Le startup di Torino provinciali come l’Italia?

L’azienda si chiama Ulixe, come l’eroe greco “dal multiforme ingegno”, così come multiformi sono le soluzioni ICT che offre. Nasce a Torino nel 2001, dalla volontà di due ventiquattrenni che lavoravano già nel settore: Simone Offredo e Francesco Scrufari, ex compagni di scuola ai tempi delle superiori, che hanno deciso di mettere insieme le forze […]

L’azienda si chiama Ulixe, come l’eroe greco “dal multiforme ingegno”, così come multiformi sono le soluzioni ICT che offre. Nasce a Torino nel 2001, dalla volontà di due ventiquattrenni che lavoravano già nel settore: Simone Offredo e Francesco Scrufari, ex compagni di scuola ai tempi delle superiori, che hanno deciso di mettere insieme le forze e realizzare un proprio progetto a partire da una startup. In circa 18 anni di attività hanno raggiunto ricavi per 15 milioni di dollari, sedi a Torino, Milano e Santa Monica, oltre 300 impiegati e la prospettiva di allargare ulteriormente l’azienda con nuove assunzioni. Una bella storia di imprenditoria che parla di maniche rimboccate e tanto sudore, con un lieto prosieguo nonostante le difficoltà. Una storia esemplare per comprendere il mondo dell’imprenditoria all’italiana e quanto le belle idee possano fruttare senza necessariamente dover fuggire all’estero.

Simone e Francesco hanno creduto nelle loro capacità e credono in quelle di altri giovani come loro. Così si rinnovano e innovano continuamente, creando soluzioni sempre più creative e app di successo come Lumyer, app di photoediting, scelta da Google tra i primi 5 Best Trend App a livello globale nel 2016, che conta circa 25 milioni di utenti. Ma la loro attività non si ferma esclusivamente alla loro azienda: hanno creato The Lab, acceleratore d’impresa, per mettere al servizio dei giovani imprenditori la loro esperienza e il loro supporto. Proprio quello che è mancato a loro.

“Con Ulixe ci siamo detti “ora o mai più”, e così abbiamo abbandonato le nostre rispettive attività da dipendenti e abbiamo iniziato l’avventura. La nostra visione nasceva dall’idea di trasferire parte delle soluzioni client-server sul web, cosa che a quei tempi era più pioneristica di quello che invece ormai è ora, anche per dei vincoli tecnologici. L’investimento inziale è stato fondamentalmente il nostro tempo e il nostro sacrificio, tradotto: rinunce personali. Non abbiamo avuto nessun tipo di credito da terzi e non avevamo grosse risorse alle spalle, se non quanto risparmiato nelle nostre attività lavorative precedenti.

Che cultura si respira nel mondo startup di Torino, e in generale del Piemonte?

Un ambiente ideale per una startup ha fondamentalmente quattro componenti: università di eccellenza, soldi, player importanti sul territorio e positività. Ora in Piemonte, a Torino, abbiamo sicuramente il Politecnico e la facoltà di Informatica, ma anche altri dipartimenti che riescono a generare competenze e idee da parte di un pubblico giovane, pronto a rischiare. Chiaramente il concetto di fare startup è qualcosa nuovo in Piemonte, e quindi non abbiamo ancora quella mentalità fortemente imprenditoriale che per esempio c’è oltreoceano. Sul resto abbiamo delle lacune. È difficile portare avanti una startup per un ragazzo quando il premio di uno dei tanti concorsi acclamati per startup mette in palio 20.000 euro. È una cifra francamente ridicola. Abbiamo degli attori importanti, in quel mondo, che potrebbero avere un ruolo determinante, e speriamo che lo possano portare avanti in maniera meritocratica e sistematica. Sul fronte dei player, abbiamo sicuramente importanti realtà (si pensi a Fiat e Ferrero), ma soffriamo la concorrenza di Milano, benché se poi uno va a vedere il numero di startup create non siamo messi poi male. Quanto all’ultimo elemento, la positività, è più un modo di pensare che la propria idea porti valore aggiunto alla società. Viviamo in un periodo particolare che magari non aiuta, ma su questo la speranza rimane sempre viva. In ultima battuta, ma questo è a livello nazionale, non esiste un mondo florido per le startup se le istituzioni non creano gli strumenti legislativi per la gestione, per il diritto, in linea con i tempi. È come mettere un treno ad alta velocità, perché così deve ragionare la startup, su un binario del 1800. Se le istituzioni non rinnovano questo contesto, rischiamo di vanificare il tutto.

È stato difficile per voi avviarla?

Più che difficile. Intanto dobbiamo collocare il periodo storico. Siamo nel 2001 e non nel 2019: non è tantissimo, ma nel mondo delle startup in Italia è un secolo. Noi attualmente seguiamo diverse startup sia come investitori sia come advisor, e il mood del momento, benché lontano da altri standard europei e d’oltreoceano, permette già una serie di soluzioni che ai tempi non c’erano. La parte più difficile è stata essere credibili con gli interlocutori e trovare i soldi. Avevamo solo 24 anni, senza sponsor alle spalle, in un mondo che ci aveva già etichettati come meteora in quanto giovani e inesperti. Mai come allora abbiamo sentito il peso generazionale. Ora avere una startup a 24 anni è cool ed è corretto in quanto accettato dall’ecosistema, ma ai tempi l’idea che dietro a tutto ci fossero due ragazzi di 24 anni era un elemento deficitario per collaborare. L’ostacolo economico poi lo abbiamo superato con un flusso costante, che era lavoro, generazione di utile, reinvestimenti in azienda. Ora ci ridiamo su, ma nel primo anno di vita ci siamo trovati di fronte a un direttore di banca per una concessione di un finanziamento di 20.000 euro. Non fu disponibile a concedercelo, perché, come lui stesso ci disse, non avevamo sponsor ed eravamo giovani; avremmo chiuso nell’arco di sei mesi. Il vantaggio è solo uno: lavorare a qualcosa in cui credi fortemente e di cui ti senti l’attore principale. È un po’ come giocare la finale di Champions League: se non trovi lì le forze per dare il meglio di te, non le troverai da nessuna parte. La nostra avventura ci ha permesso di cercare e tirare fuori il meglio di noi.

Contando solo sulle vostre forze siete riusciti a creare un’azienda di successo che sforna app come Lumyer, sotto l’attenzione di milioni di utenti.

L’idea di Lumyer nasce da una precedente tecnologia che avevamo integrato per i tablet e la lettura di contenuti editoriali. La sfida era di portare questa tecnologia alla portata di un utente finale, e di renderla applicabile non a contenuti editoriali definiti, ma alla totalità delle foto della propria gallery. Era una discreta sfida sia di tecnologia che di creatività.

Perché secondo voi molti startupper italiani scappano in Usa, dove fanno fortuna, e in Italia non riescono ad avere successo?

L’Italia non ha strumenti organizzativi minimamente confrontabili con il sistema americano. Il nostro legislatore, quando parla di startup, probabilmente ha in mente come definizione una “società nata recentemente”: qua si ferma la sua conoscenza del mondo e delle modalità di affrontare questo tema. Chiedetevi quali sono gli strumenti partecipativi all’interno di una startup in Italia e in America. Prendete uno startupper alla sua prima esperienza lavorativa e imprenditoriale, un neolaureato di 25 anni, e mettetelo di fronte alla macchina burocratica italiana. Passerà metà del suo tempo a cercare di muoversi in un labirinto kafkiano chiamato “burocrazia italiana” invece di pensare al prodotto e al suo sviluppo. L’America è molto più competitiva, molto più cara a livello di expertise; noi italiani, noi torinesi, a livello tecnologico non abbiamo niente di meno rispetto ai nostri corrispettivi d’oltreoceano. Con tutto il rispetto per Stanford, un nostro laureato al Politecnico non ha tanto da invidiare a chi si laurea in quell’ateneo, ma nonostante tutto lì c’è un contesto che da decenni è strutturato e collaudato sulle esigenze delle startup. Da noi semplicemente questo non c’è.

Avete sedi anche a Milano e a Santa Monica. In questi luoghi come si lavora rispetto a Torino?

Di Milano apprezziamo il dinamismo e la percezione di una città che continua a innovarsi, a volersi ritagliare uno spazio importante nel panorama internazionale; aspetti che su Torino negli ultimi anni sono venuti decisamente a mancare, tornando a essere un po’ più provinciale. Santa Monica, e quindi la California, è decisamente un altro campionato. Si hanno tutti gli elementi che servono per cercare di avere successo; si percepisce che il business viene prima di tutto, il che per certi aspetti può essere negativo, ma per altri aiuta a trovare un minimo comun denominatore con tutti e a focalizzarsi meglio sui propri obiettivi. Discorso a parte la Silicon Valley, dove è solo business.

Vi è mai venuto in mente di chiudere le sedi della vostra azienda in Italia e lavorare solo all’estero?

Sì, certo, ma il vantaggio della globalizzazione è anche quello di poter fare business e prodotti a livello globale senza necessariamente essere lì. Le nostre radici sono qua e riteniamo di poter raggiungere i nostri obiettivi senza necessariamente spostarci.

Spiegaci come si fa a rendere il successo così duraturo senza perdere utenti.

Mantenere gli utenti a distanza di tempo si può fare in un unico modo: continuando a innovare e a genere contenuti interessanti. Non c’è un’alternativa. Tutti sono soggetti a questa regola di mercato. Non c’è una formula per il successo assoluto, altrimenti basterebbe replicarla più volte. Ci sono una serie di best practices e una dose di fortuna che contribuiscono a creare un orizzonte più fertile. Innanzitutto noi ci siamo confrontati fin da subito con il mercato americano, in Silicon Valley. Questo significa per noi avere già degli obiettivi e dei benchmark alti. Non potevamo accontentarci di un risultato mediocre lì, anche se sarebbe stato ottimo in Italia. Avevamo come obiettivo quello di poter stare al medesimo tavolo dei player più importanti. Questo ti spinge costantemente a migliorare, a essere più esigente, a spostare in su l’asticella dell’innovazione. Poi chiaramente bisogna rischiare e cercare di realizzare un’idea che quando vedrà la luce sarà sufficientemente avanti per essere considerata innovativa, ma non troppo per essere considerata incomprensibile dagli utenti. L’app è né più né meno che un’impresa a sé, quindi deve avere una vision, un’idea chiara di investimento, una sua timeline e un suo modello di business che prima o poi si deve concretizzarse, in modo che si autosostenga.

Come si è trasformata oggi Ulixe?

Oggi Ulixe è un player nel mercato ICT che porta avanti più linee di business: la system integration, che è quella storica, la realizzazione di app di proprietà e per conto terzi e l’accelerazione di startup. Il successo è una condizione per noi ancora lontana, perché pensiamo che abbiamo ancora molte idee da concretizzare e molte aree su cui migliorare.

Tanto che prevedete di assumere altri 400 sviluppatori. Ma è una figura professionale facilmente reperibile in Italia?

La nostra esigenza è in parte l’esigenza di tutto il settore in ambito sviluppo software. Le app sono un mercato più recente e le tecnologie sono in continua evoluzione. Questo rende più complicato trovare persone con capacità di dominio libere sul mercato. Per ora sopportiamo intensificando gli strumenti e le modalità di recruitment, ma anche investendo su personale decisamente meno esperto, neolaureati e neodiplomati, con politiche di formazione on the job.

Credere nei giovani vi ha portato anche a vincere il premio Best Cinematography allo Scream Fest di Hollywood, il più importante festival horror a livello mondiale.

È stata un’esperienza emozionante, perché al di là del contesto ci ha permesso di prevalere su altri titoli di grosse distribuzioni in gara, tecnicamente eccellenti e dai budget decisamente maggiori. L’idea nasce da tre registi torinesi che all’epoca si stavano occupando della parte di comunicazione di un nostro cliente. La loro idea del lungometraggio aveva come protagonista un’applicazione mobile, in una sorta di The ring rivisto ai giorni nostri. Anche questo è stato un elemento importante, perché ci ha permesso di trovare subito un primo spunto di collaborazione. Il background pregresso di Simone, che ha studiato sceneggiatura al Dams, ci ha permesso di valutare l’idea nel suo complesso con un occhio diverso, e insieme abbiamo pensato che poteva essere interessante partecipare alla produzione.

Come nasce e come cresce The Lab, l’acceleratore di impresa a cui avete dato vita?

Col tempo abbiamo visto che la nostra esperienza nel mondo delle app, poteva essere di aiuto ad altre aziende che operavano nel settore. In generale le nostre app hanno acquisito 27 milioni di utenti finali. Non sono molti in Italia che possono vantare numeri simili. Questo significa che tutte le tematiche del ciclo di vita di un’applicazione con alta scalabilità sono state da noi affrontate e coperte, come competenza. Si parte dall’ideazione del progetto fino all’immissione e mantenimento sul mercato. Fare di queste competenze un’azienda che le mette al servizio di terzi è un servizio che permette ai clienti di vedere in anticipo gli scenari che si andranno a creare, riducendo il margine di errore e la spesa relativa.

Perché decidere di investire in un acceleratore di impresa? In Italia non è pratica diffusa.

Noi facciamo un acceleratore di impresa nel nostro settore specifico per realtà early stage a livello di seed, in quanto per ora non abbiamo dietro investitori istituzionali. Quello che facciamo lo facciamo per mettere a disposizione le nostre competenze nel mondo delle startup, accelerando la loro crescita in particolare sulla parte di sviluppo del prodotto, nel modello di business e nel digital marketing. È un give back tra imprenditori. Abbiamo ingegnerizzato questo processo con una partecipazione in equity nelle singole iniziative in cui partecipiamo. Ovviamente la cosa più complessa è la selezione, perché dobbiamo cercare di capire il potenziale delle varie idee, ma soprattutto del team, quando ancora non è espresso. In Italia ci sono diversi acceleratori, ma sono pochi quelli che oltre a un potenziale network e delle postazioni di lavoro vanno a intervenire sull’idea e sul prodotto, però su questo crediamo che le cose potranno cambiare per allinearsi con le necessità di mercato.

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