di Angela Deganis
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. L’articolo 1 della nostra Costituzione ne è certo, e nell’affermarlo non prevede differenziazioni di genere, né di altra natura. In un Paese come il nostro, immaginiamo di poterci sentire sempre sicuri – sicure – nel luogo in cui eroghiamo la nostra prestazione lavorativa. Eppure numerosi studi contraddicono le nostre aspettative.
Le molestie sul posto di lavoro sono vive e vegete e l’81% di queste ha una donna come vittima. Parola di ISTAT. Il Dossier INAIL 2025 molestie e violenze nei luoghi di lavoro evidenzia le forme di violenza più diffuse negli ambienti lavorativi: il 56% sono casi di violenza verbale, il 53% di mobbing, il 37% di abuso di potere, il 10% di violenza fisica, il 6% di stalking e il 2% di violenza online.
Una sopraffazione che si evince anche dalle piccole cose, palpabile nella sua volatilità quotidiana. Gli studi scientifici degli americani Hancock e Rubin sull’influenza del genere nella comunicazione riprovano che gli uomini interrompono le donne dal 33% al 55% in più rispetto a quanto non facciano quando parla un collega di genere maschile – mentre scrivo mi sovvengono tutte le frasi e i concetti che nel corso della mia carriera avrei avuto piacere di concludere.
Ma ci perplime ancora di più constatare che in Italia ammonta a 13 miliardi l’anno il costo sociale delle molestie sulle donne. Pensandoci, non conosco donna che non abbia subito una violenza. E vale anche sul posto di lavoro.
Su SenzaFiltro ne parliamo con una donna che ha fatto della parificazione di genere il suo obiettivo, il suo respiro e la sua impareggiabile cifra stilistica. Prima donna a firmare una sentenza come “la giudice”, “la magistrata”, in Italia. Stiamo parlando di Paola Di Nicola Travaglini, la professionista della giustizia che ha deciso di indossare il cognome del padre e quello della madre. Giudice presso la Corte suprema di cassazione, consulente giuridica della Commissione femminicidio del Senato della XVIII Legislatura, è un’esperta in materia di violenza domestica e contro le donne, e di pregiudizi giudiziari. In questa veste ha contribuito alla realizzazione del ddl che introduce il reato di femminicidio nel Codice penale italiano, approvato all’unanimità dal Parlamento lo scorso 23 luglio.
Dottoressa Di Nicola Travaglini, che cosa significa essere una donna al potere oggi?
Non conosciamo un potere diverso dal potere maschile. Mi spiego meglio. Lavoro in un’istituzione giudiziaria che esercita il potere attraverso il diritto e la sua interpretazione. Un ambito in cui si richiede un uso pulito e consapevole del linguaggio, un contesto negato alle donne fino al 1963 per evidenti pregiudizi sessisti. È chiaro che noi donne abbiamo dovuto acquisire un linguaggio che non era il nostro, fondato sulla gerarchia di potere uomo-donna che ci colloca in posizione di subordinazione, senza che ce ne accorgiamo. Un contesto dominato da un modello gerarchico tra sessi, che condiziona categorie di pensiero culturali millenarie sulla base delle quali è stato costruito tutto, anche il diritto.
Come cambiare lo status quo?
Si parte dalla consapevolezza. Dopo vent’anni di magistratura ho compreso che l’ordinamento giuridico fondato sul neutro che non esiste in natura è un potente strumento per rendere invisibile la gerarchia sessuale che domina il mondo intero. Ne è una riprova la persistenza nel diritto del matrimonio riparatore, che estingueva il reato di stupro, il delitto di adulterio o l’omicidio per causa d’onore, resistiti per molti anni nonostante l’articolo 3 della Costituzione sancisse pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini italiani, senza discriminazione sessuale. Come cambiare, dicevamo: ognuna di noi lo fa con incontri, letture, confronti. Per me è stato importante dialogare con avvocate, donne vittime di violenza, filosofe, giornaliste, con la società civile, quella che con le sue critiche aiuta anche le istituzioni a crescere. Una consapevolezza individuale, non istituzionale, non collettiva, perché il contesto sociale impedisce la presa di consapevolezza che metterebbe a repentaglio la sua stessa struttura millenaria. Se elimini l’assoggettamento femminile crolla tutto, famiglie, organizzazioni aziendali, società; un crollo che imporrebbe il ripensamento di nuovi assetti.
Quanto tempo dovremo ancora attendere per scalfire una forma mentis così radicata?
Stiamo andando velocissime per liberarci di questa sovrastruttura, forti di una consapevolezza diffusa e dell’apporto delle nuove generazioni. Le giovani oggi non tollerano sottomissioni e per questo motivo vengono uccise. Il cambiamento inizia dalla consapevolezza. Il secondo strumento per ottenerlo è rappresentato da un nuovo mondo di uomini che non tollerano più di essere complici di questo sistema. Ce ne sono. Il terzo, dalle leggi. Lo Stato, a livello nazionale e internazionale, ha un sistema normativo che riconosce come diritto umano inalienabile quello delle donne di vivere libere dalla violenza. Finora la violenza e le limitazioni alla nostra indipendenza erano ritenute un inevitabile destino femminile. È una nuova era.
Non è un tema normativo, quindi, ma di interpretazione e messa a terra?
Dal punto di vista normativo la strada è segnata, anche se non a tutti i livelli: dipende dalla cultura e dalla formazione sul tema del singolo poliziotto, giudice, pubblico ministero. La formazione resta sempre la chiave di volta. Ribaltare la prospettiva. Non agire sulle vittime, sulle donne, ma formare gli uomini a rinunciare ai loro privilegi per un mondo migliore per tutti e tutte. Chiediamo agli uomini che conosciamo se hanno mai agito violenza su una donna, nell’uso del linguaggio verbale e non verbale, nello stile adottato nel discorso, in battute, barzellette, nella gestualità e nell’uso delle mani, nello sguardo, con l’uso di appellativi o dei verbi all’imperativo, con l’utilizzo per le donne del nome proprio e non del cognome e senza mai usare il titolo di studio. Se tutti gli uomini dicessero di non avere mai usato violenza, riusciremmo con fatica a comprendere come mai tutte le donne l’abbiano invece subita nel corso della loro esistenza: verbale, psicologica, economica, fisica. Questo significa che gli uomini esercitano violenza nella più totale inconsapevolezza, nella loro abitudine naturalizzata al dominio.
Non solo reati sessuali sul posto di lavoro: che cos’altro succede alle donne in sala riunione e in corsia?
Non c’è luogo di lavoro in cui non valga il principio della gerarchia sessuale, sulla quale si è costruito un rapporto diseguale. Nei luoghi del potere la donna riceve un trattamento discriminatorio e non ne è consapevole, lo accetta e lo replica. Se rifiuta di omologarsi al sistema viene messa da parte, additata come strana, esagerata, isterica, difficile. È la conferma che stai rompendo un assetto millenario. L’isolamento, la ghettizzazione, il ridimensionamento, sono prezzi da pagare che dimostrano che stai facendo bene il tuo lavoro di destrutturazione. Le donne che restano nei ranghi hanno più opportunità di raggiungere il potere, ma una volta conseguitolo non sono sempre in grado di cambiare il sistema. Spesso continuano ad assecondarlo.
Come possiamo aiutarle?
Le donne hanno la necessità di mantenere uno stipendio, di essere accettate e riconosciute. Non possiamo chiedere alla vittima di alzare la testa, perché è in condizioni di soggezione. Il contesto le dice che tacere è normale. Il tema va ribaltato e va imposto un cambiamento di passo agli uomini. Serve richiedere ai datori di lavoro e alle aziende di costruire sistemi di consapevolezza per gli uomini che esercitano violenza, in modo che comprendano che quel modo di parlare, guardare, toccare e relazionarsi è uno stile fondato sulla sopraffazione e sul ridimensionamento delle donne a oggetto servente. C’è bisogno di corsi di formazione in azienda in cui si spieghi che cosa è la gerarchia sessuale sul posto di lavoro e che cosa mette a disagio le donne e perché.
Che consiglio darebbe alle nostre lettrici per gestire una situazione che le vede vittime di violenza sul posto di lavoro?
Occorre recarsi immediatamente in un centro antiviolenza super specializzato. Forniscono alle donne vittime di violenza gli strumenti culturali per acquisire consapevolezza che quello è l’atto finale di una catena che fino ad allora la vittima non ha visto. C’è un sistema di potere fondato sulla sopraffazione che si replica in modo identico ovunque, con un pattern simile a quello di un sistema mafioso: il clan controlla il territorio attraverso la sopraffazione e la violenza, limitando la libertà di un intero contesto; chi omertosamente si assoggetta ne trae beneficio; chi non si assoggetta e chiede aiuto viene messo da parte dal clan, viene espulso, e rischia la morte. Più ferite hanno le donne, più hanno reagito al sistema. Meno ferite hanno, più si sono assoggettate, ma questo non vuol dire che non ne soffrano. Iniziamo a chiedere agli uomini quante ferite si sono fatti per aiutarci. Chi ha rischiato il proprio posto di lavoro per aiutare una collega maltrattata o umiliata. Perché è bello che tutti dichiarino che sono contro la violenza. Serve un impegno tangibile. Servono azioni.
Quale consiglio darebbe, invece, agli uomini?
In primis, ascoltare le parole delle donne che ti sono a fianco, non solo quelle che ami, le colleghe, le cape, le collaboratrici, chiedendo come stanno, cosa fa loro male, cosa dispiace, cosa fa paura. Chiedere e ascoltare senza giudicare. Rispettare quanto viene detto. Se non ti metti nei panni della donna, continuerai a perpetuare una modalità di dominio. E, in un secondo momento, prendere parola. Se questi uomini prendono parola, gli altri uomini comprenderanno quello che finora non sono stati in grado di vedere.
Da dove nascono pregiudizi e stereotipi in ufficio? E quanto c’è di simbolico e archetipico nelle volenze che noi donne subiamo ogni giorno?
L’antropologia e letture come Lady Sapiens di Thomas Cirotteau, Eric Pincas e Jennifer Kerner spiegano in modo semplice il percorso che ci ha portato a considerare la prevaricazione maschile come connaturata alla loro fisiologia, quando la scienza ci spiega chiaramente che non è una questione endocrina, ormonale. Ritenere fisiologicamente violenti gli uomini li deresponsabilizza, così come considerare le donne creature per natura quiete, accudenti e servili è un costrutto culturale che agevola la sopraffazione, ponendo gli uomini di fronte a vittime certe, inerti perché gli è stato detto che è nel loro DNA.
Credo che lei nella sua vita lei abbia visto di tutto. Come fa a mantenere una prospettiva positiva sul mondo?
Ho visto donne e ragazze rinascere, uomini cambiare, una prospettiva di consapevolezza culturale e sociale potente, un Paese cambiato enormemente, passando dall’omicidio per causa d’onore all’approvazione della legge contro il femminicidio, che il Parlamento italiano ha approvato all’unanimità. E poi i miei figli, le nuove generazioni così ricche. Ce la faremo, uomini e donne.
Da decenni le donne tentano di scrollarsi di dosso una tradizione secolare, ancora viva e vegeta tra le quattro mura domestiche e in sala riunioni. Una forma mentis globale, che si poggia sul mondo come gli occhiali di Kant. Occhiali che possiamo però decidere di smettere di indossare.
La violenza commessa dall’80% degli uomini colpisce almeno una donna su tre in qualsiasi latitudine del pianeta, in Italia e in Europa – e le colpisce in quanto donne. Di fronte a queste percentuali nessuna di noi ha intenzione di tornare a fare la calzetta: ci siamo dotate di un nuovo metro, fatto di parole declinate in modo corretto, per posare nuove strade da percorrere insieme. Per tutte e per tutti.
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In copertina: Paola Di Nicola Travaglini a Nobìlita 2025, a Reggio Emilia. Foto di Domenico Grossi