Stanford, da qui le idee e le tecnologie volano verso l’industria

Le aziende della Silicon Valley e l’Università di Stanford sono due realtà quasi consustanziali: l’una non esisterebbe senza l’altra, e definiscono reciprocamente le loro storie. È stato sempre così, anche quando (fino agli anni Settanta) quest’area si chiamava “Valley of the Heart’s Delight”, e l’industria principale era quella dell’ortofrutticolo; piccoli campi di albicocche si possono […]

Le aziende della Silicon Valley e l’Università di Stanford sono due realtà quasi consustanziali: l’una non esisterebbe senza l’altra, e definiscono reciprocamente le loro storie. È stato sempre così, anche quando (fino agli anni Settanta) quest’area si chiamava “Valley of the Heart’s Delight”, e l’industria principale era quella dell’ortofrutticolo; piccoli campi di albicocche si possono ancora trovare di fronte alla via principale di Los Altos.

 

Le ragioni del successo del modello Silicon Valley

Come ha fatto questa penisola a trasformarsi nel cuore pulsante della tecnologia mondiale? Certi fattori sono strettamente legati alla presenza di una research university:

  1. Il trasferimento tecnologico dai laboratory di Stanford alle aziende;
  2. la creazione di imprese da parte di studenti e professori di Stanford;
  3. il flusso di studenti con master e dottorati, educati a Stanford e pronti a creare e rinnovare costantemente il capitale umano delle aziende locali.

Il primo e il terzo punto sono la sintesi estrema dei benefici derivanti dalla collaborazione fra università e impresa. End of the story. La società at large beneficia di un’economia più aggressiva di cui al punto due.

Ovviamente, c’è poi tutto l’ecosistema di clusters, network, investimenti, indotti, studi legali e head hunters, che è importantissimo, facilita la mobilità di persone e capitali e permette l’efficace monetizzazione di idee e tecnologie che tutti vediamo. Se è vero che il paradigma per il successo di una startup è la velocità, l’infrastruttura della Silicon Valley rende disponibile qualunque tecnologia di cui la nascente azienda abbia bisogno.

L’impatto di Stanford cambia a seconda che si tratti di un’azienda matura o di una startup. Una startup di Stanford è un’azienda in cui sia la tecnologia impiegata per il primo prodotto che la maggioranza dei fondatori provengano direttamente da Stanford. Per esempio (in un mix di realtà esistenti e scomparse): Hewlett-Packard, Cisco Systems, Sun Microsystem, Silicon Graphics, Yahoo!, Google, Gap, PayPal, Nvidia, Expedia, Netflix, NetApp, Intuit, Palantir, Redfin, Pandora, Whatsapp, YouTube.

Last, but not least, c’è l’influsso di fattori culturali come: è perfettamente accettabile fallire (anzi, è quasi incoraggiato); va bene abbandonare un’azienda per formarne un’altra in diretta competizione; è importante parlare apertamente con la concorrenza di questioni di uno specifico settore e scambiarsi idee.

Per finire, gli eroi in Silicon Valley sono gli imprenditori capaci di fondare e far crescere aziende di successo.

 

Stanford: storia di un’incubatrice di imprese

Perché proprio Stanford? L’università fu fondata nel 1891 da Leland Stanford, senatore e governatore della California nel business delle ferrovie. Prese a modello il MIT di Boston, affascinato dal fatto che esso funzionasse come incubatore per nuove imprese. Si trattava di una strategia endogena: incoraggiare la creazione di imprese sulle basi di formazione accademica.

Ma tutto attorno al campus non c’erano così tante aziende high-tech. Così i fondatori decisero di crearle: per cominciare, eliminando la dipendenza dalla East Coast per la distribuzione dell’energia elettrica: il primo president e i primi professori puntarono sull’ingegneria elettrica e, nel 1900, investirono in startup di apparecchiature elettriche.

Mentre la facoltà di ingegneria cresceva, il volano virtuoso tra accademia e industria non era ancora maturo e Fred Terman, preside negli anni Trenta, era preoccupato a causa della mancanza di lavoro per i propri laureati. Così, nel 1936, cominciò a spronare energicamente gli studenti a creare delle aziende. Quando la Hewlett-Packard venne incorporata nel 1939, Terman stesso ne fu angel investor finanziandola con 500 dollari di capitali di rischio. Il resto, come si dice, è storia: Stanford continua a incoraggiare i propri studenti a creare imprese, mettendo a loro disposizione tutti gli strumenti per muovere da un’idea a un’impresa. Una moltitudine di programmi vengono oggi offerti sia agli studenti sia a professionisti come executive education per imparare a creare startup, dall’MBA a Stanford Ignite.

 

La Silicon Valley, un modello irreplicabile

Con queste premesse, qualunque confronto diventa durissimo. Ma somiglianze esistono, e possono essere analizzate. Anche in Italia abbiamo distretti in cui c’è vitalità intellettuale, un’accademia creativa e propositiva, e un’industria attenta e capace di ascoltare. Anche in Italia ci sono presidi intelligenti e studenti brillanti, e ci sono parchi tecnologici di rilevanza internazionale. Ma allora, perché non abbiamo anche noi una Silicon Valley italiana? Well, forse questa è la domanda sbagliata.

La realtà è che, per quanto ci si possa provare, la Silicon Valley è un modello impossibile  da replicare, almeno fino a ora. Un po’ per le ragioni dette prima, ma anche perché quest’area ha impiegato circa ottant’anni a diventare quella che conosciamo oggi. La Silicon Valley si è reinventata periodicamente, quasi ogni quindici anni, passando dalle applicazioni per la difesa (radar) ai semiconduttori (foundries accanto alla abitazioni!), microprocessori, personal computer, fino ai giorni nostri (shared economy, self-driving vehicles, etc.).

A ogni transizione, l’industria locale è andata in crisi (letteralmente), certe competenze sono diventate obsolete, certe specializzazioni sono state ripensate, aziende sono andate in fallimento, tante persone sono state licenziate. Uno scenario da terremoto, a cui non viene da pensare quando certe aziende hanno una valutazione di mercato da trilioni di dollari, right? Tanto che lo stesso presidente uscente di Stanford, John Hennessy, ha dichiarato che lo spirito vincente di questo posto e di Stanford è l’ottimismo, l’incapacità di arrendersi, la resilienza. Come si fa a competere?

 

Già, come si fa?

Per esempio, con il trasferimento tecnologico. L’idea è, per l’appunto, di trasferire idee e tecnologie dall’università all’industria. Facile a dirsi.

L’era del moderno trasferimento tecnologico inizia con la nascita dell’Office of Technology Licensing nel 1970. In precedenza, i brevetti erano già stati ceduti alle industrie, ma i processi erano ad hoc, gestiti da legali specializzati in brevetti e amministratori dell’università. La vision del fondatore dell’OTL, Niels Reimers, consisteva nel creare una organizzazione specializzata nel pubblicizzare la proprietà intellettuale generata a Stanford. Lo scopo non era quello di aiutare l’industria, ma di generare profitto per l’università.

A quel tempo, l’idea che Stanford e l’industria privata potessero trarre profitto da ricerca finanziata con fondi pubblici generò opinioni molto controverse: il rischio di conflitti di interessi (per cui la ricerca accademica potrebbe essere influenzata dalla possibilità di ritorni finanziari) rimane reale, ma decenni di successi dimostrano che il rischio può essere gestito.

Gli uffici di trasferimento tecnologico creano opportunità per l’università in termini di collaborazioni, finanziamenti di linee di ricerca e attrattività verso docenti e studenti. Un ufficio di trasferimento tecnologico gestisce la proprietà intellettuale tramite consulenza, licenze, servizi legali e connessioni con il mondo del business (e molte altre cose: sto semplificando). Inoltre, l’ufficio deve decidere se un’invenzione possiede sufficiente potenziale in termini di valore commerciale (valutato sui ritorni economici generati dalle licenze). Spesso queste cifre possono aggirarsi intorno ai 100.000 dollari (ovvero: per iniziative al di sotto di questa soglia non ha senso procedere); altre volte (e dipende sempre dall’università in questione), l’istituzione riconosce il potenziale della scoperta e finanzia una startup senza addebitare alcun costo.

Tuttavia, uno studio condotto da Brookings mostra come oltre l’80% delle università non riesca neppure a coprire i costi di un ufficio di trasferimento tecnologico. Come spesso accade, si pensa sempre a quei pochi che ce l’hanno fatta mentre tutto il resto arranca. Sembrerebbe che, con l’esclusione di poche, grandi istituzioni, il gioco non valga quasi la candela (vedi la lista delle quindici università in USA con il maggior numero di brevetti).

Infatti, quando un’invenzione è in uno stato promettente di sviluppo, ma non è ancora completa (non abbastanza da attrarre uno sponsor commerciale), il capitale di rischio interviene con liquidità. Molte università provvedono connessioni con investitori di questo tipo (o, addirittura, possiedono proprio fondi di rischio per questo genere di imprese).

 

Il difficile guadagno della ricerca

Ma la legge della probabilità non risparmia neppure Stanford che, con il proprio Office of Technology Licensing ha gestito 6.000 invenzioni nel corso degli ultimi 35 anni, delle quali solo il 22% si è trasformato in aziende che hanno portato utili all’università. Quel 22%, però, include spin-off che hanno realizzato guadagni non indifferenti: 53 startup hanno portato più di un milione di dollari, 16 più di cinque milioni, e 3 più di cinquanta milioni. Poi c’è Google, che ha fruttato 338 milioni: Brin e Page avevano lavorato a un progetto per una biblioteca di Stanford per quattro anni, usando risorse dell’università per sviluppare un motore di ricerca che, pensavano, avrebbero venduto, ma che nessuno voleva comprare. Quasi per disperazione, I due decisero di fondare un’azienda. Stanford trattenne per sé il brevetto, ma garantì loro licenza esclusiva sull’algoritmo, senza nemmeno sapere se i due fossero in grado di creare e gestire un business (esatto: unbelievable). Il 2% di proprietà che Stanford ha trattenuto per sé è quello che ha generato un capitale netto pari a quei 338 milioni di dollari.

Qualche altro numero: il rapporto The Economic Contribution of University/Nonprofit Inventions in the United States: 1996-2015 documenta il ritorno sull’investimento (ovvero sulle tasse versate) che i cittadini statunitensi hanno ricevuto da ricerca finanziata con fondi pubblici. In un periodo di vent’anni, i brevetti accademici e il licensing alle industrie ha aiutato a generare un output industriale lordo di 1,33 trilioni di dollari, un prodotto interno lordo di 591 miliardi, e ha supportato quasi cinque milioni di posti di lavoro. In particolare, questi sono i dati per il 2015:

  • 1012 le startup formate, per una media di circa 2,75 nuove startup al giorno;
  • 879 i nuovi prodotti introdotti sul mercato, provenienti da invenzioni accademiche, per una media di 2,4 nuovi prodotti al giorno;
  • 28,7 i miliardi di dollari al netto delle vendite generate da prodotti basati su brevetti accademici;
  • 7942 le nuove licenze assegnate, con oltre il 70% dei brevetti accademici assegnati a piccole aziende.

 

Una digressione sul ruolo dell’università

Lasciamo le “magnifiche sorti e progressive” delle aziende high-tech per un attimo, e pensiamo agli obiettivi dell’università in quanto istituzione, al perché il trasferimento tecnologico sembri tanto il sacro graal – e perché sia così difficile.

Al contrario dell’industria, l’università esegue un lavoro di tipo scientifico: l’accademia è relativamente rimossa dai mercati, e non ha interessi commerciali; le informazioni che possiede sui mercati sono incomplete e i cambiamenti nei modelli di consumo non sono di suo interesse; la struttura organizzativa stessa è diversa da quella delle aziende; i processi decisionali sono lunghi e faticosi. L’università è interessata alla ricerca di base, laddove ricerca applicata e sviluppo sperimentale diventano rilevanti solo nel caso di certi programmi specifici.

I due ruoli fondamentali dell’università consistono, quindi, nella generazione di conoscenza (la ricerca) e nel trasferimento di detta conoscenza (l’istruzione). Il cosiddetto “terzo ruolo”, l’uso della conoscenza, rappresenta il passo successivo nell’evoluzione delle università, e si caratterizza per le opportunità di collaborazione con l’industria. È quello che potremmo chiamare l’“università imprenditoriale”, ed è un concetto molto difficile da declinare.

 

Un modello da emulare

Che fare? Nessuno è risparmiato dall’ansia di dominare la realtà circostante, tutta umana: non è l’innovazione in sé che ci spaventa, quanto la crescente difficoltà di tenere il passo con tutto ciò che di nuovo ci circonda. Direi tipico del genere umano.

Neanche Stanford è immune da queste paure, nonostante l’endowment (overo il capitale gestito) di quasi 25 miliardi di dollari. Qui si fanno piani strategici a vent’anni (un tempo lunghissimo, soprattutto in Silicon Valley). Poi, si agisce; e di nuovo, nello spirito del fallire e imparare, si cambia quello che non ha funzionato, mentre si perfeziona quello che rimane.

Bisogna investire di più nel trasferimento tecnologico, in Italia? Oppure lasciare in pace le università a perseguire conoscenza e istruzione, allineate alle prime due componenti della missione in tre parti a cui accennavamo prima? Trasformare i professori in imprenditori? Creare aziende che possano gestire il trasferimento tecnologico per conto delle università, integrate nel tessuto produttivo/commerciale/industriale, focalizzati su marketing e vendite (perché se non si pubblicizza un’invenzione, come si fa a piazzarla sul mercato)? O forse un ibrido?

Alcune di queste domande sono delle provocazioni, altre no.

D’altra parte, questo articolo non vuole fornire una disamina del trasferimento tecnologico negli Stati Uniti, ma solo dare qualche spunto di riflessione.

Sarebbe bello poter offrire una formula vincente per il trasferimento tecnologico. Io non la conosco. Vedo, invece, le dinamiche università-impresa estremamente connotate in senso geo-culturale: i professori e le industrie a Tokio interagiscono (no surprise) in maniera molto diversa rispetto a Tel-Aviv (entrambi centri molto attivi in quanto a scambi accademia-industria, specialmente Israele). Forse vale la pena di guardare al nostro Paese e di pensare a una soluzione (qualunque essa sia) che vada bene per noi e per il nostro sentire.

Qui a Palo Alto ho visto offrire finanziamenti dell’ordine delle centinaia di migliaia di dollari con una stretta di mano. Accade davvero. E allora un germe di idea potrebbe essere:

  1. Semplicità estrema (nei meccanismi, nelle procedure);
  2. fiducia e consapevolezza (c’è un motivo se si chiamano capitali di rischio: è perché sono ad alto rischio).

Con queste (mi rendo conto, alquanto semplicistiche) premesse, con un po’ di ottimismo stanfordiano”, mi piace pensare che potremmo riuscire a calibrare le nostre aspettative senza rincorrere l’impossibile. Forse non siamo messi così male come a volte ci sembra.

CONDIVIDI

Leggi anche

Editoriale 68 – Università senza lode

Se non ti parli, non saprai mai cosa pensa l’altro e cosa avrà da dirti, pur dando per scontato che parlare sia ancora una forma di interazione e non una presa di posizione giusto per dire “esisto”. Certo il gioco del dialogo sta in piedi solo con l’interesse o meno ad ascoltare, più che a […]