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L’Opificio Golinelli non molla l’U.MANO
Il tema dell’inarrestabile progresso tecnologico, del transumano, anzi del post-umano, è spesso affrontato con una grande ansia. Temiamo di essere sovrastati dalla tecnologia, abbiamo paura che le macchine ci possano rubare il lavoro e insieme a quello le speranze per il futuro. Ma affrontare il transumanesimo con paura e diffidenza non è l’unica strada percorribile. […]
Il tema dell’inarrestabile progresso tecnologico, del transumano, anzi del post-umano, è spesso affrontato con una grande ansia. Temiamo di essere sovrastati dalla tecnologia, abbiamo paura che le macchine ci possano rubare il lavoro e insieme a quello le speranze per il futuro. Ma affrontare il transumanesimo con paura e diffidenza non è l’unica strada percorribile. Potremmo pensare a un nuovo umanesimo, che guardi alla tecnologia con fiducia; perché utilizzare le evoluzioni della tecnica nel modo giusto e senza farci fagocitare potrebbe regalarci una grande libertà, invece di togliercela.
L’occasione di parlare del rapporto tra uomo, macchina, scienza e arte è arrivata a Bologna durante l’inaugurazione della mostra U.MANO all’Opificio Golinelli. Prima della conferenza stampa ufficiale ho incontrato il suo curatore Andrea Zanotti. Questo lavoro ha preso forma dall’idea originaria che arte e scienza in passato sono sempre state molto più vicine di quanto le pensiamo oggi, e che il passato non può essere fagocitato, ma deve essere utilizzato come la bussola che ci guiderà verso il futuro possibile. “Siamo fuori dal vecchio mondo e pensare di poter tornare indietro è una sciocchezza colossale”, sostiene Zanotti. “Non torneremo più quello che eravamo, ma dobbiamo attrezzarci a reinterpretare il presente. Dobbiamo fare i conti con la realtà aumentata. U.MANO vuole entrare in quella realtà con le dovute cautele, ma con la fiducia che la tecnologia ci può aiutare e dare una grande libertà”.
Quali sono oggi le intersezioni tra arte e scienza?
Purtroppo oggi pensiamo solo a fare delle cose utili e fruibili, normalmente bruttine; poi ogni tanto cerchiamo di salvarci l’anima andando a vedere qualche mostra. In realtà l’alleanza tra arte e scienza deve essere molto più stretta, perché la discontinuità che alimenta il gesto artistico è la stessa discontinuità che nutre il gesto scientifico. Bisogna creare intersezioni più ampie e ricostituire l’unità del sapere umano. Oggi invece le varie discipline non si parlano, non si contaminano.
E come si può spezzare questa divisione?
Questa verticalità va spaccata contaminando i saperi. Non esiste più un tempo per la formazione teorica e successivamente un tempo per la pratica. Oggi teoria e pratica devono nascere insieme. Non hai più un anno per spiegare a uno studente chi era Leonardo, cosa ha fatto, dove ha vissuto; ma hai la possibilità, ad esempio, di fargli ricostruire la battaglia di Anghiari. In questo modo si può recuperare quel genio tipicamente italico che ci è sempre appartenuto.
Durante un’intervista sulla figura dell’umanista in azienda l’ex rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi mi descrisse l’architetto come un muratore che ha studiato latino, sottolineando poi come questa dimensione si fosse persa nel tempo.
L’assenza di queste intersezioni nella scuola è da tempo una chiara lacuna. All’Opificio Golinelli siamo molto impegnati su questo fronte, ma il punto vero è andare dentro a un nuovo metodo e dar vita a una nuova stagione di trasmissione del sapere. Pensiamo all’università: oggi formiamo ingegneri in cinque anni su tecnologie che verranno e che non sappiamo neanche quali saranno. Formiamo operatori sanitari che avranno a che fare con evoluzioni tecniche oggi inimmaginabili. È praticamente tutto vecchio ancora prima di cominciare e l’unico modo per sopravvivere è “imparare facendo”. E questo non ci deve dare una vertigine.
La sensazione di straniamento può però essere molto forte.
In realtà il passato ci può aiutare. Basta ritornare a quello che eravamo, perché nelle botteghe artigiane del Cinquecento succedeva esattamente questo. Non dobbiamo correre dietro alla globalità e a obiettivi che non potremmo mai raggiungere. Non possiamo pensare di competere con un miliardo e quattrocento milioni di cinesi, è una sciocchezza solo pensarlo, ma dobbiamo tornare a fare le cose utili che sappiamo fare, e soprattutto a farle belle. Le imprese che sanno interpretare questa parte del genio italico non subiscono crisi. Possiamo riportare la bellezza nella produzione come fanno la Ferrari, la Ducati e la Lamborghini ad esempio, sfruttando la creatività che è sempre più precoce dei nostri ragazzi. Ma dobbiamo dargli la possibilità di mettere le mani sulle cose, senza spezzettare i saperi. L’arte oggi non si mischia con la quotidianità, ma questo è sbagliatissimo perché l’arte non deve essere un supplemento, una Disneyland da visitare ogni tanto per recuperare un po’ di spiritualità. Non è così che deve essere. Nell’opera dell’uomo la tecnica e il sapere devono essere collegati al bello.
U.MANO come fa emergere questo pensiero?
La mostra vuole dimostrare che c’è una capacità di immaginazione e una capacità tecnologica che si accompagna al recupero della manualità. Le mani che si trovano al centro della sala sono il calco di quelle del cavaliere Golinelli e sono frutto di un lavoro di alta falegnameria. Se si smontasse un pezzo di mano e se si potesse guardare la centinatura che c’è dietro, si scoprirebbe un lavoro straordinario.
Quali altri lavori si nascondono dietro l’esposizione?
Rispetto ad altre mostre, c’è un grande lavoro di programmazione tecnica perché non abbiamo semplicemente allestito lo spazio con materiale già esistente, ma alcune opere sono state realizzate dalla startup G-Factor della Fondazione Golinelli, come ad esempio la mano robotica. Il lavoro ha coinvolto quaranta ragazzi che oggi mettono in mostra la loro opera con pari dignità di Mattia Preti, Guercino e Caravaggio. Gli stiamo insegnando a fare non solo cose utili, ma anche belle, e in questo contesto non abbiamo solo unito arte e scienza, ma abbiamo utilizzato arte e scienza per spiegare quello che stiamo facendo.
Perché avete scelto il 1500 come epoca di partenza?
Il Cinquecento e il Seicento riproducono una rottura epistemologica molto vicina al tempo in cui viviamo. In quei secoli è cambiato il modo di produrre le merci, sono cambiate le geografie perché è stato scoperto il nuovo mondo. Sono epoche in cui il mondo si è aperto a dimensioni sconosciute, era un tempo di incertezza per certi versi simile a quello che viviamo oggi. Da quegli anni abbiamo recuperato dei connettori potenti che ci collegano al passato (Ludovico Carracci, Caravaggio, Guercino), opere dove cambia il gioco delle mani e la concezione del fare. Poi abbiamo attraversato l’Illuminismo, simboleggiato dalle mani di cera di Anna Morandi Manzolini, per arrivare alla mano bionica frutto del lavoro di BionIT Labs. E ancora, attraversando la contemporaneità arriviamo a Pistoletto, che ci mostra il cielo con lo stesso dito che evoca la Creazione di Adamo della Cappella Sistina, ma in un mondo ormai desacralizzato. Quel dito ci indica che dobbiamo tornare a guardare il cielo, un cielo dove alcuni ragazzi hanno recuperato la battaglia di Anghiari.
E qui si sente forte il legame tra tecnologia e arte.
In questo caso è stata utilizzata la tecnologia per ri-materializzare un’opera che nessuno può più vedere. Gli studenti hanno giocato a fare Leonardo e imparato non soltanto chi era, ma la storia di un suo fallimento, perché il grande genio universale in quel caso ha sbagliato i conti della calce e l’opera è andata distrutta.
Qual è l’obiettivo più ambizioso?
Sicuramente il tentativo di ricostruire una teoria estetica. Non abbiamo più un pensiero estetico, siamo circondati da un degrado inaccettabile secondo il quale è bello ciò che piace, ma questa è una sciocchezza feroce. Abbiamo rinunciato alla logica dell’estetica a favore del soggettivismo e oggi viviamo in un mondo più brutto e molto meno pieno di significati simbolici. Nel nostro panorama non c’è niente di simbolicamente rilevante, vediamo antenne di televisioni, parabole, ripetitori, grattacieli, ma nessuno si pone il tema della misura. Invece nella teoria estetica c’è la misura dell’uomo: se perdiamo quella siamo morti. Il bello ti motiva, la sola tecnica si traduce in burocratizzazione del mondo. Ma noi non siamo solo dei burocrati, essere burocrati di buoni protocolli non può renderci felici.
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