fra spaventose crisi editoriali esclusivamente meritevoli di un nuovo modello di business, si fa finta che il problema non esista.

Al terzo piano di una palazzina di Evanston, sobborgo di Chicago, nel lontano 2010 due giornalisti italiani, Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo, hanno fatto la conoscenza di Stats Monkey, “non un essere umano in carne e ossa, ma una creatura fatta di 0 e di 1, un software cui è stato insegnato a scrivere notizie alla velocità della luce e in un inglese impeccabile”. Questo e altri incontri sono raccontati nel libro La Scimmia che vinse il Pulitzer (Bruno Mondadori editore).

La verità è che Stats Monkey è all’opera dal 2008 e l’intelligenza artificiale ha fatto in otto anni passi così da gigante che scrivere in un secondo netto il resoconto di una partita di baseball con memoria di quanto accaduto prima è, oggi, roba superata. Se metto mano all’ultima trimestrale di Fca o di Apple, secondo voi chi fa prima a scriverci su un articolo e una analisi senza sbagliare un solo numero e ricordare utili netti, indebitamento o investimenti degli ultimi cinque anni? Il sottoscritto da Roma, o Stats Monkey e i suoi fratelli (e sorelle) sparsi in decine di lab di ricerca più avanzati al mondo?

Messaggio alla generazione Y: se volete proprio fare i giornalisti, non leggete questo libro. I robot avanzeranno comunque, tanto più – per tornare a temi più generali – che nel 2016 il numero delle persone in età lavorativa nei paesi delle economie avanzate sarà in declino per la prima volta dal 1950. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, entro il 2050 la riduzione sarà del 5%.

Al di là di altre implicazioni, è un varco attraverso cui far passare l’idea che i robot necessariamente dovranno prendere il nostro posto, o meglio, il posto degli umani mancanti. Perché servono. E senza dire che, per un imprenditore, i robot hanno anche un costo minore dell’essere umano. Oggi 8 dollari l’ora, tutto compreso, contro i nostri 25 dollari di media, spese sanitarie comprese. Esclusi sindacati e diritti, gli algoritmi non ne hanno bisogno.

Mentre si riducono i mestieri e i lavori che vorremmo fare e aumentano quelli che non vorremmo fare, crescono le mansioni per i nuovi lavoratori con intelligenza artificiale incorporata. Secondo un recente rapporto di Boston Consulting Group, di cui abbiamo già utilizzato le cifre sopracitate sui differenti costi del lavoro, l’espansione dei robot sarà una “rivoluzione”, in quanto ancora sotto utilizzati in molti tipi di aziende e in molte parti del mondo anche a economia avanzata, come l’Italia. Ma se intanto trattassimo meglio i lavoratori indiani della Reggiana?

 

[Credits immagine: Scott Lynch, Banksy NYC, Coney Island, Robot – Flickr.com]

 

CONDIVIDI

Leggi anche

Gli avvoltoi dei pregiudizi non atterrano a Capodichino

“Allora devi parlare assolutamente con l’AD dell’Aeroporto di Napoli, non puoi non sentirlo per questo reportage. Aspetta che ti passo il contatto di Giovanna Caiazzo, la responsabile comunicazione. Sì, sì, scrivile un messaggio o anche un whatsapp tanto lei è sempre disponibilissima e poi è davvero brava”. La mia intervista ad Armando Brunini parte da un […]

Fa comodo che meritocrazia rimi con antipatia

Diciamolo: La grande bellezza non è poi ‘sto capolavoro… » «Hai proprio ragione. Non capisco tutto il suo successo…» «E diciamo anche questo: Paolo Sorrentino è decisamente antipatico». Dialoghi simili è capitato di sentirne, dopo la vittoria dell’Oscar, nel 2014, del film di Sorrentino con protagonista Toni Servillo. Discorsi analoghi si sentono anche in altri contesti. «Quello […]