The Publishing Fair: tutto quello che non ci hanno mai detto sui libri

Quanta baruffa quando si parla in Italia di cultura, quanta superficie nei dialoghi e quanta polvere che ci si posa sopra. Pur di non andare al sodo, e analizzare seriamente cosa e quanto smuova dentro un’economia nazionale, siamo capaci di tirar su polemiche come castelli, alti e fragilissimi, come quella intorno al Salone del Libro […]

Quanta baruffa quando si parla in Italia di cultura, quanta superficie nei dialoghi e quanta polvere che ci si posa sopra. Pur di non andare al sodo, e analizzare seriamente cosa e quanto smuova dentro un’economia nazionale, siamo capaci di tirar su polemiche come castelli, alti e fragilissimi, come quella intorno al Salone del Libro chiuso da poco.

La lettura non è mai stata considerata un’industria da noi, semmai un hobby o un dato da classifica. I numeri invece lo smentiscono e nel comparto culturale mettono l’editoria al primo posto come fatturato. “Facciamo 2,7 miliardi di euro l’anno di cui non si sa niente. Veniamo prima del cinema e dei musei, siamo quarti in Europa come forza e di questi miliardi una parte ingentissima è la cosiddetta non fiction. In Italia si parla quasi sempre solo di narrativa e il focus è sempre sugli autori ma chi fa davvero il fatturato sta altrove, è la non narrativa che vuol dire per lo più saggistica ed editoria scolastica rispettivamente con 500 e 650 milioni. Poi tutto il mercato dei libri per professionisti. Insomma in Italia si parla di tutt’altro rispetto alla realtà quando si parla di libri. La non fiction tra l’altro è la parte che interessa di più l’estero perché sempre più spesso vengono in Italia ad acquisire”.

Per questo hai scelto un nome inglese.

The Publishing Fair ha taglio internazionale perché il comparto è internazionale. In Italia abbiamo circa 4800 editori, la maggior parte piccoli e piccolissimi e questo testimonia fedelmente lo stato industriale italiano dal punto di vista della sua fisiologia. È la nostra matrice e non è detto che sia un limite.

 

 

Rispetto al Salone del Libro Marzia Camarda non si mette affatto di traverso, semmai si completano: loro spingono – si spera – nel fare cultura e vendere libri, lei al contrario vede il settore da dietro e investe risorse sull’intera filiera editoriale. Per la prima edizione di The Publishing Fair a Torino dal 22 al 24 novembre ha idee chiarissime collaudate con il socio Lorenzo Armando, anche lui imprenditore editoriale di lungo corso: saranno giornate verticali, tematiche, autonome, un’impronta b2b da capo a coda. Per lei è impossibile pensare ai libri senza valorizzarne il lavoro che va masticato da dietro tutti i giorni, lo sa bene perché lo mastica da anni. Nel 2005 fonda la casa editrice Verba Volant ed è solo uno dei buoni risultati che ogni tanto mette a segno e per cui la premiano.

“Sono veramente convinta che Torino sia il luogo in cui si sperimenta. Abbiamo la triste fama di essere quelli a cui vengono rubati i progetti o i primati ma se si ribalta la prospettiva è naturale che poi le cose vadano altrove o che magari vengano copiate, per me vuol dire che allora c’è valore. Anzi, nel nostro progetto confesso che questo aspetto è quasi programmato, lo abbiamo messo in conto. Ti racconto un aneddoto curioso. Sai che il Piemonte è una terra molto understatement e quindi chi vuole lanciare una moda la testa prima in Piemonte: se funziona qui, allora è fatta”.

È nata a Torino come le case editrici che hanno fatto la storia italiana da Utet a Einaudi  ma le sue radici intrecciano pure Sicilia e Sardegna. Mi racconta che qualche giorno fa un suo amico editore le ha detto “Tu ci riuscirai a portare avanti la tua idea perché sei della specie torinese figlia di immigrati”. Lo ha preso come un complimento perché è solo così che andava fatto.

Quanto pesa la cultura qui in Piemonte, quanto conta per le aziende, quanto vale nel mondo del lavoro?

Non so se sono l’interlocutore più attendibile a rispondere perché lavoro in mezzo alla cultura da sempre e lo faccio dalla mattina alla sera. Posso dirti qual è il suo potenziale: immenso. Non c’è altra via di uscita per le aziende e per chi ci lavora dentro. Qui tutto è sempre avvenuto e avviene ancora a macchia di leopardo. Io occupandomi molto anche di sviluppo associativo – e lo faccio da venticinque anni essendo associata a realtà anche molto diverse tra loro – posso dirti che la difficoltà grande è far capire a chi non investe in cultura che le aziende che lo fanno, e sono soprattutto le medio-piccole che lo fanno, non stanno affatto perdendo tempo.

Le resistenze ci sono ovunque, interessante è cercarne l’uscita. 

Oggi si parla tanto di resistenti e resilienti ma bisognerebbe iniziare a sposare la tesi di Taleb che parla di antifragili, coloro che prosperano nel caos e propongono un modello nuovo perché lavorano sull’immateriale e sul mutevole. Del resto cambiare è difficile per tutti ma secondo me s bene parla anche troppo e male del cambiamento, il resiliente alla fine cerca di tornare alla sua forma originaria. Il mood dell’antifragile invece fa la differenza, e come, dentro le aziende. A Torino si vive ancora di retaggio e si continua a fare ciò che ha sempre dato una resa e che ha sfamato. Il Salone del libro non è certo l’unico progetto culturale di settore che c’è da queste parti. Quello che amo dell’editoria è che è l’unico comparto editoriale e industriale allo stesso tempo: non siamo un museo, il nostro obiettivo non sono la conservazione, la valorizzazione, il turismo. L’editore è un imprenditore, produce un oggetto che porta un enorme valore immateriale.

The Publishing Fair quindi poteva nascere con te solo a Torino?

Lo voglio fare a Torino perché Torino è una città editoriale, perché qui sono nati i nomi grandi e seri. Qui alla Utet è nata la prima enciclopedia italiana, prima ancora della Treccani. Torino non è solo la vendita del libro ma è la filiera dell’editoria ad altissima professionalità. Sui libri pensati e prodotti a Torino si sono formate intese classi dirigenti e intellettuali di tutta Italia e di buona parte d’Europa per decenni. Pensa solo ai cataloghi di Bollati Boringhieri e alle alte professionalità specifiche. 

Alle associazioni di categoria risuona il tuo messaggio di rottura?

Publishing fair ha anche il loro supporto. Quando andai a presentare il progetto alla Unione Industriali, dissi loro che un libro sarà sempre più importante di un bullone. Costruiamo progresso da migliaia di anni attraverso il sapere, siamo animali culturali che da diecimila anni trasmettono il sapere tramite la cultura scritta.

Ma allora la chiamiamo fiera oppure no?

Di fatto non lo è. Abbiamo scelto l’inglese perché in inglese il concetto è molto più ampio del significato che avrebbe nell’immaginario medio da italiani. Infatti non ci sarà nessuno stand. Sarà un progetto diviso in 4 aree che sono quelle rappresentative se pensiamo che ad oggi in Italia non esiste un luogo in cui la filiera si incontra e parla. L’ho pensata per farli intanto incontrare tutti tra di loro e chiederci poi cosa serve.

Cosa serve all’editoria?

Innanzitutto formazione che vuoi dire formazione tecnica, dalle lingue straniere alle illustrazioni  fino alla formazione tech che nel mondo editoriale apre frontiere incredibili. Ospiteremo chi lavora su un algoritmo predittivo legato ai dati di vendita dopo le prime tre settimane di vita del libro oppure start up che applicano tecnologia avanzata in modo che i non vedenti possano leggere le formule chimiche. Poi ci sarà spazio per fare cultura del management essendo il nucleo di un comparto che non ha conoscenza degli strumenti di sostegno all’impresa ed è un paradosso per un settore come il nostro dove chi parte parte spesso con una grande passione ma senza competenze organizzative e manageriali. Infine avremo la parte di visione del settore, tra gli altri sarà con noi il direttore generale di Phaidon per orientarci sulle frontiere e dirci quali sono i macro trend della sua casa editrice.

Fammi un esempio delle professionalità sommerse nel settore.

Uno su tutti è l’editoria scolastica. Per fare un corso di lingue io stacco 53 contratti, tutti di professionisti.

Dire start-up nel vostro settore ha un significato?

Non sono affatto convinta che mettere tutte le uova nel paniere delle start up sia la strada giusta perché non solo in Italia ne sopravvive una ogni non so quante, solo lei raggiunge l’unicorno ma tute le altre si bruciano. Esistono invece decine e decine di imprese che portate avanti con il loro ritmo e con la competenza giusta portano a risultati concreti perché fare impresa a venti, trenta o quarant’anni non è la stessa cosa e i risultati sono diversissimi. Ci vuole esperienza, ci vuole pazienza.

Fare cultura dovrebbe poggiare su un profondo senso di responsabilità.

Io sento il dovere che tutti gli intellettuali dovrebbero avere, che è quello della restituzione di ciò che abbiamo ricevuto. Persone e libri incontrati nella mia vita mi hanno dato un pezzo di sé e non posso tradirli. Ho imparato a fare l’editor da una persona che lavorava alla Utet e che mi aveva scelta, poi tu ci metti del tuo ma nella vita incontri di continuo padri e madri che ti danno un pezzo. Quel pezzo non è mai tuo, è di tutti, devi restituirlo arricchito. Non si rimane a casa propria invitando amici per farsi dire quanto si è colti. Non siamo mai abbastanza bravi finché non raggiungiamo gli altri.

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