Winebar è una brutta parola

Signora, suo figlio è uno studente modello. “Eravamo in fila per i colloqui alla scuola di Cassino, succursale dell’Istituto alberghiero di Fiuggi dove mi ero voluto iscrivere nonostante le perplessità dei miei genitori e nonostante la fatica del farmi mantenere fuori casa. Avevo detto a mia madre che non serviva venisse ai primi colloqui perché andavo […]

Signora, suo figlio è uno studente modello.

“Eravamo in fila per i colloqui alla scuola di Cassino, succursale dell’Istituto alberghiero di Fiuggi dove mi ero voluto iscrivere nonostante le perplessità dei miei genitori e nonostante la fatica del farmi mantenere fuori casa. Avevo detto a mia madre che non serviva venisse ai primi colloqui perché andavo bene a scuola ma lei non si fidava perché fino a quel momento io e lo studio eravamo stati sempre dalle parti opposte. No no, vengo, Pino. Prepara intanto la valigia perché i soldi non ci sono e torni a casa con me. Sentendo i voti, mia madre svenne davanti a me e al professore di taliano, poi arrivò l’ambulanza ma per fortuna tutto si risolse senza niente di grave.

Avevo tredici anni quando lasciai Caserta e la mia famiglia perché non avevamo lo stesso carattere. Non avevo mai amato studiare ma la ristorazione e il turismo erano la mia vocazione, ne ero certo, ne sentivo il fuoco: per questo accettai la sfida di mia madre che senza mezzi termini mi disse che avrei avuto solo il primo semestre per dimostrare quanto fossi serio e che avrei studiato. Mio padre era un operaio con quattro figli, di cui due femmine da sposare.

Quella vocazione me la sono presa e me la sono portata via con me e col mio carattere ribelle. Le parole di Aldo Valente mi hanno ispirato, era uno dei miei docenti a Fiuggi e ad appena ventiquattro anni aveva carisma e competenza da vendere. Dopo i primi sei mesi di scuola lasciai l’Istituto e iniziai subito a lavorare a Pescara al Villaggio Majestic. Da lì, poi, fu tutto un salire. 

Ci fu una fase successiva in cui decisi di mettermi alla prova per capire se stavo facendo la cosa giusta per me: l’entusiasmo non mi mancava e vivere a contatto col pubblico era la mia seconda pelle ma quante volte ci sopravvalutiamo? Avevo appena finito il militare quando decisi di andare a lavorare in fabbrica perché solo lì avrei sperimentato una parte nuova di me: il lavoro di routine e il parlare con le macchine. Mi assunsero alla AGB di Bassano, facevo le chiavi su pressofusione. Dopo tre giorni mi tolsi il camice e andai dal Direttore. La ringrazio perché ho capito la mia strada. Lui cercò di trattenermi per la lettera di dimissione e per pagarmi quelle poche giornate ma gli risposi educatamente che non era una questione di soldi e che, se voleva, poteva darli in beneficenza”.

L’intervista con Giuseppe Romano è iniziata dalle radici.

Ormai è per tutti Pino, anche nella Padova che lo tiene stretto a sé da dieci anni nel centralissimo quartiere del vecchio Ghetto ebraico dove del cuore cittadino si sente non solo il battito ma anche l’ossigeno che prendono le arterie prima di andarsene in periferia e ciclicamente tornare.

Prima di Padova aveva già girato mezza Italia e un po’ d’Europa. “Rimini e la costa adriatica, Venezia, Vicenza. Ruoli sempre più alti, sempre più responsabilità come negli anni del boom milanese quando da Restaurant manager avevo un portafogli clienti come Chanel. Mentre la Milano di quegli anni camminava, io andavo proprio di corsa. Arrivò anche Londra dove per cinque anni andai una volta ogni due mesi scoprendo un orientamento naturale verso chi assumere e come insegnargli a comunicare. Ci fu anche il tempo di Roma, una volta capito che il food&beverage era davvero il mio mondo. Quello che cerco di fare tutti i giorni è trasmettere ai miei collaboratori che sono nel posto giusto, che devono fidarsi, che devono comunicare con me e tra di loro senza paura di dire le cose sbagliate. Ripeto sempre che passiamo più tempo tra di noi che con le nostre famiglie e quindi l’armonia è indispensabile”.

 

Pino è mezzo uomo e mezzo animale: del primo ha preso il fare e il parlare, del secondo l’istinto e l’adattamento estremo. Durante l’intervista arrivano più volte i collaboratori che hanno cose da chiedere; è venerdì, il pomeriggio è tardo e il fine settimana comincia a sputare il fiato sul collo. Gli fanno domande urgenti ma poste con calma cui seguono risposte ferme ma date con cura. Chiunque riuscirebbe a capire che dentro la sua Enotavola la gerarchia non sporca il lavoro.

“Gli istituti alberghieri sono diventati un caos, non hanno più contenuti né autorevolezza. Dipende anche da loro se oggi i ragazzi si permettono di chiedere se devono lavorare pure il sabato e la domenica. Questo è un lavoro che vive soprattutto durante il fine settimana ed è anche la sua energia, la sua bellezza, ma va trasmessa dalle basi. Oggi invece i ragazzi chiedono cosa avranno in cambio se danno disponibilità a lavorare in quei giorni, assurdo. La scuola si è tolta di dosso la propria responsabilità ed è stato l’inizio del declino di settore”.

Mangiare, bere e parlare sembrano figli della stessa madre, a sentire te.

Nella ristorazione la comunicazione è tutto. In questo campo tutto si è fatto schematico e computerizzato. Pensa che io per le ordinazioni non faccio entrare nemmeno un palmare, qui. Io voglio la comunicazione, voglio che in sala parlino tra di loro e parlino con me. Ho visto fare troppi corsi di PNL o di orientamento al cliente che credo siano totalmente inutili perché tu non puoi andare a modificare un carattere. Un mestiere ce l’hai o non ce l’hai e per la ristorazione serve soprattutto attitudine all’ascolto prima ancora che al dialogo. Questo non te lo insegna nessuno se non lo capisci sulla tua pelle e se non lo sai tradurre a modo tuo. Servono invece corsi di comunicazione, serve passare una giornata con le persone che lavorano con te e andare a raccogliere magari la legna insieme o andare a pesca, serve rafforzare il gruppo e farlo sentire un po’ famiglia, serve girare i ristoranti diversi dal nostro. Io coi miei faccio tutto questo.

Come comunicano i clienti quando entrano nel vostro mondo e come si parano i colpi?

Credo di aver trovato il giusto equilibrio tra noi e loro. Considera poi che arrivai a Padova senza sapere niente della città e di chi ci viveva. Era il 25 aprile del 2010 quando mi licenziai da un ruolo splendido a Roma e il 26 aprile scelsi di venire a Padova. Con mia madre che continuava a stare in pensiero con una pensione minima e una di reversibilità. Adesso finalmente è tranquilla perché ha capito che la strada era giusta per me. Io la capisco perchè quando sono arrivato a Padova partii da meno 350mila euro e prima di quel momento ero stato in città una volta sola per una festa di compleanno.

L’ho intuito dopo come fossero fatte le persone che ci vivevano, all’inizio le ho ascoltate a fondo. Si comunica anche coi gesti nel nostro mondo e la prima cosa che ho fatto è stata togliere le tovaglie dal tavolo. Iniziai con la camicia e la giacca ma dopo poco tempo tolsi anche quelle all’insegna delle magliette e dell’informalità: la città l’ha capito al volo che le piaceva, la città era pronta perché era stanca di una certa vecchia ristorazione. Ho anche pagato il prezzo di molte persone che tuttora non mi amano ma ci sta tutto perché ho cambiato il linguaggio del bere e mangiare dentro la città. Appena aperto misi subito 60 vini in mescita al calice quando la media era di 2 o 3 dappertutto, ora siamo a circa 120 con oltre 700 etichette di vini.

Poi io non ho mai fatto pagare il coperto perché coperto e servizio sono parole che proprio non capisco e che non tollero vengano indicate come un costo.

Quali sono altre brutte parole?

Winebar è una brutta parola.

Io ho voluto Enotavola perché è più potente, penetra. Winebar è una categoria importata dall’estero che non rappresenta nulla della nostra cultura ma purtroppo ce la ritroviamo anche tra le categorie da scegliere quando andiamo a registrare l’attività nelle Camere di Commercio.

Ci sono ancora tanti muri da abbattere in Italia, muri altissimi.

Quanto si parla in cucina?

Si parla tantissimo ma non si sente, da fuori non si percepisce perché, parlando, ci si volta.

Sono solo 14 metri quadrati ma i miei collaboratori lì dentro ci danzano, il nostro ristorante deve essere una fisarmonica che si apre e si chiude. Se il bar è strapieno e il ristorante ha pochi posti occupati, allora quella sera apro il ristorante ai clienti del bar. Io qui faccio mangiare dappertutto, basta con le barriere e le rigidità comunicate troppo spesso ai clienti.

Io, se posso, sto alla larga dai ristoranti che in sala mi raccontano i piatti senza un sentimento, solo descrizioni ripetute a memoria. 

La comunicazione dei camerieri è troppo asciutta, soprattutto nei ristoranti di gran livello ma forse riflette anche una ristorazione troppo impostata e volutamente rigida. Però, sai, in certe città e in certi contesti ci sono clienti che chiedono tacitamente di mantenere una distanza che ricordi anche la formalità e allora è il cane che si morde la coda.

 

 

 

Chiudo l’articolo senza dire nemmeno una parola sul suo stile in cucina – però non posso omettere che mi ha parlato del suo chef “Alessio Magrini, amico e compagno di vita con me già nelle Marche prima che lo portassi qui a Padova. Da quel momento abbiamo sempre lavorato insieme e non ci siamo più lasciati” – sulla carta dei vini, sull’atmosfera di sala. 

Nove ragazzi con lui.

Tanta formazione.

Infinito rispetto per il mestiere e per le persone.

La materia prima di chi lavora come Pino Romano è fatta d’altro e il menù non c’entra niente: merita di essere messa nero su bianco per come è e non solo per cosa fa. Il pericolo della ristorazione è di restare appiccicata col proprio nome su un piatto e di finire mangiata con lui, digerita, spesso dimenticata.

Se vale ancora il detto Parla come mangi, Pino Romano ne è l’interprete nuovo.

CONDIVIDI

Leggi anche

Comunicazione digitale: Italia, ultima chiamata. La ripresa passa anche da qui

L’80% dei cittadini considera molto utile l’utilizzo di social network e chat per comunicare con le istituzioni e ricevere informazioni e servizi. Il 68%, praticamente 7 su 10, è favorevole all’utilizzo dei social per dare comunicazioni pubbliche ai cittadini. Praticamente 9 su 10 (l’88%) pensano che l’emergenza coronavirus abbia accelerato il lavoro del Paese sui temi […]

L’ambiente senza educazione

Educazione ambientale come driver dello sviluppo sostenibile. Questa era la concezione che era alla base della Conferenza di Tbilisi, organizzata dall’UNESCO nell’ottobre 1977 sul tema che però già allora, eravamo agli arbori dell’ambientalismo che in quegli anni cresceva con il rifiuto del nucleare, aveva sentore della complessità. In quella occasione, infatti, l’educazione ambientale fu definita […]