Un posto ai telai chi te lo leva?

Tanto problemi ‘un ce n’è: se non tu sarai bono a studiare, un posto ai telai ‘un te lo leva nessuno. Devo essere sincero, non so se una frase del genere l’avrà detta mio babbo di fronte a un compito di matematica sbagliato, mio nonno, o qualche parente di miei amichetti d’infanzia, ma era abbastanza […]

Tanto problemi ‘un ce n’è: se non tu sarai bono a studiare, un posto ai telai ‘un te lo leva nessuno.

Devo essere sincero, non so se una frase del genere l’avrà detta mio babbo di fronte a un compito di matematica sbagliato, mio nonno, o qualche parente di miei amichetti d’infanzia, ma era abbastanza normale sentirla per un bambino che faceva le elementari a Prato a inizio degli anni Ottanta. Di lavoro ce n’era così tanto che i telai non solo si trovavano nei magazzini sotto le abitazioni, ma addirittura in qualche stanza di casa.

Per quelli delle generazioni immediatamente precedenti alla mia era normale dividere i figlioli in due tipologie: quelli che avrebbero avuto ruoli commerciali/dirigenziali in qualche industria tessile e quelli che ne avrebbero costituito la forza lavoro. In pratica, se eri bravo, ti aspettava un posto praticamente fisso con un buonissimo stipendio; altrimenti ti saresti fatto lo stesso compenso di un dirigente a forza di ore di straordinario in fabbrica, ovviamente tutte pagate. Due facce della stessa medaglia, se ci si pensa: il lavoro c’era, o per meglio dire “si aveva”. Nessuno avrebbe mai pensato che forse non sarebbe stato più così certo a partire dagli anni Novanta, e poi sempre meno con il nuovo millennio: ditelo al mio caro babbo, che aveva già costruito per me una casa vicino alla sua, convinto, nell’anno del Signore 1974 (due prima della mia nascita), che tanto avrei fatto qualcosa di buono nel distretto, visto che a scuola me la cavavo.

Invece è bastato che venisse giù un piccolo ma piuttosto importante muro in una fredda città della Germania per sgretolare di colpo tutte le certezze della generazione di baby boomers, e perché no, anche di quella dei loro babbi. Una città che aveva elevato il contoterzismo a modello industriale da studiare sui libri di economia, e che aveva costituito una rete sociale sulla produzione di articoli a basso prezzo, si era trovata improvvisamente stritolata dalla concorrenza di chi quel prezzo lo faceva ancora più basso. E oltretutto lo faceva nello stesso territorio: dalla prima ondata di cinesi arrivati a Prato i primi a subirne le conseguenze furono i tessitori, quelli che oggi chiameremmo “liberi professionisti con partita IVA”, che lavoravano per le varie aziende nei magazzini sotto le loro case. Questo perché si trovarono in città una concorrenza di persone che lavorava (e in molti casi lavora tuttora) con regole ancora meno stringenti di quelle che avevano i tessitori di una volta. Avevano imparato un lavoro forse semplice, lo facevano più velocemente degli italiani e costavano meno: in un attimo gli imprenditori pratesi avevano iniziato a dare in mano la produzione proprio a loro.

 

Prato, i cinesi e le lacrime

Mi ricordo che quando ero alle superiori un mio compagno figlio di un tessitore aveva iniziato a piangere in classe, perché il babbo aveva perso il lavoro. O meglio, “il babbo non ne ha più”: così diceva, quasi si trattasse di un furto. Situazioni del genere si moltiplicavano e potevi sentirle ovunque: in paese, in famiglia, nei racconti a cena di mio babbo, che da direttore di un lanificio aveva iniziato a chiamare le persone in ufficio per licenziarle, perché “anche noi non abbiamo più tanto lavoro”.

Infatti presto a piangere avrebbero iniziato anche i figli degli imprenditori, quelli che chiudevano le ditte perché adesso i committenti esteri avevano imparato che bastava andare a produrre direttamente in Cina per avere un prezzo ancora più competitivo. Quel muro aveva crepato non solo il tessuto economico e produttivo di un distretto cittadino, ma aveva scoperchiato il vaso di Pandora di tutte le debolezze di un modello industriale basato non tanto sulla tecnologia, la ricerca, l’inventiva e l’unicità dei prodotti, quanto sulla capacità di lavorare molto per produrli a basso prezzo.

Prato era già la città più cinese d’Europa prima di venire attaccata dalla Cina, e si era fatta battere sul campo da chi si era messo in competizione sulle stesse caratteristiche. Questo portava improvvisamente tristezza, scoramento, persino rabbia verso di “loro”: lo racconta mirabilmente Edoardo Nesi, nel romanzo premio Strega Storia della mia gente. Ricordo in particolare un capitolo in cui viene immaginato uno scenario postapocalittico di provincia: un’orda di pratesi inferociti e impoveriti che massacra di botte un ragazzo cinese per futili motivi, come capro espiatorio per la loro rovina. Un triste presagio per il futuro, nel 2010.

Dalla certezza degli anni Ottanta di un lavoro che non sarebbe mai finito, in poco più di un ventennio si era passati alla sicurezza che fosse davvero tutto finito, che per Prato non ci sarebbe stato nulla da fare. Io in quel periodo vivevo gli ultimi anni da universitario a Bologna e muovevo poi i primi passi in aziende del settore informatico: quando a mio babbo raccontavo quello che facevo si diceva felice di avermi sostenuto negli studi, e con un po’ di fatalismo concludeva: “Tanto a Prato non ci sarebbe stato futuro. Qui fai bene a venire solo il fine settimana”.

Poi è capitato che l’azienda che mi ha assunto a Bologna nel 2004 avesse qualche buon cliente nel pronto moda. Grossisti di abbigliamento, cenciaioli anche loro rispetto alle griffe, però con tanta grinta e numeri in crescita, tant’è che nel giro di qualche anno si sarebbero distinti a livello nazionale e non solo. È capitato che toccasse a me seguire questi clienti come capo progetto, e che con taglie e colori mi trovassi particolarmente a mio agio. Appena dicevo che venivo da Prato i sorrisini e le battute sui cinesi non mancavano mai. Quando facevo notare, con un po’ di sana cattiveria toscana, che tutto quello che avevano addosso al 90% era stato fatto a Prato, alcuni desistevano dalle battute e altri mi guardavano straniti. Un po’ di orgoglio andava tirato fuori: per i discorsi tristi c’era sempre il mio ritorno in città nel weekend.

La mia attività è passata da dipendente a imprenditore nel giro di qualche anno. Nel frattempo ho sviluppato un verticale per il fashion perché a Bologna ho trovato un distretto come il Centergross, particolarmente ricettivo sul tema. Grazie al passaparola e a qualche investimento commerciale ho aumentato il giro dei clienti e ho scoperto che alcuni di loro avevano già una sede a Prato, quando non addirittura il quartier generale.

 

La rinascita di Prato, oltre i telai

Già. Ma Prato non era morta e sepolta?

Potrei citare uno o due casi di clienti che già qualche anno fa si vantavano di riuscire a sopravvivere in mezzo a tutte le confezioni cinesi. Casi isolatissimi, pensavo allora. Eppure nelle chiacchierate che facevo con loro ci interrogavamo spesso su quanto fosse difficile per gli stranieri, orientali e non solo, replicare il gusto italiano nell’abbigliamento. Va bene se si parla di copiare in serie e riprodurre, ma studiare le tendenze e creare moda dovrebbe essere un’altra cosa: in questo dovremmo essere maestri, fin dai tempi dei Medici a Firenze. Nel frattempo, si cominciava a leggere di qualche azienda di proprietà cinese che assumeva stilisti italiani: una in particolare, che poi grazie a Dio sarebbe diventata mia cliente. Casi rari, pensavo.

Piano piano però i cinesi sono usciti dalla chinatown, e diversi di loro hanno capito, pur con tutte le difficoltà di una cultura imprenditoriale per certi versi in stato embrionale, che poteva essere importante fare assumere agli italiani ruoli importanti nelle loro aziende a livello strategico, commerciale e tecnico. Se si vuole iniziare a competere a livello mondiale non si può fare a meno di chi quel lavoro lo ha insegnato al mondo. Oggi i dati si riescono facilmente a trovare su internet: ancora nel 2016/17 si parlava già di 1500 lavoratori pratesi assunti da aziende cinesi. Casi non troppo rari, iniziavo a pensare.

Oggi si sentono certamente lamentele e problemi (siamo in Italia), ma forse si parte finalmente dalla consapevolezza che il mondo lavoro non è più quello di prima. Infatti non è raro sentire, nella propria cerchia di amici o conoscenti della zona di Prato, casi di persone che lavorano per aziende di proprietà cinese: dall’impiegata amministrativa della porta accanto, fino alla bravissima responsabile commerciale che importa tessuti e li rivende alle varie griffe per le collezioni degli anni futuri. Casi ormai normali, oggi.

 

Prato e la Cina, oggi

Prato era una certezza quando ero bambino. Poi era morta quando ero ragazzo. Oggi, da lavoratore e padre di famiglia, la trovo una città con molti problemi ma certamente viva da un punto di vista lavorativo. Se vogliamo, lo dimostra anche l’inchiesta sulla qualità della vita de Il Sole 24 Ore del 2018, che la vedono stazionare a metà classifica nell’indicatore generale, ma in posizioni alte per quanto riguarda affari e lavoro (22°), imprese registrate (2°), tasso di occupazione (27°) e tasso di occupazione giovanile (11°).

Ci sono tanti casi di aziende, cinesi e non, che dopo aver sempre fornito tessuti e prodotto contoterzi (una costante, negli anni, questo modello produttivo) provano con un po’ di sana incoscienza a lanciare marchi propri. In alcuni casi questo avviene addirittura anche online, come è successo da poco con un mio cliente produttore di cashmere, che ha deciso di mettere tutta la sua conoscenza del prodotto in un nuovo marchio commercializzato esclusivamente tramite e-commerce e strumenti di web marketing. Una scelta che fa ben sperare anche per migliorare il poco lusinghiero centoduesimo posto della città nella registrazione di startup innovative, sempre secondo la classifica de Il Sole 24 Ore.

Certo, la situazione imprenditoriale non è tutta rose e fiori, ma non sento più tanto dire che a Prato sopravvive solo chi fa prodotti di qualità, per distinguersi dal resto dei cenciaioli. Soprattutto c’è la consapevolezza diffusa nella maggior parte della gente che ormai il cinese non è più solo un nemico, ma un mondo con cui doversi rapportare: questo perché molti pratesi negli anni hanno iniziato a viaggiare e a vedere veramente che cos’è la Cina, valutandone la potenza tecnologica e industriale, nel tessile e non solo.

 

Quale futuro per Prato?

Ripenso a quella scena postapocalittica descritta nel libro di Nesi una decina d’anni fa e a quanti pratesi, oggi, si rivarrebbero contro un cinese come unico responsabile di avergli rubato lavoro e certezze.

Forse si tratta solo di rivedere un attimo le prospettive: se mio babbo avesse vissuto la generazione di oggi, sicuramente non avrebbe pensato a costruire una casa a metà anni Settanta che sarebbe servita per suo figlio forse trent’anni dopo: semplicemente avrebbe navigato a vista, un termine che usa sempre un mio cliente che ha una bella azienda di abbigliamento a Prato. Nelle scuole di management si balzerebbe sulla sedia: come può un imprenditore o un manager navigare a vista, oggi? Data la storia della città negli ultimi trent’anni è una provocazione che ci sta tutta: con un mondo del lavoro più incerto si rischiano meno sbalzi d’umore che poi possono condizionare le decisioni aziendali, e si prende ogni piccolo passo in avanti come una grande conquista. Se si pensa che il lavoro si può anchenon avere”, è più facile mettere in campo tutta la propria lungimiranza per inventarlo ogni giorno a seconda dei mutamenti del mercato, senza partire dal preconcetto che il concorrente di oggi sia per forza un nemico per tutta la vita.

Questo mi piace pensare possa essere il futuro di Prato: non certo più isola felice, ma forse araba fenice, “questa nostra città piena di vento”, come l’ha definita Edoardo Nesi.

 

photo by https://www.lanazione.it/

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