Sonia Malaspina: “Nelle aziende la cura è competitiva”

Intervistiamo la direttrice delle Relazioni Istituzionali Danone Italia e Grecia, autrice con Marialaura Agosta del libro “Il congedo originale”: tutti i motivi per cui le imprese non possono più evitare di investire nel benessere dei loro dipendenti. A partire dalla genitorialità

17.05.2024
Sonia Malaspina a Nobìlita 2023, a Roma

Sonia Malaspina ha la naturale affabilità di quella vicina di casa a cui puoi sempre chiedere un piccolo favore, sapendo che non ti verrà negato e che avrà piacere di fartelo. Trucco leggero e sorriso genuino, capelli scuri e occhi gentili, appare in una stanza bianca con alle spalle una scala a chiocciola. Dopo sette anni come direttrice HR di Danone Italia e Grecia, oggi è direttrice delle Relazioni Istituzionali della stessa azienda. L’anno scorso ha pubblicato, insieme alla collega Marialaura Agosta, il libro Il congedo originale.

"Il supporto concreto alle persone in rientro sul posto di lavoro dopo la genitorialità ha creato un aumento davvero forte del coinvolgimento, della produttività, dell’attaccamento verso l’organizzazione. (...) Supportare le persone, soprattutto nella genitorialità, rende molto bene; è un investimento vincente per un’azienda."
Sonia Malaspina, direttrice delle Relazioni Istituzionali di Danone Italia e Grecia

Nel suo libro parla di “cultura della cura”: che cosa intende?

Quando negli anni Novanta iniziai a lavorare in azienda, parole come “fragilità”, “maternità” o “congedo” erano tabù. C’era l’idea che l’azienda fosse il posto della performance, della produttività, e che dovesse rimanere ben separata dalla sfera personale e famigliare delle persone. Oggi invece puoi massimizzare le performance solo se ti prendi cura: prima di tutto di te stesso o te stessa come professionista, ma anche dei colleghi e dei collaboratori. Insomma, prendersi cura è sempre più una scelta imprenditoriale, non tanto o non solo una buona pratica e un atto di generosità. Questo vuol dire sviluppare una cultura della cura.

E in particolare, per quanto riguarda la genitorialità?

La maternità è il momento della cura per eccellenza, e forse anche per questo è l’occasione in cui più si può notare il ritorno concreto negli investimenti orientati in tal senso. Ho oramai esperienza diretta di centinaia di casi in cui il supporto concreto alle persone in rientro sul posto di lavoro dopo la genitorialità ha creato un aumento davvero forte del coinvolgimento, della produttività, dell’attaccamento verso l’organizzazione. La mia missione negli ultimi anni è stata quella di raccogliere dati che dimostrano proprio questo: supportare le persone, soprattutto nella genitorialità, rende molto bene; è un investimento vincente per un’azienda.

E che cosa dicono, nello specifico, questi dati?

Molte cose. Per esempio mostrano la diminuzione dell’assenteismo, dello stress, dei giorni di malattia, del turnover, e dall’altra parte l’aumento del coinvolgimento dei dipendenti e del benessere in azienda anche tramite la costruzione di un’ambiente di lavoro più aperto e collaborativo. Attenzione però, per ottenere questi risultati non basta il solo supporto economico: serve anche quello psico-affettivo, per esempio facendo un colloquio a ogni persona al rientro dalla genitorialità, per capirne i bisogni e i desideri, facendoli sentire ascoltati e coinvolti nel progetto del loro percorso professionale.

Oggi, però, quando si parla di aziende che sono come “grandi famiglie” di solito si ottengono reazioni piccate, o persino indignate.

L’azienda non è una grande famiglia, perché in azienda sono tutti adulti. Non ci deve mai essere un rapporto “infantilizzante” tra dirigenza e lavoratori: ognuno è responsabile nel proprio ruolo, che si sia un dirigente o un apprendista. Questo vuol dire avere rapporti tra adulti, di fiducia. Per cui se l’azienda mette a disposizione cose come lo smart working, il welfare, il congedo parentale esteso, è giusto anche aspettarsi dalle persone beneficiarie il rispetto delle regole del gioco, che alla fine sono quelle che permettono all’azienda di rimanere ed essere sempre più competitiva.

Si tratta quindi alla fine di un tema di competitività?

Esatto. Non è un discorso paternalistico, non è l’imprenditore illuminato che generosamente fa qualcosa di bello per i propri dipendenti; è un patto tra adulti responsabili per raggiungere obiettivi comuni. E se tratti le persone da adulte, se lasci loro spazio di iniziativa e dai valore al loro apporto, allora ripagheranno la tua fiducia, e daranno idee e contributi di valore. Per esempio, nel 2020 in Danone pensammo di introdurre una policy per chi assiste genitori anziani, un tema spesso molto trascurato. Cercavamo volontari che ci aiutassero a scriverla: si sono proposti in cinquanta.

Ma queste sono iniziative immaginabili anche per quelle aziende medio-piccole che costituiscono la stragrande maggioranza del mercato del lavoro italiano?

Devono esserlo, immaginabili, per il banale fatto che non ci sono alternative. Dopo la pandemia l’approccio al lavoro è cambiato nel profondo, non solo nei giovani, ma in tutte le generazioni. Oggi le persone non si accontentano del solo salario, ma chiedono di più ai propri datori di lavoro, tanto che persino pagarle più della media non garantisce performance e fedeltà. Serve allora il giusto mix di stipendio e politiche di sostegno e welfare. Noi, per esempio, paghiamo le persone nella media di mercato, ma investiamo moltissimo nel benessere dei nostri collaboratori.

Tante aziende dicono di avere policy all’avanguardia e piani di welfare generosi, ma a volte sembrano restare perlopiù su carta – o sulle slide aziendali.

Perché si è pensato che fosse solo una questione di marketing, o quasi; che al netto di un po’ di maquillage si potesse continuare a gestire le persone come si è fatto in passato. Ma oggi per essere competitiva un’azienda ha bisogno di talenti, di persone che credono in quello che fanno. La competizione è globale, e le persone non ragionano più sul lungo periodo, in termini di carriera o di stipendio da accantonare per il futuro. Vogliono soluzioni ai loro problemi quotidiani; vogliono vedere benefici immediati in termini di benessere, dal far parte di una organizzazione.

L’azienda però deve cercare di far sposare un progetto di lungo termine alle persone.

Vero, ma questo vuol dire che lei stessa deve prima ragionare a lungo termine. Voglio dire: se un’azienda pensa solo al breve, non assumerà donne in età fertile per timore di “perderle” durante i mesi della maternità. Ma se ragiona più a lungo termine, e considera come investimenti quei periodi di assenza (di solito massimo due) per avere persone più preparate e coinvolte, ecco allora che il discorso cambia. La genitorialità d’altronde è una palestra naturale, che aumenta competenze chiave come l’empatia, la capacità di gestire le crisi e l’adattamento, che poi sono fondamentali nel lavoro.

Tra i dirigenti che punto siamo con la consapevolezza su questi temi?

C’è ancora moltissimo da fare, e spesso, purtroppo, per porre davvero il tema sul tavolo bisogna legarlo a qualcosa di più immediato e pragmatico. Ma secondo me sempre più imprenditori capiscono l’importanza di questi temi. Per esempio, di recente ho fatto mettere nei criteri delle nostre gare per fornitori un punteggio superiore per chi presentava una certificazione sulla parità di genere. In seguito ho incontrato dieci dei nostri più grossi fornitori per parlare di questi temi, e non ho riscontrato un fastidio per l’ennesima certificazione da conseguire, ma un reale interesse. Stanno capendo che non possono prescindere da questi temi.

In questo scenario il ruolo dell’HR manager diventa sempre più centrale?

Certo. L’HR manager avrà sempre di più un ruolo chiave, perché dalle persone passa tutto: la competitività, l’innovazione, la produttività; insomma, il destino stesso dell’azienda. Dobbiamo allora liberarlo dal ruolo di “grillo parlante”, cioè di persona che vede le cose per prima, intercetta problemi e potenzialità, ma viene spesso ignorata, o limitata a ruoli burocratici e rappresentativi.

 

 

 

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In copertina, Sonia Malaspina al Festival Nobìlita 2023, a Roma. Foto di Domenico Grossi

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