Brescia e quel “suicidio” di un carabiniere che somiglia a tutt’altro

Il carabiniere Lamin Ben Yahia è morto il 19 agosto 2019. La Procura lo ha definito un suicidio, ma diversi elementi puntano in un’altra direzione. La sorella: “Non lo avrebbe mai fatto, ha subito mobbing e minacce dai colleghi”. I dati: il 70% dei suicidi avviene tra i gradi inferiori delle gerarchie

15.11.2023
Carabinieri entrano in caserma con aria cupa

Tra le tante persone che in questi anni hanno scritto sul gruppo Facebook Osservatorio Suicidi in Divisa (OSD), creato da Cleto Iafrate, c’è anche Leila Ben Yahia, sorella di Lamin, carabiniere che il 16 agosto 2019, a soli ventitré anni, si è tolto la vita con la pistola d’ordinanza nella caserma di Vobarno, in provincia di Brescia, dove prestava servizio. È deceduto dopo tre giorni di coma. La storia di Lamin è simile a quella di tanti altri casi di suicidio tra le forze dell’ordine, dove omertà, punizioni, sistema gerarchico ferreo e clima intimidatorio sono elementi ricorrenti.

Lamin, di origini napoletane, era diventato carabiniere nel 2018. Qui un giorno, complice l’inesperienza, commette un errore in buona fede: lascia firmare un padre al posto della figlia assente per l’autenticazione di una fototessera necessaria alla sostituzione di un documento rubato alla ragazza. Lamin viene convocato la mattina del 16 agosto 2019 dal maresciallo, il quale – mi racconta la sorella – gli avrebbe detto che sarebbero dovuti andare davanti al maggiore per riferirgli dell’accaduto. Pochi minuti dopo si sarebbe udito uno sparo nella stanza accanto e il corpo di Lamin viene ritrovato senza vita, in una pozza di sangue.

Lamin Ben Yahia: è suicidio? I dubbi della famiglia su un caso torbido

Dopo le indagini, nel settembre 2021, la Procura di Brescia ha stabilito che si è trattato di suicidio e che non c’è stata istigazione dovuta al mobbing sul posto di lavoro. La famiglia continua però a non credere a questa versione dei fatti e a chiedere giustizia.

Per la sorella Leila sono ancora troppi i punti che non tornano, come i lividi e le fasciature che ha notato sul fratello del corpo, mentre era in coma in ospedale, e che le hanno fatto pensare ai segni di una forte colluttazione; il fatto che quella stessa mattina, prima della tragedia, lo avesse sentito al telefono e le fosse sembrato del tutto sereno; che la settimana precedente avesse prenotato per un viaggio in Brasile e rinnovato l’abbonamento per la palestra; e ancora, il fatto che entrambi i suoi telefoni siano stati ritrovati distrutti o che gli ex colleghi di Lamin insistessero con la sua famiglia per non effettuare l’autopsia sul suo corpo.

Poi c’è la telefonata anonima ricevuta da Leila dopo essere andata alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto, “in cui un carabiniere della caserma di Salò – racconta – mi ha riferito che la mattina del suicidio, mio fratello sarebbe stato minacciato di cinque anni di galera per la questione del documento”. Se questa ricostruzione fosse vera, per Leila la reazione di Lamin sarebbe più comprensibile: “In un momento di rabbia e paura mio fratello avrebbe potuto tirar fuori la pistola: era un tipo sanguigno, anche se di certo non era pazzo. Non aveva mai dato segni di squilibrio prima. Inoltre – aggiunge – era un tiratore scelto: se si fosse sparato, avrebbe mirato alla gola o alla bocca, e non dietro l’orecchio, quasi in modo accidentale, come è risultato dall’autopsia”.

Per Leila e la sua famiglia, inoltre, Lamin era stato preso di mira dai suoi colleghi e superiori. Durante gli otto mesi in cui è stato nella caserma di Vobarno, il giovane carabiniere avrebbe infatti vissuto episodi molto spiacevoli.

“Una volta terminata la scuola dei Carabinieri, fu mandato nella caserma di Nave, sempre in provincia di Brescia – dice Leila – ma quando gli fu assegnato il suo alloggio scoprì che avrebbe dormito dentro un archivio e non in una camera da letto. Così decise di registrare un video di denuncia della situazione, che poi inviò su un gruppo WhatsApp che aveva con alcuni suoi amici carabinieri. Quel video è finito poi nelle mani di uno dei superiori della Scuola Carabinieri di Reggio Calabria, che lo ha reso pubblico. A causa di questo fatto, il comandante della caserma di Nave subì una punizione, mentre mio fratello venne trasferito a Vobarno, dove ha subito mobbing dai colleghi: avevano da ridire su tutto, gli ripetevano che non era fisicamente adatto a svolgere quel lavoro e che fuori servizio non si vestiva in maniera idonea (perché, ad esempio, portava gli orecchini), ma non mi sembra esistano leggi che vietano di vestirsi in un certo modo al di fuori del luogo di lavoro”.

Caratteristiche dei suicidi in divisa: più colpiti i gradi inferiori della gerarchia

Per Cleto Iafrate dell’OSD andrebbe approfondita meglio la questione delle sanzioni disciplinari e dei trasferimenti non richiesti all’interno del settore.

Per quel che riguarda le richieste di trasferimento, sono considerate degli ordini da chi appartiene ai ranghi militari. “I motivi alla base della richiesta possono essere anche molto banali o futili – afferma il fondatore dell’OSD – come incompatibilità ambientale o motivi di servizio. Tutti elementi che non possono essere verificati nel concreto”. Per Iafrate “l’ordinamento militare è un sistema che garantisce omertà e impunità e che, per via della sua natura coercitiva, può esercitare delle pressioni sui membri che ne fanno parte”.

Il fenomeno del suicidio militare èantico’; tenuto sotto chiave dal ministero della Difesa, che raramente ha fornito numeri e quando lo ha fatto, sono stati numeri parziali”, scrive Claudio Pirillo, psicologo specializzato in Diritto e Procedura Penale Militare, direttore del Dipartimento di psicologia giuridica e forense presso la Federiciana Università popolare di Roma-Cosenza, nel suo libro Psicologia del benessere per le FF.AA. e le FF.PP. (2018).

“Dai dati messi a disposizione dal V Ufficio del Gabinetto del ministero della Difesa (arco di tempo dal 1976 al 1991) si rileva nel periodo osservato ‘una frequenza media annua di decessi per cause diverse di circa 500 unità nelle tre armi e nel Corpo dei Carabinieri. In particolare negli ultimi due anni osservati, le morti per suicidio rappresentano la terza causa di decesso, con una frequenza percentuale del 7%, preceduta dai decessi causati da malattie, con il 35.5%, e da quelle per incidenti automobilistici, che si colloca al primo posto con una frequenza percentuale del 40.4%’. Nell’arco di tredici anni – continua Pirillo – il fenomeno si mostra quasi triplicato e presenta un picco nel 1986 con 47 decessi, mentre negli ultimi quattro anni sembra essersi notevolmente ridotto”.

Lo psicologo sottolinea anche come il ministero della Difesa distingua l’andamento dei decessi per suicidio in base al livello gerarchico (Ufficiali, Sottufficiali e Truppa) e per condizione di stato “in servizio” (cioè all’interno delle caserme o strutture militari) o “fuori servizio” (cioè in licenza o comunque fuori dalle strutture).

Dall’analisi dei dati “Si nota, come probabilmente la letteratura non avrebbe fatto attendere, la frequenza molto più elevata di suicidi tra i militari di Truppa, con una media del 70% rispetto a quelli avvenuti tra gli ufficiali e i sottufficiali, che sono il 30% del totale dei decessi avvenuti nelle strutture, soprattutto negli ultimi anni del periodo in osservazione. Un terzo elemento interessante – prosegue Pirillo – emerge, ancora, dal raffronto tra le variabili ‘in servizio’, ‘fuori servizio’. Qui si nota una frequenza sistematicamente maggiore dei decessi avvenuti fuori dalle strutture militari, durante la fruizione di permessi o licenze. Dall’altro canto, però, va notata una tendenza all’aumento. Infine, l’analisi del confronto tra le variabili Ufficiali vs. Sottufficiali conferma il dato presente in letteratura mostrando una frequenza percentualmente maggiore dei suicidi tra i sottufficiali. Come si è visto, il comportamento suicidario offre un trend di incremento molto sensibile nell’arco dei 13 anni osservati”, conclude l’autore.

Da questi dati e dalle cronache degli ultimi anni emerge quindi un quadro preoccupante del fenomeno, che è stato e continua a essere sottovalutato dalle Istituzioni, e che sembra colpire in misura maggiore, come dimostra anche la storia di Lamin Ben Yahia, le cariche più basse delle gerarchie militari, mentre si trovano in situazioni di particolare stress o vulnerabilità psicologica.

 

 

 

Photo credits: infodifesa.it

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