Sviluppo turistico e destination management: in Italia lo stiamo facendo male

Tutti gli errori commessi da politica, enti locali e guru del marketing turistico nel progettare e attuare lo sviluppo delle “aree depresse”.

Slow tourism, turismo lento e rurale, turismo dei cammini, rinascita dei piccoli borghi, destination management e destination marketing: questi sono gli argomenti più discussi e di moda sulle piattaforme social riguardo i temi dell’innovazione e sviluppo turistico in era COVID-19.

Dove è marcato il divario nello sviluppo turistico di una destinazione, più precisamente nelle piccole realtà territoriali dell’entroterra, della montagna e nei borghi – ovvero le mete meno interessate dai flussi di massa – il divario è da attribuirsi a scelte politiche fallimentari o dalla prolungata assenza di azioni da parte degli enti locali.

Perché l’Italia ha abbandonato l’entroterra: le origini delle “aree depresse”

Tra le cause del mancato sviluppo turistico, economico e sociale delle aree minori c’è anche la carenza di politiche nazionali. Il conseguente progressivo spopolamento di gran parte dell’entroterra italiano va ricercato proprio qui: nella storia e nella politica.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con il progressivo avvento del consumismo e la ripresa industriale post ricostruzione, si è vissuta una emigrazione di massa dalle professioni rurali; un settore a cui lo Stato e le singole regioni non sono stati in grado di attribuire valore sostenibile mediante adeguati piani di sviluppo su scala nazionale, in modo più marcato al Sud. Al Nord, invece, il fenomeno di spopolamento si è vissuto meno proprio grazie a pronte politiche e programmi economico-sociali messi in atto dai vari governi regionali.

Si stima che l’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno in quarant’anni sia costato circa 140 miliardi di euro, con un impegno medio annuale di 3,2 miliardi di euro. Mezzo punto di Pil ogni anno è stato dedicato a rincorrere la balena bianca dello sviluppo delle aree depresse nelle sei regioni meridionali, nelle isole e in alcune province del Lazio. Il miglior prodotto creato sono state le cosiddette “cattedrali nel deserto”. Lo Svimez, il più titolato centro studi meridionali, ha calcolato che dal 1951 al 2013 sono arrivati nel Mezzogiorno 430 miliardi di euro in conto capitale per investimenti e infrastrutture, cioè il triplo di quanto impegnato dalla sola Cassa. Un fiume in piena di denari che ha irrigato terreni molto permeabili, sui quali però è cresciuto il nulla.

Vado a vivere in un borgo: il sogno post pandemico incontra lo sviluppo turistico

Sempre a proposito di risorse sprecate, tornando a oggi, la domanda che merita attenzione è se questa pandemia rappresenti realmente un’opportunità di sviluppo per il rilancio del turismo, anche rurale, anche per i piccoli borghi e per le realtà territoriali con minore attrattiva. Su queste tematiche si è concentrato il popolo del web e i guru del management e marketing turistico.

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”, è la frase emblematica comparsa su un muro di Madrid a inizio pandemia. Questa crisi globale ha alienato abitudini consolidate e alimentato nuovi ideali di vita, tra i quali quello di vivere in un borgo a dimensione d’uomo. Isolati dal mondo, sì, ma non troppo, secondo gli emergenti dettami dei moderni concetti smart lifestyle e smart working.

Proprio da questa richiesta emergente nasce il bisogno di trovare nella comodità metropolitana, comunque organizzata di infrastrutture primarie e servizi, la comfort zone che ci si aspetterebbe di trovare a casa propria. Statisticamente, a scoraggiare chi vorrebbe vivere e lavorare in dimensioni rurali controllabili è la scoperta che una comunità coesa fatta di persone e cose non è facile da realizzare. Qui entrerebbe in gioco il ruolo dello sviluppo dell’ecosistema, che non può essere costruito con azioni disgiunte o semplicemente creando cooperative RTI di fornitura tecnologica, ma richiede transfert motivazionale e volontà autoconsapevole di cambiamento.

Sviluppo turistico non può essere solo marketing. Quando il giudizio esperto si cala nella realtà, si scontra con l’inesperienza e con la difficoltà oggettiva di operare cambiamenti culturali prima che tecnologici. L’innovazione non può essere eterodiretta, e va applicata in condizione di mutua consapevolezza rispetto alle comunità.

Invece è ciò che accade comunemente nella maggior parte dei territori, in modo più marcato dove vi è carenza di un modello ideologico socialmente integrato. Questo porta a intraprendere azioni scoordinate sulla base di ciò che dall’esterno viene percepito come opportunità. Ad esempio copiare ciò che fanno altri, inclusi gli errori; accontentare singoli consulenti e aziende in nome di favori personali; oppure fare qualcosa a tutti i costi perché ci sono finanziamenti da spendere. Così, sulle realtà territoriali non è avvenuto alcun cambiamento integrativo di carattere sociale, culturale e turistico.

Come riconoscere un finto esperto di destination management

L’attenzione del problema va posta sulla scarsa o assente professionalizzazione delle figure consulenziali, sommata alla carenza manageriale degli enti locali che porta ad affrontare lo sviluppo turistico basandosi su modelli imprenditoriali.

La pandemia, poi, sembra aver risvegliato nel mondo dei consulenti una dimensione perduta dell’Italia, quella fatta di entroterra, storia e geografia, turismo rurale, comunità montane e piccoli borghi. In regime di stop forzato del settore turistico la necessità si è trasformata in virtù, e come per miracolo si sono moltiplicati gli esperti di turismo.

Troppi inglesismi, la ricerca forzata di terminologia sofisticata per atteggiarsi e per cercare di fare colpo, personal branding spinto, eccesso di personalismo o innovazione da supermercato non sono indici di serietà e professionalità di un consulente. Se si riscontrano questi comportamenti è bene essere cauti, perché possono significare che la persona ha bisogno di mettersi in mostra per lavorare o per ritagliarsi credibilità.

Non è sempre così, sia chiaro. I professionisti del destination management ci sono, ma si contano sulle dita di due mani, e non si misurano sulle azioni di personal branding, notorietà o esaltazione mediatica – spesso fasulla. Un valido consulente scrive poco, usa farina del suo sacco e non emerge dalle ceneri di un evento di settore in cui ha ricevuto notorietà.

La valutazione della capacità professionale deve essere attenta: non si dovrebbe limitare alla popolarità delle figure individuate, ma su ciò che realmente i professionisti sanno fare e hanno fatto, curriculum alla mano.

Turismo e rinnovamento, il ruolo dei destination manager

La relazione tra redazione e attuabilità di piani strategici affidati all’ambito accademico è un altro punto debole. L’inefficacia sta proprio nel metodo, nonostante sia una prassi nella Pubblica Amministrazione: il problema è la redazione eterodiretta di strategie spesso inapplicabili o irrealistiche.

È rilevante anche il fattore interpretativo e di applicabilità da parte della classe politica, a cui non può essere richiesta tale capacità, né tantomeno quella di rendere sostenibili e attuabili strategie complesse, che necessitano di figure specifiche ad alta professionalità.

Questo porterebbe alla necessità di inserire all’interno dei comparti turistici figure come il destination manager, cioè professionisti esperti con una visione a 360 gradi dell’ambito turistico, dimestichezza nella gestione delle leve strategiche, nella conduzione di dinamiche sociali aggreganti, nell’uso di tecnologie, e con una corretta interpretazione dei bisogni di target e mercati.

Due territori ho scelto per rappresentare testimonianze di percorsi virtuosi di sviluppo turistico. Sono significativi perché hanno raggiunto l’obiettivo di unire i puntini su due concetti fondamentali legati all’innovazione: approccio e metodo. Due realtà geograficamente opposte: la località turistica lombarda di Livigno e Castelsaraceno, piccolo borgo di media montagna nel cuore della Basilicata. Due storie differenti da numerosi punti di vista.

Quando la preparazione alle Olimpiadi salva dal COVID-19: il caso di Livigno

Di Livigno ci parla Giorgio Zini, presidente dell’associazione Skipass Livigno e già presidente e DG della APT Livigno.

Livigno, località di montagna lombarda al confine con la Svizzera, ha sviluppato negli ultimi vent’anni progetti che hanno cambiato radicalmente la percezione della località. Non più solo duty free area, ma meta di migliaia di sciatori in inverno e paradiso della mountain bike in estate, grazie ai mondiali 2005 di MTB e al contestuale sviluppo progettuale turistico collegato.”

“Questi risultati sono il frutto di un’intuizione del management della locale APT, supportata dall’amministrazione comunale e da qualche imprenditore privato.

Non era scontato che quella intuizione diventasse una chiave di successo per il turismo estivo di Livigno. La difficoltà di sviluppare una progettazione partecipata è ancora un ostacolo, e condividere un processo di sviluppo è più difficile che imporre soluzioni preconfezionate dall’alto.”

Livigno durante la stagione estiva

“Nella mia esperienza, ho contribuito a realizzare un impegnativo processo di sviluppo: un piano strategico di comunicazione (lato web, ma soprattutto interna e di prossimità), la sostituzione della piattaforma web con implementazione della vendita online, l’inizio di una raccolta dati profilata utile per conoscere e impostare la strategia della Skiarea, basata su bisogni e abitudini dei consumatori per orientare le scelte future.”

“Tra gli obiettivi a medio termine ci saranno le Olimpiadi del 2026, che vedranno Livigno tra le località italiane sede dei campi gara di questo incredibile evento che dovrà lasciare un’eredità importante alle generazioni future. Il punto di forza di quest’ultimo progetto è stato quello di aver coinvolto da subito in tavoli operativi tutte le società degli impianti di Livigno, procedendo ad avanzamenti condivisi.”

“Questo processo di sviluppo, partito prima dell’avvento del COVID-19, ha trovato un’immediata utilità proprio in questo periodo, consentendo agli sciatori una maggiore autonomia e sicurezza nell’acquisto e ritiro degli skipass, favorendo un maggiore rispetto e controllo delle regole di contingentamento previsto dalla normativa emergenziale.”

Castelsaraceno, il paese che rinasce grazie a un progetto efficace e fondi europei

Castelsaraceno è uno dei tanti piccoli borghi lucani. Situato a 900 metri s.l.m. e con una popolazione di circa 1.300 abitanti, è anche chiamato “il paese tra i due parchi”: si trova infatti incastonato tra il parco dell’Appennino Lucano e quello del Pollino. Di antiche tradizioni pastorali, dal dopoguerra ha subito un progressivo spopolamento a favore dell’impiego nell’industria e dell’emigrazione al Nord.

Castelsaraceno, vista notturna. Credits: Pino Spagnuolo

Il percorso di rinnovamento di questo borgo nasce da un percorso partecipato legato alla ricerca delle identità originarie caratterizzanti e dall’intuizione che sarebbero servite forti motivazioni per approcciare un piano di sviluppo e rinnovamento socioeconomico e culturale. Questa comunità, oggi guidata da un giovane sindaco e da una giunta virtuosi, ha costruito la motivazione necessaria attingendo a fondi europei e presentando il progetto – oggi realizzato – del ponte pedonale tibetano più lungo al mondo. Un’opera ingegneristica imponente, un punto di collegamento non solo fisico tra due parchi nazionali, ma anche di congiunzione socioculturale: oggi la popolazione si riconosce e identifica con fierezza in quest’opera, punto di giunzione tra il vecchio e il nuovo.

Su queste motivazioni forti, riconosciuta la necessità di avere un appoggio manageriale esperto, si è riusciti a gettare le basi per co-costruire e avviare un progetto integrato di ecosistema turistico attorno a questo macro attrattore, ma anche utilizzando il contesto territoriale con una connotazione outdoor e sport.

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