Romolo Bugaro, prima si scava poi si scrive

Provate a entrare in un qualsiasi studio legale e ditemi che riviste trovate in sala d’attesa. Mediamente nessuna che venga la voglia di leggere, mai le generaliste che farebbero sfigurare gli avvocati, quasi sempre quelle che fanno da prolungamento al mestiere. A me l’occhio è caduto dopo un attimo su un numero del Libraio, lì […]

Provate a entrare in un qualsiasi studio legale e ditemi che riviste trovate in sala d’attesa. Mediamente nessuna che venga la voglia di leggere, mai le generaliste che farebbero sfigurare gli avvocati, quasi sempre quelle che fanno da prolungamento al mestiere. A me l’occhio è caduto dopo un attimo su un numero del Libraio, lì a destra, dopo che mi hanno detto “si accomodi, l’avvocato arriva subito”.

Quando vado a intervistare qualcuno a casa propria – che può voler dire anche in ufficio – confido sempre in un suo ritardo che mi presti il fiato necessario a guardarmi intorno e cominciare a respirarlo prima dei saluti.

Romolo Bugaro non sapevo nemmeno chi fosse fino a un mese fa, da lui mi ci ha portata Ferdinando Camon, 86 anni tutti veneti dalla testa ai piedi. Su una recentissima intervista dalle pagine del Mattino di Padova, in chiusura il giornalista gli chiedeva: “E cosa ne dice degli scrittori contemporanei?”. Risposta di Camon: “Non ho molte frequentazioni dirette però c’è Romolo Bugaro, che è un po’ un giovane Paolo Volponi: conosce il mondo delle partite Iva, il nuovo potere economico. Una voce interessante, destinata a durare”. Di mestiere avvocato e scrittore, dal 1993 ad oggi ha pubblicato per Einaudi, Laterza, Marsilio, Rizzoli, Baldini Castoldi Dalai, insomma si è fatto sentire così come al Campiello, dove ha bussato più volte alla finale.

Mentre gli introduco l’intervista e sto per chiudergli la prima domanda, intercetto nitido il rumore che gli fa il suo scandagliare buone occasioni di risposta, si vede che mi guarda e non perde tempo, si vede che cerca di avere cura di ciò che sta per dirmi.

 

 

Non sono qui per farmi raccontare né il tuo mestiere di avvocato, né quello di scrittore. Ci sono per farti decifrare alcuni ingranaggi socio-economici di questo Veneto, capire su cosa conviene focalizzarsi oggi per cercare chiavi di lettura corrette.

Il mio è un osservatorio particolare perché mi occupo sostanzialmente di realtà di crisi, faccio soprattutto diritto fallimentare e la mia è l’ultima stazione prima del niente. Il mondo cambia dal punto in cui tu lo guardi e io in effetti lo vedo da una sorta di abisso. Nessun pessimismo, per carità, semplicemente la premessa andava fatta. Più che altro serve fare un discorso diacronico, vedere cosa è cambiato negli ultimi dieci, quindici anni.

Una delle prime cose che è cambiata per il mondo del lavoro e per i lavoratori è proprio questo, lo dico perché faccio il mio mestiere da tanti anni e osservo da altrettanto tempo i flussi. Crisi aziendali, fallimenti, ristrutturazioni, espulsioni di lavoratori ci sono sempre stati ma, prima, un lavoratore trattava per avere il miglior scivolo possibile quando c’erano i presupposti, e così si riposizionava. Oggi lo scivolo non funziona più, non lo cercano più nemmeno davanti a cifre magari superiori a quelle che gli avresti offerto dieci anni fa; in caso di crisi e fallimenti, oggi i lavoratori difendono il proprio posto con le unghie e coi denti, non li compri più per mandarli via perché hanno la sensazione che, se uscissero di lì, non li vorrebbe più nessuno e non si ricollocherebbero mai.

Quindi su cosa si va a trattare?

Oggi la battaglia si fa usando magari un’altra consociata o comunque spostando il contesto ma stando sempre dentro un recinto. Rispetto a un passato nemmeno troppo lontano c’è un altro tipo di approccio, di richiesta e di difesa di loro stessi.

Vuol dire una staticità totale del mercato, ma forse vale più per certe fasce d’eta.

Esatto, staticità. Ma loro non hanno fiducia di ricollocarsi anche se fuori un certo dinamismo riparte, anzi è ripartito. Però sto parlando essenzialmente di una fascia d’età che sta sopra i 45-50 anni, certo. Per i giovani le difficoltà sono altre.

Invece gli altri cambiamenti a cui accennavi?

Il secondo mutamento, anche questo vertiginoso, è che tu hai per esempio una società con dieci milioni di debito e ha dieci banche che avanzano un milione l’una e fai una riunione con queste banche per sistemare e capire. Dieci anni fa te ne stavi magari una giornata intera al tavolo con loro ma alla fine uscivi con una decisione e una linea: oggi questo aspetto è completamente sparito ed è un aspetto che incide fortemente sul lavoro. Oggi non c’è più una decidibilità dei processi: le persone che si siedono davanti a te non sono più portatori di nessuna possibilità di decisione, siamo vittime di un dominio delle procedure e di conseguenza i meccanismi delle decisioni diventano astratti. È cambiata tutta la filiera della soluzione dei problemi e ricade sul lavoro. Tu avvocato non sei più in grado di dare una risposta al tuo cliente o all’azienda che hai in carico. Tutte le nervature e gli incastri che regolano il fare delle cose delle imprese sono diventati luoghi che non raggiungi più.

Tipo?

Il credito. Il credito non è più tangibile, la tua azienda è diventata un puro calcolo algoritmico e non sto scendendo al solito livello del discorso per cui si è persa la dimensione umana. Le decisioni sono state dematerializzate attraverso le procedure e le ricadute sono infinite, è molto più possibile infrangersi col proprio lavoro perché basta un minimo errore al tuo “sistema” e non hai più interlocutori con cui chiarirti. Estremizzo il discorso ma non vado poi così lontano dalla realtà.

Siamo pronti, ad oggi, per valutare se sia un bene o un male?

No, non ancora. Certo, su un piano valoriale è un forte limite.

Come sono diventati gli avvocati?

Siamo circa trecentomila in Italia, con una rivoluzione inimmaginabile. Il giovane legale di questi tempi è messo infinitamente peggio del ragazzo che lavora al call center perché c’è stata una quasi totale polarizzazione dei professionisti: i risucchiati verso il basso sono stati soprattutto giovani e donne con redditi insufficienti, quelli schizzati verso l’alto sono dentro il nucleo ristretto delle law firm, molto specializzate, che ha vinto per tutti. Questa polarizzazione ha toccato tutto il mondo e nel mezzo di tutte le libere professioni non c’è rimasto nulla. Il professionista medio non esiste più: vale non solo per noi, ma anche per architetti, commercialisti, notai.

Qual è la temperatura della formazione, come si misura?

Altro mutamento del lavoro, anzi del pre-lavoro, è proprio la formazione. Una volta c’era una sorta di “appalto” all’Università che ne era in qualche modo responsabile. Adesso i ragazzi non la vedono più come canale ma come un vero e proprio dazio; tutto questo non li attrae. Loro credono di farcela da soli.

Certo il sistema universitario italiano non fa molto per essere migliore, apparire diverso.

L’Università si è tolta di dosso un ruolo, lo ha quasi del tutto delegato ma non si capisce a chi e in quali forme. I giovani, disorientati, lo sentono profondamente. I giovani avrebbero bisogno di una narrazione diversa della formazione e quindi del lavoro.

Ogni territorio, chi per inerzia e chi per strategia, alla fine si racconta in un certo modo. Il Veneto che narrazione ha scelto per parlare di sé?

Questa è una terra di lavoro, gente che sovrappone costantemente vita e lavoro o almeno finora è stato così. Ti racconto due storie diverse. La prima è una storia personale: abitavo a Campo San Piero, profondo Veneto, centrale elettrica. C’era un distributore di benzina e ci lavoravano tre fratelli terrificanti: stavano alla pompa dalle sette di mattina fino all’una di notte, cattivi, accaniti. Mai uno sciopero quando tutti gli altri lo facevano, sempre attaccati alla pompa, mai un giorno senza.

Più o meno quello che recriminiamo alle comunità cinesi che vivono da noi?

Puoi dirlo, hai ragione. Io li guardavo e pensavo a quanto fossero in basso. La seconda parte della storia è paradossale: mio padre muore, vendiamo la casa e la compra uno dei tre fratelli.

Lieto fine?

Erano persone nate negli anni ’30-’40, erano nove fratelli in tutto. Il loro padre, che faceva il mezzadro, dopo la guerra era rimasto senza lavoro, non sapeva cosa dare da mangiare ai figli. Un giorno si allontana con la bici, la parcheggia accanto a un pozzo e in quel pozzo ci si butta per sempre; lo trovarono dieci giorni dopo. Quell’uomo che comprò la casa mi disse le seguenti parole. “Ai miei figli questo non capiterà mai. Io a loro questa storia non gliela lascerò mai vivere”. Ecco che tutto cambia, cambiano il bene e il male – se vogliamo usare queste categorie – e i valori si confondono, si sovrappongono.

Lavorare è davvero l’unico metro di misura in questo Nord Est?

A me qui è capitato di incontrare spesso – sarei tentato di dire sempre, ma preferisco non farlo – persone che lavorano e lavorano. C’è però uno scollamento, non c’è una ragione individuale interiore del perché di questa scelta di vita. Non sono realmente interessati ai soldi perché poi non è nemmeno vero che se li spendano e se li godano.

Una semplice inerzia.

Forse peggio. Io ci vedo il voler essere al centro di un processo, l’ebrezza di essere centrali in un movimento. Sembro arrogante ma mi arriva un senso di infantilismo, uno stare dentro al gusto di un gioco senza scopo.

Dimmi allora dove va a finire il gioco degli schei, a questo punto.

Qui è centrale il discorso del passaggio generazionale. I soldi non sono denaro in quanto tale, è un denaro come elemento di competizione tra quelle dieci persone con cui ti interessa competere. Sono solo in quel cerchio di persone e non ti interessa niente di più alto. La vera molla di questo immenso meccanismo sociale veneto io la vedo così, polverizzata tra tutti i suoi attori. Non è una questione collettiva, è del tutto individuale, più piccola, forse anche più misera.

Aiutaci ad andare sottopelle. Cosa leggere del Veneto, chi leggere?

Works, di Vitaliano Trevisan. Lui in assoluto. Dallo spacciatore di acidi al lattoniere a tanti altri lavori, prima di fare teatro passato attraverso infiniti mestieri e li racconta tutti da dentro, con una sincerità bruciante compresi quelli che avrebbero potuto portargli guai. Oppure Francesco Targhetta, uno dei finalisti al Campiello di quest’anno con Le vite potenziali, ambientato a Marghera. Non si può capire una terra se non si vanno a leggere le sue voci, quelle che mandano messaggi.

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