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Coronavirus: l’allarme inascoltato degli italiani in Svezia. Ambasciator non porta pena?
Come vivono questo momento difficilissimo gli italiani che risiedono all’estero per lavoro? Come dentro a un doppio incubo. Nella fase più profonda assistiamo impotenti e preoccupatissimi al rapido capitolare degli eventi nel nostro Paese, dove oltre al cuore abbiamo lasciato affetti, famigliari, amici. Nella fase rem poi, quando il sonno si assottiglia per avvicinarti alla […]
Come vivono questo momento difficilissimo gli italiani che risiedono all’estero per lavoro? Come dentro a un doppio incubo. Nella fase più profonda assistiamo impotenti e preoccupatissimi al rapido capitolare degli eventi nel nostro Paese, dove oltre al cuore abbiamo lasciato affetti, famigliari, amici. Nella fase rem poi, quando il sonno si assottiglia per avvicinarti alla realtà, veniamo assaliti dall’indifferenza di chi si fa beffa degli errori altrui, anziché trarne insegnamento.
Ci troviamo in Svezia, dove solo martedì il palinsesto del primo canale nazionale è stato cancellato a beneficio di uno speciale sul coronavirus. A queste latitudini il male resta sempre fuori, il problema non lo si affronta mai direttamente perché è scomodo, sia esso un incendio devastante o un virus che riguarda il globo. A impermeabilizzare questa società è sicuramente il protocollo da seguire per ogni cosa, panacea di tutti i mali. E la tecnica dello struzzo è “il” protocollo. Se a questa attitudine antropologica spiccatissima si somma una fiducia incrollabile nel Sistema, che anche davanti alla dirompenza dei numeri sostiene vada tutto bene, si realizza la tempesta perfetta.
L’angoscia degli italiani in Svezia in tempo di coronavirus
“Siete esagerati voi italiani. Tanti morti? Ma è perché siete pieni di vecchi”. L’espressione qui riportata non è uscita al mercato, ma all’interno del più prestigioso istituto di ricerca d’Europa, il Karolinska institute di Stoccolma. Dall’omonimo ospedale universitario, una settimana fa, una signora ipoteticamente contagiata è stata invitata a uscire dalla finestra per non passare dai locali del pronto soccorso, dove era stata chiamata a presentarsi a seguito di una telefonata preventiva che la donna aveva fatto. Aveva spiegato di sentirsi i sintomi del COVID-19 e di essere stata al Festival del cinema di Berlino. Quando si è recata in pronto soccorso, con al seguito il figlioletto che a sua volta stava male, è stata messa in una stanza da sola. E dimenticata lì.
Quando una settimana dopo si è contato il primo morto anche in Svezia, ecco che cosa succedeva agli italiani che lavorano quassù. Sempre in contatto tra di noi, pronti a scattare appena qualcuno ha bisogno. A consolarci reciprocamente nei momenti, sempre più frequenti in questi giorni, in cui la nostalgia per la bellezza dell’Italia ci morsica. Lo fa di continuo, eppure ci prende sempre alla sprovvista. Abbiamo tutti sospeso istintivamente i reciproci inviti che tanto ci scaldano. I pranzi a casa dell’uno e dell’altro, con le sedie portate da casa e il contributo di una delizia italiana conservata da parte apposta per condividerla alla prima occasione. Rinviati anche i festeggiamenti per il primo compleanno di due figlioletti. Tutti attaccati a WhatsApp. Ogni storia, ogni informazione carpita nei luoghi di lavoro, ogni esperienza, viene fatta rimbalzare con lo scopo di proteggerci e proteggere.
Data la ferocia delle ritorsioni trasversali nei luoghi di lavoro, che al Nord sono prassi, leggerete qui fatti di cronaca quotidiani veri, con nomi falsi. Inutile aggiungere che per tutelare i nostri connazionali non possiamo nominare neanche le aziende, perché è sufficiente una mezza soffiata per non trovare più lavoro, qui. Gli svedesi sanno essere estremamente patriottici e compatti, quando si tratta del buon nome del loro Paese. Del resto sono particolari irrilevanti, perché è tutta la nazione a comportarsi così. E perché la tutela delle fonti, giornalisticamente, è sacra.
La civile Svezia ignora il problema: “Il sistema sanitario svedese migliore di quello italiano”. E l’ambasciatore risponde
25 febbraio. Sono rientrata in Svezia volando da Venezia a Stoccolma, via Bruxelles. Appena qualche giorno prima era scoppiato il caso di Vo’ Euganeo e mi ero messa in auto-quarantena a Padova, dove risiedo quando sono in Italia. All’aeroporto Marco Polo di Venezia i baristi indossavano la mascherina con il filtro, molti i passeggeri con la mascherina chirurgica. Allo scalo di Bruxelles, sembrava non stesse capitando niente. Giunta in un aeroporto minore di Stoccolma, a Bromma, il fatto che io provenissi da Venezia è apparso del tutto irrilevante. Ancora una volta mi sono messa in auto-quarantena.
27 febbraio. Patrizia, ricercatrice. Rientrata da Bergamo proprio nei giorni in cui il virus era deflagrato in tutta la Lombardia, ha chiamato il centralino generale per le valutazioni mediche. Ha ottenuto che facessero il tampone (risultato poi negativo) a lei, ma non al fidanzato, convivente, che con lei era stato a Bergamo. Perché? “Non è necessario” le ha risposto il medico. Patrizia è stata “invitata” dai colleghi a rimanere a casa (la quarantena imposta viene interpretata come una violazione dei diritti personali). Il suo compagno può uscire.
29 febbraio. Maurizio e Luisa sono rientrati da Treviso nei giorni più bui per il Veneto. A lui il suo capo ha chiesto saggiamente di restare a casa per due settimane, dato che può esercitare lo smart working. “Io comunque ho telefonato al 1177 (il numero comunemente adibito al primo consulto medico, N.d.R.) per avere informazioni e mi hanno risposto che non ci sono restrizioni per l’Italia. Che non facevano i test a meno che tu non fossi stato in Cina o a contatto con malati”. Anche Luisa, che fa la cassiera e quindi deve essere fisicamente sul luogo di lavoro, ha chiesto al presidio sanitario di fare il tampone. Stessa risposta ricevuta da Maurizio. Il capo le ha quindi chiesto di restare a casa per due settimane; richiesta immediatamente revocata appena ha saputo che avrebbe dovuto retribuirla di tasca propria, anche se assente.
3 marzo. Anna, hostess di volo. Su sua richiesta ha ottenuto, con non poca fatica, che la compagnia aerea per la quale lavora le fornisse una mascherina con filtro, ma non il permesso di usarla, a meno che non fosse provato che uno dei passeggeri avesse contratto il virus. Ma come fare a saperlo? Quando Anna ha fatto notare che nell’aeromobile mantenere le distanze di sicurezza è notoriamente impossibile, gli hanno concesso di usare i guanti all’atto di ritirare le immondizie dei passeggeri (bicchieri, salviette usate durante i pasti a bordo…). Anna si è messa in auto-quarantena cercando anche di sensibilizzare i suoi colleghi. Ma la sua compagnia si è limitata a lasciare il personale a casa, esclusivamente per la cancellazione dei voli determinato dal crollo degli acquisti di biglietti.
4 marzo. L’attenzione della Svezia, attualmente governata da un pappone di socialdemocratici e liberali, centristi e ambientalisti, che in comune hanno solo la necessità sociopolitica di arginare il crescente consenso dell’estrema destra, è galvanizzata proprio dal leader sovranista Jimmie Åkesson. Mentre i numeri del coronavirus andavano lievitando, l’estremista si era recato a Edirne, al confine tra la Grecia e la Turchia, per volantinare tra i migranti: “La Svezia è piena. Non possiamo più darti denaro. Non abbiamo più alloggi. Scusa per questo messaggio. Firmato: il popolo svedese e i Democratici di Svezia”.
10 marzo. Dopo lo speciale tv sul COVID-19, viene reso noto che il livello di rischio è passato da alto a molto alto. L’epidemiologo di riferimento Anders Tegnell sosterrà pubblicamente che se dovesse accadere un’epidemia il sistema sanitario svedese avrebbe prerogative migliori rispetto quelle del sistema italiano. Il nostro ambasciatore in Svezia Mario Cospito ha reagito con un comunicato stampa, sapientemente giocato sulla storia (che gli svedesi quasi non studiano) e su dati comprovati dalle uniche fonti legittimate a farlo. Lo riportiamo qui accanto.
11 marzo. L’OMS dichiara COVID-19 pandemia. Il primo ministro Stefan Löfven comincia a ipotizzare la quarantena anche in Svezia. Intanto eventi e riunioni proseguono senza alcuna precauzione. Stefania, asmatica e mamma di due bambini piccoli, chiede al suo capo di lavorare da casa, visto che le serve solo un telefono e un pc. Scatta il piano gerarchico dei protocolli per la risposta, che è no. Stefania insiste sulla gravità della cosa, cerca di spiegare che non vuole si facciano gli errori fatti in Italia, che bisogna agire subito. Le rispondono allora che può usufruire del supporto offerto dalla psicologa convenzionata con l’azienda. La costringono a presentarsi alle riunioni, anche con il capo in rientro dall’estero e quindi passato per forza dall’aeroporto principale di Stoccolma, Arlanda. Solo il giorno seguente otterrà lo smart working.
12 marzo. Un gruppo di ragazzi italiani, tra i quali una virologa, cercano di mettere in allarme gli svedesi inviando via Facebook una lettera in doppia lingua. Il numero dei contagiati è cresciuto in modo esponenziale.
13 marzo. Il Re dichiara di seguire lo sviluppo dell’epidemia molto seriamente. Ministri e autorità intervengono per annunciare gli stanziamenti finalizzati alle esigenze economiche determinate dal coronavirus. L’ex presidente dell’Associazione medica svedese per le cure in emergenza riesce a trovar spazio nei media. Da giorni andava dicendo, inascoltata, che i medici svedesi non sanno come comportarsi davanti a questa emergenza. Non hanno linee guida. Non sanno che presidi usare. La Danimarca chiude i confini. La Polonia la segue.
Photo by Jonathan Brinkhorst on Unsplash
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