Tonnare sulcitane: l’oro rosso di Sardegna che fa bene all’occupazione

Se si guardano i dati relativi alla povertà e all’occupazione in Italia, la zona del Sulcis, in Sardegna, si posiziona da anni nei gradini più bassi delle classifiche. Solo per fare un esempio, secondo i dati Istat del 2019 la provincia del Sud Sardegna (comprensiva del Sulcis) ha registrato un tasso di disoccupazione del 16,1%, a […]

Se si guardano i dati relativi alla povertà e all’occupazione in Italia, la zona del Sulcis, in Sardegna, si posiziona da anni nei gradini più bassi delle classifiche. Solo per fare un esempio, secondo i dati Istat del 2019 la provincia del Sud Sardegna (comprensiva del Sulcis) ha registrato un tasso di disoccupazione del 16,1%, a fronte della media nazionale del 10%. Si tratta di una zona tristemente famosa alle cronache anche per le problematiche sia economiche che ambientali dovute alle vicende dell’ex Alcoa e del resto del Polo Industriale di Portovesme. In quest’area c’è però una ricchezza che potrebbe aiutare concretamente il territorio a tirare un sospiro di sollievo: quella del mare, del tonno rosso e delle tonnare sulcitane.

 

La pesca nelle tonnare sulcitane: tradizione, tutela dell’ambiente e indotto

Nello spazio compreso fra Portoscuso, Gonnesa e Carloforte, le tonnare fisse di Capo Altano, Porto Paglia, Isola Piana e Cala Vinagra, consorziate tra loro, portano avanti l’antica tradizione di origine araba della pesca dei tonni rossi, che dall’Atlantico passano lungo la rotta di mare sarda per raggiungere il Nord Africa. Una pesca fatta ancora a mano, ripetendo gesti ancestrali sotto l’esperta guida del rais, il capo ciurma che dirige tutte le operazioni necessarie alla cattura dei tonni.

La tradizione si è dovuta adattare nel tempo, soprattutto per quanto riguarda i numeri del pescato e dei soggetti attivi nel settore. Oggi infatti la pesca del tonno non è consentita; quella che viene fatta è una concessione, data attraverso delle quote a una serie ben precisa di soggetti.

A vigilare su questo aspetto c’è l’ICCAT, la Commissione Internazionale per la Conservazione del Tonno Atlantico, che dispone le quote di pesca che i singoli Paesi poi ripartiscono tra i soggetti autorizzati (tonnare fisse, sistemi di pesca con reti a circuizione, palangari e realtà di pesca sportiva e ricreativa). Le tonnare fisse attualmente autorizzate a pescare in Italia sono 5, le 4 tonnare sarde più quella siciliana di Favignana.

Abbiamo parlato del lavoro delle tonnare sulcitane e del loro potenziale di sviluppo con Pier Paolo Greco e Andrea Farris, rispettivamente portavoce del Comparto Tonnare Sardegna e responsabile pesca e produzione della tonnara di Porto Scuso.

 

 

Qual è lo stato di salute del sistema pesca del tonno rosso in Sardegna?

P.G.: Il tonno sardo è un prodotto di eccellenza mondiale, insieme a quello di Favignana. Il fatto che il marchio di Carloforte sia noto e diffuso in tutti i continenti è un segnale importante del fatto che siamo da sempre un simbolo di qualità superiore. Noi vendiamo un tonno con un’identità e una storia ben precise, pescato con un metodo tradizionale e sostenibile. Tuttavia le problematiche dovute a normative, burocrazia e quote pesca stanno rendendo veramente complesso per noi il fatto di continuare a portare avanti una tradizione che abbiamo difeso strenuamente nel tempo. La tonnara di Isola Piana ha la quota più grossa di pesca all’interno del consorzio del Sulcis: 190 tonnellate di tonno; rispetto alle attuali condizioni di mercato, è l’unica in grado di consentire il raggiungimento del break even. Quando la stagione della pesca si svolge normalmente, come tonnara di Carloforte abbiamo un fatturato di circa 2 milioni di euro, a cui tuttavia si devono sottrarre i costi di gestione, che sono sempre più alti.

A.F.: Portoscuso, 140 tonnellate di quota, quest’anno non ha raggiunto il break even a causa dei costi, che si sono alzati del 20% durante il COVID. Dal 2010, proprio per rientrare nei costi di gestione, abbiamo avviato una pratica di pesca diversa: la vendita in acqua di parte del nostro pescato agli allevamenti stranieri di Malta, che poi trasportavano i tonni spostando le gabbie in mare. Questo ci ha salvati, perché ci ha consentito di contenere i costi evitando quelli di produzione, movimentazione, stoccaggio, gestione degli scarti. Questa è una scelta che ci ha consentito di sopravvivere sino ad oggi, ma che ora necessita di un cambiamento radicale: l’avvio dell’allevamento dei tonni in Italia.

Di cosa si tratta e come pensate di procedere in tal senso?

P.G.: L’Unione europea quest’anno, a metà stagione, ha disposto il divieto all’Italia di cedere la sua quota di allevamento a Malta. Questo ovviamente ha creato non poche problematiche a noi operatori, coinvolgendo il 50% della nostra produzione. La scelta dell’UE punta a far sì che l’Italia si attivi per avviare un suo sistema integrato di filiera: pesca, allevamento, vendita diretta del prodotto all’estero, lavorazione del prodotto per le scatole, vendita alla ristorazione, ristoranti tematici; tutto questo attraverso l’unione dei diversi soggetti attivi nella pesca del tonno rosso. Era una cosa che volevamo fare già da tempo, ma la dimensione ridotta delle quote che abbiamo come tonnare fisse ce lo rende impossibile. L’UE ha fatto questa scelta in un momento critico, in cui già eravamo appesantiti dalle problematiche e dai costi dovuti alla diffusione del COVID. Noi siamo decisi ad avviare un sistema integrato di pesca del tonno, che consentirebbe di portare nel territorio il lavoro legato all’allevamento e il valore accrescitivo della gestione del pesce. Questo però necessita dell’intervento diretto dello Stato, non solo economico ma anche dirigistico: dovrebbe normare sia lo sviluppo degli allevamenti in Italia (al fine di favorire un loro sviluppo omogeneo e non sbilanciato), che lo sviluppo generale del sistema integrato, come gli aspetti legati alla vendita all’estero (in particolare in Giappone, un mercato molto complesso).

A.F.: Come tonnare fisse del Sulcis noi sosteniamo lo sviluppo di questo sistema integrato. Abbiamo messo a disposizione del comparto le nostre possibilità di allevamento, di preparazione scatole, i ristoranti tematici. Per parlare di numeri: per essere sostenibile un vivaio necessita di almeno 1.500 tonnellate di pesce, e per averle serve l’unione di tutto il sistema pesca del tonno della Sardegna. Per ottenere questo serve un sistema di accordi forti del ministero e dell’Europa.

Che impatto hanno le tonnare fisse oggi, e che impatto potrebbe avere in Sardegna la creazione di un sistema di pesca integrato?

A.F.: Attualmente gli occupati diretti delle tonnare sono circa un centinaio di persone, a cui si somma l’indotto. Cerchiamo di comprare quanto più possibile nel territorio, come materiali e carburanti. E poi le tonnare e la loro storia fanno parte della cultura locale, e creano e stimolano a loro volta turismo e attività di ristorazione. Il fascino della storia e della tradizione di questa pesca millenaria è strettamente legato ai nostri marchi.

P.G.: Un sistema integrato potrebbe aumentare radicalmente tutto questo, generando maggior valore economico per il territorio. Facendo riferimento alla Sardegna, un sistema integrato sarebbe in grado di produrre un volume d’affari di minimo 40/50 milioni di euro, 20 volte tanto il valore che oggi siamo in grado di lasciare nel territorio. La possibilità di avviare degli allevamenti aumenterebbe di molto il personale impiegato nelle tonnare: biologi, sommozzatori, personale delle barche di cura. E poi ci sarebbe un aumento considerevole dell’indotto (commercio, turismo, ristorazione). In questo modo, inoltre, si risolverebbe anche il problema dell’assenza del tonno italiano nel mercato ittico del nostro Paese. Un sistema integrato, comprensivo anche dell’allevamento in mare, consentirebbe di avere il prodotto a disposizione anche in un periodo in cui il tonno generalmente non c’è più perché le quote sono esaurite. Questo garantirebbe anche un prezzo costante di questo bene, e non una sua svalutazione dovuta a un periodo di pesca troppo ridotto perché le quote si esauriscono subito.

Un sistema integrato che deve tutelare l’ambiente, quindi.

A.F.: La pesca del tonno viene fatta in maniera completamente tradizionale: solo alcuni materiali che usiamo sono più sofisticati, ma le metodologie restano quelle di un tempo. È un lavoro di precisione, fatto ancora a mano, che si lega necessariamente all’ambiente e all’ecosistema in cui viene svolto. La pesca del tonno non può convivere con l’inquinamento.

P.G.: Negli anni Settanta la pesca è stata bloccata a causa dell’inquinamento provocato dagli scarichi delle aziende di Portovesme, che inquinavano il mare e facevano ammalare i tonni. Noi oggi continuiamo a seguire con attenzione tutti gli sviluppi relativi al futuro industriale di questa zona, e cerchiamo di far sentire la nostra voce affinché le normative e le direttive in materia di inquinamento vengano rispettate. In questo senso il nostro ruolo è un po’ quello di organi di controllo, che vigilano sulle attività che potrebbero impattare sull’esistenza degli ecosistemi marini locali. Senza una tutela rigida dell’ambiente il nostro settore, così come quello del turismo, scomparirebbe: due realtà che invece possono dare molto all’occupazione del territorio, e che andrebbero sostenute.

 

 

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