Legge anti-mobbing: la politica cerca di recuperare

L’Italia è uno dei pochi Paesi ancora privi di una legge anti-mobbing. Quali sono le conseguenze del fenomeno e a che punto è il dibattito parlamentare?

Serve un argine per fermare il mobbing, cioè le vessazioni subite da tantissime persone nei luoghi di lavoro? Serve, eccome. E forse, dopo anni di attesa, ci sarà.

“Solleciteremo l’unificazione delle proposte di legge anti-mobbing in discussione nella Commissione Lavoro della Camera. Non solo: chiederemo le audizioni di esperti, associazioni e parti sociali, sindacati e imprenditori, È indispensabile che finalmente una legge arrivi al traguardo”. Lo assicura, in esclusiva a SenzaFiltro, la deputata del Partito Democratico Carla Cantone. E aggiunge: “È una questione di diritti e di equità. Questo fenomeno odioso va affrontato una volta per tutte. Perché chi mortifica la dignità di un singolo lavoratore, lede la dignità di tutti i lavoratori”.

Finora molte proposte e nessun risultato

Carla Cantone – sindacalista prestata alla politica, ex segretaria generale della FILLEA-CGIL (lavoratori edili e affini), poi della SPI-CGIL (pensionati) – con la collega Debora Serracchiani (vicepresidente del PD) è la promotrice di uno dei tre progetti ora in esame; gli altri due sono di Roberto Rossini (n. 1722) e di Rina De Lorenzo (n. 1741), entrambi M5s. Tutti vogliono introdurre il reato di mobbing nel Codice penale.

La proposta Serracchiani-Cantone, la n. 2311, si intitola Disposizioni per la prevenzione e il contrasto della violenza morale e della persecuzione psicologica nei luoghi e nei rapporti di lavoro (mobbing); ripropone quella presentata nel 2013 anche dall’allora deputato Antonio Boccuzzi (unico superstite, nel 2007, della tragedia alla Thyssen di Torino, quando sette operai morirono per un’esplosione dovuta alla consapevole incuria dei dirigenti aziendali, poi condannati).

In passato, a partire dal 1996, le proposte sono state altre tre, però nessuna ha destato sufficiente interesse politico per arrivare al traguardo.

Mobbing, una volta su due l’aguzzino è il diretto superiore

Il termine mobbing (dall’inglese to mob, “aggredire”) identifica una lunga serie di vessazioni, soprattutto psicologiche, contro una singola persona, esercitate con sistematici comportamenti aggressivi e persecutori da uno o più colleghi, spesso superiori di grado o datori di lavoro (in questo caso si parla di bossing, da to boss, “comportarsi da capo”), con l’intento di portare la vittima allo stremo e indurla alle dimissioni.

Quando le vessazioni sono un po’ meno sistematiche si parla di straining (da to strain, “costringere”). Una volta su due l’aguzzino è il capo diretto, spesso con la complicità di alcuni colleghi che sperano di ottenere vantaggi personali. Tuttavia nel Codice penale manca un riferimento a questo fenomeno (è assente persino in quello civile); così le vittime sono pressoché indifese, e quasi sempre le loro vertenze giudiziarie finiscono in un nulla di fatto. In seguito perdono spesso il posto di lavoro, per dimissioni o licenziamento.

I termini tecnici però non rendono l’idea di ciò che subisce chi finisce sotto tiro. Per comprendere quello che c’è in gioco andiamo nel cuore di Milano, in via Pace. Nel Policlinico c’è la Clinica del lavoro “Luigi Devoto”, alle spalle del Palazzo di giustizia. Quasi cinquecento uomini e donne all’anno, provenienti da tutta Italia, salgono le scale che portano al primo piano. Dove vanno? Bussano alla porta del “Centro stress e disadattamento lavorativo”: esiste dal 1996, è diretto dal dottor Luciano Riboldi ed è quello che accoglie più pazienti in Italia. Fino a qualche anno fa arrivava a ottocento visite, poi la minore disponibilità di personale ha costretto a una riduzione.

Quando lo stress sul lavoro compromette la salute

Di solito le vittime ci vanno su suggerimento dei loro avvocati. Prima hanno dovuto ottenere una richiesta di intervento sottoscritta dai medici di famiglia o da medici del lavoro, psichiatri, psicologi; poi hanno atteso fino a cinque o sei mesi per l’incontro, dopo aver prenotato per mezzo del Servizio sanitario nazionale. Insomma, quando arrivano lì il loro equilibrio psicofisico è compromesso dopo aver subito per moltissimo tempo ingiustizie costanti, con gravi ripercussioni sulla vita lavorativa e su quella famigliare.

Qualche altro centinaio di lavoratori maltrattati riesce a farsi visitare in uno degli altri rari centri pubblici (soprattutto a Monza, Pavia, Pisa e Roma). Sono una piccolissima parte delle migliaia di persone che subiscono questa condizione, celata dall’omertà di chi li circonda e dalle scarse speranze di potersi difendere; il numero reale e difficilmente quantificabile, perché molti non hanno la forza e i mezzi per reagire.

Lo stress però se ne sbatte delle leggi: colpisce duramente, con pesanti effetti fisici e psichici. Le diagnosi descrivono ansia, depressione, irritabilità e attacchi di panico; comportamenti di evitamento (un desiderio di fuga da situazioni dolorose); disturbi alimentari, sessuali e del sonno; abuso di vari tipi di sostanze e di medicinali; mancanza di forza di volontà; incapacità di reagire; difficoltà nei rapporti interpersonali; aggressività. Anche a livello fisico le conseguenze sono dure: malessere generale, cefalea, cattiva digestione, disturbi cardiovascolari, calo delle difese immunitarie (col rischio conseguente di contrarre malattie molto gravi).

Se i colleghi hanno paura di testimoniare

Nel Centro milanese questi pazienti cercano chi è in grado di valutare e certificare il loro stato, sottoscrivendo una perizia indispensabile per provare a far valere le proprie ragioni davanti a un giudice. Obiettivo non facile, perché – come abbiamo visto – per ora chi li mette in quelle condizioni non può essere perseguito penalmente, dato che il reato non è ancora previsto, né è equiparato a stalking o bullismo.

Per tentare di ottenere un verdetto favorevole, i loro avvocati percorrono vie traverse nelle “sezioni lavoro” dei tribunali, chiamando in causa l’azienda: l’unica che può essere giudicata per non aver tutelato la salute del dipendente. Il responsabile diretto delle vessazioni non viene giudicato (salvo casi estremi); anzi, può comparire persino come testimone, su richiesta dei legali aziendali, contro la persona che ha vessato.

Intanto i colleghi, che la vittima deve necessariamente chiamare a testimoniare, spesso sono reticenti, perché temono per il loro posto di lavoro. I dirigenti ai livelli più alti, cui magari le vittime si erano inutilmente rivolte per segnalare la situazione, di solito non intervengono, per trasformarsi addirittura – quando si arriva in tribunale – nella controparte.

Purtroppo oggi giungere a una soluzione del problema, per vie legali o sindacali, richiede tempi e costi troppo elevati. Un’indagine svolta alcuni anni fa dall’Asl di Pescara svela che solo il 28% delle diagnosi elaborate dalle cliniche del lavoro è utilizzata in sede legale; delle altre non resta alcuna traccia.

“Una ferita psicologica che non si rimargina facilmente”

Dunque, prima di essere travolto dall’ansia, chi viene mobbizzato deve avere il sangue freddo per raccogliere prove inconfutabili delle angherie (e-mail, registrazioni, carte); con la preoccupazione di perdere il salario, oltre la serenità già andata in fumo, e di dover pagare un avvocato da contrapporre agli studi legali di cui dispone l’azienda.

Ben che vada, le vittime arrivano a una transazione prima della sentenza e ricevono qualche migliaio di euro, che comunque non compensa la quasi ineluttabile perdita del posto di lavoro; tanto più dopo che la legge Fornero (governo Monti) e il Jobs Act (governo Renzi) hanno ridotto moltissimo le tutele per i lavoratori dipendenti nel settore privato. Poi si tratta di ritrovare un’occupazione in un periodo difficile per tutti, quando si è a cavallo tra i quaranta e i cinquant’anni: la fascia di età più colpita, considerata anziana ma lontanissima dalle pensione. Per giunta, c’è il rischio che una vicenda simile diventi una macchia sul curriculum.

In questa situazione, una delle protagoniste è la dottoressa Giovanna Castellini, dirigente psicologa nel Centro milanese. “Mi trovo di fronte ogni giorno persone sofferenti, con l’equilibrio personale e familiare fortemente messo alla prova. Sprecano molti anni e tantissime energie; inoltre devono fare i conti con una ferita che non si rimargina facilmente”, dice a SenzaFiltro.

“Hanno tutte una famiglia, un affitto o un mutuo da pagare. Sono segnate dallo stress necessario per riuscire a reggere una pressione tremenda e il timore di non avere più uno stipendio. È una situazione drammatica, con pochi strumenti di tutela. Noi lo sappiamo, quindi proviamo a dare consigli, al di là delle diagnosi”. E aggiunge: “Durante l’emergenza sanitaria sono arrivate meno richieste. Per una ragione semplice: la possibilità di lavorare da casa ha ridotto un po’ lo stress cui sono sottoposte nel luogo in cui lavorano”.

Così gli ex mobbizzati aiutano le nuove vittime

Le ricerche sull’incidenza di questo fenomeno sono poche. Si legge, tra “vecchi” documenti presenti sul sito dell’Inail: “Senza contare il ‘sommerso’, che subisce in silenzio, secondo una statistica effettuata nel 2001 in Italia il 4% della forza lavoro è vittima di mobbing. Un dato importante, che rivela come quasi un milione di dipendenti sia oggetto di forme di violenza psicologica dai propri datori di lavoro”.

Uno dei documenti più recenti è un’indagine clinica su 1.675 soggetti (57,1% donne, età media – per entrambi i sessi – di  46 anni) giunti nel Centro milanese tra gennaio 2014 e dicembre 2016: “Il settore maggiormente rappresentato è quello sanitario (13,4%), seguito dalla grande distribuzione (12,2%), dai servizi (11,2%), dal settore manifatturiero e edilizio (10,4%), dall’amministrazione pubblica (9,1%) e da alberghi, ristorazione, pulizie e mense (8,1%)”.

Il fenomeno è così diffuso che ci sono associazioni di ex mobbizzati pronte ad aiutare gli altri. È il caso dell’associazione Risorsa di Torino, nata nel 2000, cui si rivolgono ogni anno centinaia di persone – non solo piemontesi – per ottenere consigli.

“Stiamo cercando di coinvolgere enti, associazioni e istituzioni a tutti i livelli, con lo scopo di migliorare il benessere di lavoratrici e lavoratori: non solo come elemento di dignità personale, ma anche come mezzo per aumentare la produttività del sistema economico e l’efficienza delle politiche sociali”, ci dice il vicepresidente Fernando Ciccopiedi.

La presidente Laura Marucco lamenta una scarsa sensibilità da parte dei sindacati, nonostante ci sia stata una collaborazione con la CGIL torinese (per la cronaca, SenzaFiltro ha verificato che la CGIL a livello nazionale non ha una linea sul fronte del mobbing). Dice la presidente: “Poiché manca una legislazione specifica, a livello giudiziario si interviene solo in casi di aggressione fisica o di patologie gravi indotte dal mobbing. Inoltre – in seguito al Jobs Act – non sono perseguibili da parte della magistratura del lavoro eventi molto frequenti nel caso del mobbing, come il demansionamento”.

Una battaglia di civiltà per punire i colpevoli

Ora è chiaro che serve una legge. Nell’ordinamento dell’Unione europea esistono molti principi sui quali può fondarsi una strategia di lotta al mobbing. C’è persino, dal 2001, una risoluzione del Parlamento europeo, la A5-0283, dove si invita a individuare una definizione standardizzata del mobbing che possa finalmente essere riconosciuta a livello comunitario; però la maggior parte degli Stati è ancora priva di norme.

La Svezia è stata la prima a delineare nel 1993 una legislazione sul tema, pionieristica seppur insufficiente, mentre dal 2002 la Francia ha introdotto il reato di harcèlement moral (molestie morali) nel Codice penale e in quello del lavoro: è prevista la reclusione per un anno e multe fino a 15.000 euro. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito il mobbing viene punito perché per gli ordinamenti di common law è incluso tra i torts; è dunque compreso nella categoria degli harassment (USA), le molestie, e del bullying at work (Regno Unito), il bullismo sul lavoro.        

In Italia abbiamo invece in cantiere, in questa legislatura, la proposta di legge del PD e le altre due del M5S, tuttora sotto esame (con tempi lunghi) nella Commissione Lavoro. Sono molto simili e quindi unificabili, in modo da accelerare l’iter: vogliono punire chi ricorre ad atteggiamenti vessatori con la reclusione da sei mesi a sei anni e con la multa da 30.000 a 100.000 euro; prevedono pure l’obbligo, per le aziende, della prevenzione e dell’adozione di sanzioni disciplinari. Ci sono aggravanti del reato, quindi aumenti della pena, se gli atti sono commessi dal superiore gerarchico e se colpiscono donne (in stato di gravidanza o nel corso dei primi anni di vita del figlio), minorenni e disabili.

Non sarà la soluzione definitiva, però di certo, se la legge entrasse in vigore, i fanatici del mobbing sarebbero un po’ meno “esuberanti”, sapendo di rischiare la galera. Ora sono (quasi) impuniti e lo sanno. È indispensabile che una legge passi. Però occorre sapere che questa battaglia di civiltà non sarà vinta facilmente. Ci sarà qualcuno, in Parlamento e altrove, che cercherà di ostacolarla; magari con l’incoraggiamento di chi, in certe aziende, utilizza o tollera quel clima di terrore.

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