
Il progetto di un centro medioevale dell’Appennino Tosco-Emiliano: investire i fondi del PNRR per riportare in auge la lavorazione della pietra arenaria e strutturare il paese per ospitare giovani e lavoratori.
Il nuovo sindaco di New York è stato eletto promettendo di cambiare la situazione critica della vivibilità cittadina: tasse ai super ricchi, affitti calmierati, asili e trasporti gratuiti. Ma la sua vittoria è il segnale del tramonto del modello di città premium, quello che Milano ha replicato nel corso di un decennio

34 anni, nato in Uganda da genitori indiani, musulmano; autodefinito “socialista”. Il profilo di Zohran Mamdani è ottimo per far saltare un battito a qualunque conservatore occidentale. Cresciuto nelle periferie di New York, quando si è candidato a diventarne il sindaco non era disegnato per vincere: all’inizio dell’agone elettorale i sondaggi lo davano all’1%, la stampa lo trattava come un “radicale senza senso della realtà”, e il Partito Democratico locale, in cui milita, lo considerava un disturbo da contenere.
Eppure, oggi, Mamdani ha vinto con più del 50% delle preferenze – e dieci punti di distacco rispetto al secondo candidato, Andrew Cuomo, un brontosauro travolto dagli scandali che rappresenta bene la vecchia guardia politica dei Democratici americani. Come è stato possibile? E soprattutto: perché se ne parla così tanto, visto che le elezioni del sindaco di New York, per quanto rilevanti negli States, oltre confine si sono sempre limitate a titoli da pagina interna e cognomi – Bloomberg, Giuliani – che sorvolano l’attenzione?
La situazione è cambiata nel giro di pochi mesi, dopo una campagna elettorale svolta sui social e senza grandi sponsor, tutta rivolta a rispondere alle difficoltà di sopravvivenza dei newyorchesi. Perché New York è una città in cui un litro di latte può arrivare a costare fino a 8 dollari, e che è vivibile quasi solo per i 123 miliardari e i circa 400.000 milionari che vi risiedono.
New York è un copione urbano che il resto del mondo ha studiato e cercato di imitare in diverse declinazioni, Italia compresa: con le dovute differenze di contesto, noi lo chiamiamo “modello Milano”. Per questo l’elezione di Zohran Mamdani a sindaco non è una semplice notizia politica, quanto un cambio di epoca. È la capitale mondiale della gentrificazione che, attraverso il voto popolare, ammette di essere arrivata al limite; il modello della “città premium” giunto a saturazione.
La “città che non dorme mai”, negli anni, è diventata “la città che non dorme più” a causa delle preoccupazioni economiche, dato che il costo della vita non è più sostenibile per la maggior parte dei suoi quasi 9 milioni di abitanti.
Avete presente gli ultimi giri di una lunga partita a Monopoli, o qualunque altro gioco da tavolo a punti? Sono quelli in cui si è già capito chi vincerà: hanno comprato Parco della Vittoria, l’hanno riempito di alberghi, e procedono a collezionare tutte le stazioni per sfizio; dall’altra parte i perdenti continuano a giocare per inerzia, con sempre meno banconote e il sorriso tirato.
È una metafora calzante del “late stage capitalism”, la pigra era geologico-finanziaria che segue lo sviluppo iperbolico del libero mercato e dell’imprenditoria di rapina. In questa fase, le disuguaglianze sono più nette. Nelle grandi città lo sono ancora di più.
Il 68% dei newyorchesi vive in affitto, e gran parte di questi paga una quota sproporzionata del proprio reddito per la casa: i costi di locazione hanno raggiunto oltre 4.000 dollari al mese per un bilocale a Manhattan e 3.596 dollari in media nel resto della città (un incremento di 121 dollari rispetto allo scorso anno), dopo un rimbalzo post-pandemico rapido quanto brutale. È il frutto di un sistema di speculazione immobiliare calcolato e programmato dagli anni Novanta a oggi, una resistenza politica allo sviluppo urbano (il cosiddetto NIMBYism, acronimo di “Not In My Backyard”) che satura il mercato limitando al minimo l’offerta, per caricare di un valore stellare qualunque investimento immobiliare nella city. Un sistema di speculazione cruento, che ha come vittima i ceti sociali dal medio in giù.
Per almeno trent’anni New York ha professato l’idea che le città debbano crescere e competere, attirare investimenti, talenti e capitale. Ma questa corsa ha avuto un effetto collaterale che si è trasformato in malattia sistemica: la sostituzione progressiva del ceto medio urbano. Parte di questo cambiamento è avvenuta in modo lento, con la gentrificazione di quartieri un tempo popolari; un’altra parte è esplosa negli ultimi cinque anni, quando l’onda della domanda ha incontrato una cronica scarsità di offerta abitativa, che il capitale immobiliare ha monetizzato in maniera sistematica.
Oggi il capitalismo immobiliare americano divora se stesso: a New York è sempre più frequente il fenomeno degli uffici che, dopo essere rimasti deserti a causa del lavoro da remoto, vengono riconvertiti in unità abitative, spesso di lusso. Nella città in cui il cemento vale più dell’oro, degli immobili non si butta via nulla – neanche i progetti sbagliati.
Mamdani ha dato una forma politica a questa frattura. Non ha parlato solo ai progressisti, ma ai pendolari, alle madri single che vivono con affitti che raddoppiano a ogni rinnovo, agli studenti schiacciati dal debito. Ha parlato alla working class afroamericana e latina, che in molti quartieri è stata sostituita da capitali immobiliari e affitti a breve termine.
La sua proposta, nel contesto americano, è scioccante perché anticapitalista: blocco degli aumenti degli affitti per 2,4 milioni di inquilini in case a canone stabilizzato, più 200.000 alloggi pubblici o calmierati da costruire in dieci anni. E poi trasporti pubblici e asili nido gratuiti, servizi sociali rafforzati, e lotta al rincaro alimentare con l’istituzione di negozi di proprietà del Comune. Il tutto finanziato, in buona parte ma non solo, da un aumento delle imposte su patrimoni e redditi milionari.
Il punto non è “punire i ricchi”, ma reinvestire la rendita urbana nella cittadinanza reale. Peccato che le élite cittadine non l’abbiano comunque presa bene: 26 ultraricchi, tra cui diversi amici di Trump e il cui rappresentante più noto è l’ex sindaco Michael Bloomberg, si sono coalizzati per finanziare una multimilionaria campagna contro il candidato socialista, nella quale, per dare una misura dell’impresa, il cofondatore di Airbnb Joe Gebbia ha donato nel giro di 24 ore 3 milioni di dollari alla causa anti-Mamdani. Che ha commentato: «Stanno spendendo più soldi per attaccarmi di quelli che gli avrei chiesto in tasse».
Lo slogan della sua campagna elettorale, per queste ragioni, è stato “lower costs, fairer city” (“costi più bassi, città più equa”). Che riesca o meno ad attuare le promesse è tutto da vedere, ma il punto della questione è tutt’altro. Perché l’elezione di Mamdani è un segnale che valica i confini della città: significa molto per la politica nazionale americana, della quale però non è interessante parlare in questa sede, e ha un significato traumatico per tutte le amministrazioni epigone di un modello che, oggi, ha votato in modo plebiscitario per la sua autodistruzione.
È proprio qui che il focus del discorso arriva a Milano.
Che cosa succede quando un territorio cerca di imitare un modello proprio nel momento in cui quel modello sta andando in crisi, per giunta nel luogo dove è nato?
Milano, negli ultimi dieci anni, ha costruito la cosmetica del suo successo guardando a città come New York. L’Expo 2015 è stato l’innesco che ha trasformato la città da capitale produttiva a hub globale della creatività, delle imprese e del terziario avanzato. Ma insieme all’immagine internazionale è cresciuto anche il prezzo concreto dell’abitare.
Dopo l’Expo, i valori immobiliari e gli affitti hanno iniziato una crescita costante. Oggi Milano ha il costo al metro quadro più alto d’Italia (5.545 €/m², il 118% sopra la media regionale) e affitti che superano i 23,5 €/m².
Tutto questo è avvenuto in un lasso di tempo molto più ristretto, perché se New York ci ha messo trent’anni a diventare una città dove non si riesce più a vivere, Milano lo sta facendo in otto. Dove New York oggi sta cercando una via d’uscita, Milano sta ancora pedalando nella direzione opposta, convinta che la crescita coincida con la vitalità. La differenza sta nel modello di sviluppo: se a New York è bloccato e controllato dalla classe politico-finanziaria, interessata a mantenere limitata l’offerta immobiliare, il capoluogo lombardo ha puntato sulla rigenerazione urbana per trasformarsi in un paradiso a prezzo di costo per ricconi e immobiliaristi.
È proprio in questo passaggio che si inseriscono le inchieste giornalistiche degli ultimi anni e le indagini della magistratura: ciò che a Milano viene chiamato “rigenerazione”, talvolta, è stato mosso non dalla necessità di creare una città più vivibile, ma dalla possibilità di estrarre valore dalla città stessa. Il lavoro di Gianni Barbacetto, raccolto nel libro Contro Milano (Paper First, 2025) ha mostrato il lato opaco del “modello Milano”. La rete di relazioni tra grandi operazioni immobiliari, amministrazione pubblica e investitori ha prodotto un’urbanistica che spesso sembra rispondere più alla logica della rendita che a quella dell’interesse pubblico. La città è stata trattata come un mezzo per generare valore finanziario, più che come infrastruttura di vita condivisa.
Intervistato da SenzaFiltro durante il festival di Nobìlita, lo stesso Barbacetto ha delineato il meccanismo speculativo meneghino: «Secondo la narrativa ufficiale, Expo ha avviato un processo di ascesa inarrestabile per Milano. È solo storytelling. I numeri invece sono molto semplici: è costato 2 miliardi di soldi pubblici e ha incassato 700 milioni. È stato il lancio della londrizzazione di Milano, e anche se dal punto di vista della ricchezza portata alla città non è stato un granché, l’ha portata nel novero degli insediamenti più sexy del gotha urbano. Chi se n’è andato non ce la faceva più, e di fatto è stato espulso dal tessuto cittadino. Sala è riuscito a realizzare il sogno di Letizia Moratti, cioè di realizzare la città premium: nella classifica dei capitali immobiliari arrivati nelle città europee, Milano è prima. Questo si ottiene facendo pagare meno (a Milano ci sono gli oneri di urbanizzazione più bassi d’Europa) e considerando “restauro” la costruzione di un grattacielo, cosa che permette di tagliare ulteriormente i costi. A Monaco di Baviera, seconda città in classifica, gli operatori che investono le lasciano il 30% del loro profitto; a Milano lasciano l’8%».
Al netto delle differenze geografiche e normative, è evidente come il meccanismo sia simile a quello che ha modellato New York, ma compresso in una scala temporale molto più ridotta. A Milano la trasformazione non è cresciuta per stratificazioni successive, bensì come un’accelerazione improvvisa. L’Expo ha segnato la transizione da città industriale a città vetrina, e la rigenerazione urbana si è sviluppata in modo concentrato su aree simboliche ad alta visibilità: Porta Nuova, CityLife, gli scali ferroviari, i grandi interventi che hanno ridisegnato skyline e identità (talvolta ispirandosi proprio a New York). Ma questo processo non si è limitato a ridisegnare lo spazio fisico: ha ricalibrato le priorità di governo del capoluogo lombardo. L’abitare è diventato una conseguenza dei processi economici, non un punto di partenza.
Le conseguenze sono visibili nel tessuto sociale. I quartieri centrali e semicentrali, da Porta Venezia all’Isola, dai Navigli a Sarpi, hanno visto un aumento continuo dei canoni di locazione che ha spostato intere fasce di popolazione verso le periferie di prossimità. Le zone che fino a pochi anni fa erano considerate accessibili – Affori, Dergano, Crescenzago, Bovisa – sono ora attraversate dagli stessi processi di rialzo dei valori immobiliari che si erano verificati prima nel cuore della città. E in diverse fasce della popolazione maturano la disillusione e un malcontento sempre più esplosivo, da cui deriva la percezione di una città non più sicura. È la geografia dell’espulsione, silenziosa ma instabile, alla quale i confini della zonazione vanno sempre più stretti.
Ecco perché l’elezione di Mamdani a New York non è una notizia lontana. È l’annuncio che quel modello ha una scadenza; che l’idea della città come prodotto premium non solo è socialmente insostenibile, ma anche economicamente fragile: quando le persone che la fanno funzionare non possono più viverci, la città si rompe.
New York lo ha capito dopo aver scavallato l’apice della sua immagine globale; Milano è in un momento simile, con le crepe della storia che si è costruita attorno che si fanno sempre più numerose. La buona notizia è che oggi sa di fare ancora a tempo a cambiare. Anche se le elezioni sono lontane.
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Photo credits: Eden, Janine and Jim via Flickr

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