Vittime del mobbing e poi dell’omertà

Le vittime di mobbing tendono a non denunciare i soprusi che subiscono: “Sono più i disagi che i vantaggi effettivi”. L’indifferenza di molti colleghi, poi, non aiuta. Ma è davvero così?

In una società sempre più omologata, che ci vuole tutti conformi a regole e dettami aziendali da seguire in maniera pedissequa, dimenticandosi troppo spesso di avere a che fare anche con persone pensanti e non solo con risorse aziendali da utilizzare come soldatini agli ordini di un capo non sempre illuminato, una nuova cultura del lavoro si rende sempre più necessaria. 

La pandemia avrebbe potuto offrire una nuova visione della società, anche e soprattutto partendo dal mondo del lavoro. In questo 2020, invece, siamo ancora costretti a registrare innumerevoli casi limite sui luoghi di lavoro, dove a volte chi esercita il potere rischia di arrecare, consapevolmente o inconsapevolmente, danni psichici e morali ai propri sottoposti. Sottoposti spesso più preoccupati di salvaguardare la loro occupazione (o di trovarne presto un’altra) che di tutelare la loro dignità, spesso schiacciata da persone prive di scrupoli e di un’etica del lavoro. Solo che queste persone spesso la fanno franca, non dovendo rispondere delle proprie azioni perché dall’altra parte chi subisce preferisce fuggire piuttosto che denunciare.

“La mia manager mi chiamava a tutte le ore e viveva di simpatie personali”

Anna ha 30 anni e ha vissuto l’incubo del mobbing per poco meno di un anno, a contatto con la sua manager, che le aveva chiesto di seguirla nell’azienda in cui lavorava per farla crescere professionalmente e in breve tempo: dal sogno all’incubo quotidiano è stato un attimo.

Quando ce lo racconta ci confessa che ancora sente i brividi lungo la schiena e che le si gela il sangue, ricordando quello che ha passato in quel breve ma purtroppo intenso periodo lavorativo.

“Partiamo dal presupposto che questa manager mi aveva voluto a tutti i costi, chiedendomi di lasciare l’azienda in cui lavoravo, e dove mi trovavo anche bene, per seguirla – a suo dire – in un’avventura professionale che mi avrebbe fatto crescere senza che potessi pormi limiti di alcun genere. Più volte ha cercato di legare con me non solo dal punto di vista professionale, provando a instaurare anche un rapporto di amicizia al di fuori dell’ambito lavorativo. Mi chiedeva di continuo di vederci dopo l’orario di lavoro. Se fosse stata una collega avrei rifiutato tranquillamente, ma implicitamente, quando a chiedertelo è il tuo capo, ti fai qualche scrupolo in più prima di opporre un netto rifiuto, come avrebbe meritato. E ho detto sì. Da quella prima volta, è partito un vero e proprio incubo.”

“Pensavo che potesse inficiare sul mio periodo di prova, e il suo carattere umorale, che non conoscevo, mi faceva presagire che avrebbe potuto usare contro di me a livello lavorativo qualsiasi cosa che non le fosse piaciuta. Lei era a conoscenza di questa forma di potere subdola che riusciva a esercitare nei miei confronti, e la applicava nei tempi e nei modi che riteneva più opportuni per la sua personale convenienza.”

“Quella sera era da sola? Mi chiedeva di uscire insieme, mi raccontava i suoi fatti privati che non avrei mai voluto sapere e cercava di farmi diventare nemica di qualche collega che lei riteneva da licenziare il prima possibile. Per fortuna la legge italiana glielo impediva. Fossimo stati in America, dove è possibile licenziare su due piedi, lì dentro ci sarebbe stata una strage perpetrata solo in base alle sue simpatie personali, che nulla avevano a che vedere con le competenze professionali di ognuna di loro.”

“Sembrava di essere tornata al liceo, dove gruppi e gruppetti si dividevano per dichiararsi guerre intestine solo sulla base di antipatie personali, facendo spesso leva su pettegolezzi e storie inventate di sana pianta solo per mettere in cattiva luce una persona. Ma qui mi trovavo in un luogo di lavoro dove l’età media era di più di 35 anni, e questa situazione non mi faceva dormire la notte; non era trascorso che un mese dall’inizio dei miei tre di prova all’interno del negozio. Messaggi, chiamate, sempre per parlare d’altro e mai di lavoro. E mai durante l’orario di lavoro.”

Sono stata debole: volevo essere confermata in quell’azienda, volevo mantenere quel lavoro, ma non ce l’ho fatta. Le ho chiesto diverse volte di andare via per crescere professionalmente, per allontanarmi da lei, e nel frattempo mi ero comunque resa disponibile a tutte le sue richieste di cambi turno, anche repentini. Cominciavo a stare male e lei cominciava a farmi pesare quando ero in malattia, passando da sua protetta a sua vittima. Al mio ritorno dalla malattia, causata dallo stress, durante i turni di lavoro mi ignorava completamente come se fossi trasparente. Ho cercato un altro lavoro perché la situazione era diventata insostenibile. Così ho deciso di andare via, non avrei potuto resistere oltre.”

Ma l’idea di denunciare? “No, troppe trafile burocratiche, legali, di ricerca di testimoni, di prove da mantenere sul telefono, lo stress dei tribunali, chiedere supporto ai colleghi sempre meno solidali e sempre più legati al mors tua vita mea. Solo all’idea di tutto questo mi pareva che ci fossero troppi ostacoli, e cosa ben peggiore, li reputavo insormontabili. E poi chi ti assume più se porti in tribunale la tua azienda? Hai il marchio della piantagrane a vita, le altre imprese lo sanno e non ti assumono”.

“Mi sono arresa ancor prima di iniziare a combattere, ho dato le dimissioni e me ne sono andata senza lasciare traccia di tutto quel che ho vissuto, ma sentendo anche alcune colleghe, altre hanno fatto lo stesso: hanno preferito lasciare il posto di lavoro piuttosto che portare avanti un’azione legale nei confronti della manager. Da quando me ne sono andata, la notte dormo e sono più serena: per me la più grande vittoria è stata quella di tutelare la mia salute psicofisica.”

Denunciare? “Meglio cambiare lavoro”. Se l’omertà fa più danni del mobbing

Il problema reale è che la maggior parte dei casi di mobbing non produce dati, numeri e/o statistiche, e passa sotto silenzio tra le paure e le reticenze causate da una totale mancanza di leggi ad hoc.

Discriminato, trattato come una pezza da piedi, battute su di me fatte tranquillamente, e la cosa peggiore è che certe frasi venivano proferite dai miei colleghi senza che il manager prendesse posizione in mia difesa. Pensavo che un manager dovesse dare l’esempio in termini di etica e comportamenti professionali, e mai vessatori, nei confronti dei propri collaboratori. Ero arrivato a tremare non appena facevano il mio nome, non dormivo la notte, e ogni volta il tragitto quotidiano per recarmi in ufficio era una tortura che mi ha logorato giorno dopo giorno. Fino a quando mia moglie, compresa la mia situazione e consapevole che fossi sull’orlo di un esaurimento, mi ha suggerito di lasciare il lavoro. Ma non lascio proprio nulla fino a quando non ne trovo un altro. Mi sento ogni giorno di più un uomo morto che cammina.”

Massimo ha 35 anni e quello che ha vissuto sulla sua pelle ancora non riesce a dimenticarlo. Eppure, pur di non dover continuare a subire questo tipo di angherie, sta cercando assiduamente un nuovo posto di lavoro pur di non dover fare causa per mobbing: “La cosa peggiore è che avrei avuto tutte le ragioni per intraprendere le vie legali, ma la prima a fermarmi è stata mia moglie: ‘Lascia perdere che poi rischi che non ti assuma più nessuno, perché potresti passare come un piantagrane agli occhi delle altre aziende in cui cercherai di andare, se lì non riesci proprio più a stare’”.

Eppure, secondo una sentenza dello scorso 4 dicembre, la n. 27913 della Corte di Cassazione – sezione lavoro – si evince: 

“Occorre sottolineare, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 10145/2017; 22710/2015; 18626/2013; 17092/2012; 13956/2012), che la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c. (…) Nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite (…), tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c..”

Alla luce di ciò, penso ancor di più a quanto sia incredibile dover registrare la paura diffusa che attanaglia persone come Anna e Massimo, che preferiscono non far valere i propri diritti con un silenzio complice pur di non combattere le vessazioni di un capo che – oltre a non conoscere le regole minime della buona educazione – ignora anche quello in cui potrebbe incorrere se continuasse a comportarsi in quel modo anche con altri lavoratori. E se non dovesse rischiare direttamente il manager, quantomeno l’azienda dovrebbe poi difendersi dalle accuse davanti a un tribunale, ma troppo spesso questo non accade.

L’impunità avalla un modello tossico, che sembra vincente perché il più delle volte non viene denunciato dalle stesse vittime di mobbing. Un numero indefinito di casi che, nonostante la gravità degli avvenimenti, rischia di passare quasi sotto silenzio. Un silenzio dove vince l’omertà non solo delle vittime, ma anche dei colleghi, che preferiscono rimanere neutrali davanti a ingiustizie evidenti e inaccettabili da parte dei manager; questo quando non sono protagonisti e primi responsabili delle angherie.

Ma se non esistono precedenti, chi dovesse subire in futuro le stesse sorti di Anna e Massimo vedrebbe giocoforza aumentare i casi di mobbing e delle sue vittime silenziose, mentre capi e colleghi non consapevoli (ma davvero?) del danno che arrecano alla vittima rischiano di aumentare continuamente. La strada che conduce verso una nuova cultura del lavoro risulterà sempre più difficile da raggiungere, se la consapevolezza di ognuno di noi sul luogo di lavoro non uscirà fuori dal cono d’ombra del silenzio.

Photo by Maria Krisanova on Unsplash

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