Violenza di genere, violenza economica

L’occupazione deve essere il primario strumento di prevenzione nelle politiche antiviolenza. Il fattore economico non è un elemento marginale, bensì centrale nel percorso di una donna che tenta di uscire da un contesto violento, e inserirsi – oppure reinserirsi – nella società e nel mercato del lavoro. A spiegarlo è Rosy Paparella, consulente della Rete […]

L’occupazione deve essere il primario strumento di prevenzione nelle politiche antiviolenza. Il fattore economico non è un elemento marginale, bensì centrale nel percorso di una donna che tenta di uscire da un contesto violento, e inserirsi – oppure reinserirsi – nella società e nel mercato del lavoro. A spiegarlo è Rosy Paparella, consulente della Rete dei Centri Antiviolenza Sud Est Donne e già garante dei diritti dei minori per la Regione Puglia: «Una donna impiega in media otto anni per riconoscere che quella che sta vivendo è una situazione di violenza domestica. E nelle sue valutazioni, la questione prioritaria è “come sopravvivo se vado via di casa?”».

 

Violenze intrecciate

In base al monitoraggio compiuto dall’Osservatorio della Regione Puglia, dal 2015 al 2018 sono state 6300 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza (Cav) pugliesi, con un aumento di più di 200 donne nel 2018 (1750 contro le 1560 del 2017). Solo il 28% ha un’occupazione stabile, mentre il 44% del totale non lavora e il 19% ha un lavoro precario. Purtroppo, come rileva Rosy Paparella, questi dati fotografano una realtà solo parziale – il fenomeno è sottostimato e in larga parte sommerso -, eppure sono indicativi come campione da cui trarre una sorta di “carotaggio”.

«Tra le ragioni per cui le donne faticano a chiudere il rapporto c’è la totale dipendenza economica. Non accedere al mercato del lavoro e avere figli minori a carico sono elementi vincolanti e limitanti la loro capacità di uscita da una relazione distruttiva. Sono questi stessi elementi a costringere moltissime donne a rientrare nel rapporto anche dopo l’intervento del centro antiviolenza, un primo accesso al pronto soccorso o confronto con le forze dell’ordine. La motivazione che riferiscono è la paura di non avere risorse sufficienti per sé e per i propri figli».

Un altro aspetto significativo che emerge dal monitoraggio è la trasversalità della violenza alle fasce di età – la percentuale più alta di accessi ai Cav si registra tra donne di età compresa tra i 30 e i 49 anni (60%) – ai titoli di studio, oltre che alla condizione lavorativa, laddove presente. «Non bisogna credere che le laureate siano escluse da questo fenomeno, anzi spesso ci raccontano di non aver mai fatto ricerca attiva di un’occupazione». Le donne più esposte alla violenza sono quelle sposate (38%), seguite dalle nubili (28%) e separate-divorziate (26%). Le dinamiche di dipendenza economica, sottolinea Rosy Paparella, si presentano anche in quelle coppie in fase di separazione caratterizzate da un alto tasso di conflittualità: situazioni non ancora sfociate in violenza, ma potenzialmente di grande rischio.

Inoltre, sono più di 100 le donne, quasi sempre seguite dei figli minori, allontanate nel corso dei tre anni (2015-2018) dalle loro abitazioni a causa della violenza domestica e inserite nelle case rifugio a indirizzo segreto. «Ciò porta a un loro sradicamento dai territori di provenienza, che si traduce nella perdita del lavoro – qualora ci fosse – e nella rete di relazioni che favorisce il reinserimento. È un tema che andrebbe affrontato anche a livello nazionale dal legislatore».

 

Il welfare ecologico pugliese

Escludendo le forme di potere esercitate da un matriarcato mafioso occulto (nel Gargano o in Basso Salento), resiste in Puglia, soprattutto al di fuori dei grandi centri urbani, un retaggio culturale patriarcale che rallenta il percorso di emancipazione della popolazione femminile. La regione però in questi anni ha compiuto enormi passi in avanti ed è oggi all’avanguardia in Italia, con un modello che integra politiche di pari opportunità, inclusione sociale e reinserimento lavorativo.

Tutto questo a partire dalla Legge regionale n. 29 del 2014, “Norme per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il sostegno alle vittime, la promozione della libertà e dell’autodeterminazione delle donne”, che «ha aperto la strada a una visione integrata del problema e a un approccio multidisciplinare non centrando l’attenzione esclusivamente sull’Assessorato al Welfare, ma istituendo un tavolo interassessoriale per distribuire e coordinare le responsabilità delle politiche antiviolenza sui dipartimenti del lavoro, della salute, della formazione».

Il Piano integrato degli interventi 2019-2020 per la prevenzione alla violenza di genere stanziato dalla Regione vale quasi 11 milioni di euro. La Puglia è l’unica in Italia a garantire alle vittime di violenza l’accesso al Red, il Reddito di Dignità (misura a contrasto della povertà). «È una misura economica tempestiva – commenta Rosy Paparella – per risolvere contingenze immediate, come fare la spesa e ricaricare il cellulare, che le donne temono di non riuscire a fare». Il governo regionale ha inoltre investito oltre 3 milioni di euro in percorsi di formazione professionale e inclusione sociolavorativa, mettendo in campo programmi specifici per rafforzare il potenziale occupazionale femminile, anche attraverso incentivi agli imprenditori per l’attivazione di tirocini e borse lavoro. Anche i comuni, tramite un sistema di benefit, sono chiamati a partecipare attivamente a questo programma di reinserimento.

 

Prossimo step: l’educazione finanziaria contro la violenza di genere

I centri antiviolenza, attualmente 27 in Puglia, rappresentano il braccio operativo sui territori degli interventi a sostegno delle donne. Spiega Paparella: «I Cav garantiscono aiuto con personale qualificato su tre fonti: prevenzione e sensibilizzazione; protezione e infine sostegno alla fuoriuscita, che ha come elemento centrale l’accompagnamento all’autonomia, e non può quindi prescindere dalla condizione lavorativa».

Se le esperienze di cohousing stanno presentando diverse criticità per le donne che vivono questa esperienza, stanno invece funzionando le opportunità di aggregazione sul fronte del lavoro e, prima ancora, della formazione. «Abbiamo attivato dei laboratori di artigianato e di sartoria. Un gruppo di Martina Franca, che si è chiamato Dea, muove i suoi primi passi producendo tisane, candele e oggetti decorativi. Mettere a disposizione occasioni di formazione e occupazione sta dando dei risultati, ma non è semplice. Abbiamo visto come sia più difficile per le donne che hanno un titolo di studio elevato: il loro processo di ripristino delle capacità di autostima è ancora più doloroso e difficoltoso».

Il centro antiviolenza di Bari ha sperimentato, in collaborazione con Banca Etica e la rete nazionale Safe, un breve corso di formazione all’educazione finanziaria. «Riteniamo possa essere uno strumento potente di empowerment economico che potrebbe integrare gli interventi standard di supporto psicologico e legale. Ci sono donne che non sanno come aprire un conto corrente – non ne hanno mai visto uno -, non sanno come comportarsi in banca o attivare procedure quotidiane di gestione del bilancio familiare. Sono conoscenze che le donne non hanno nelle loro valigie quando lasciano casa, e questo va cambiato», conclude Rosy Paparella.

Emergere da una condizione discriminatoria all’interno di una relazione violenta comporta quasi sempre affrontare e superare la non autosufficienza economica. Le politiche antiviolenza devono perciò tenere conto di questa complessità e considerare sempre più il profilo economico e lavorativo nei propri programmi di azione. Serve perciò un impegno a tutti i livelli della società, a partire dalle istituzioni. Le strategie della Regione Puglia possono senz’altro costituire un riferimento in ambito nazionale. L’Inps ha annunciato lo scorso novembre l’accordo con l’Associazione di volontarie Telefono Rosa per offrire consulenza alle donne vittime di violenza di genere in alcuni info point. Piccoli, ma importanti, segnali.

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