Nessuno tocchi Storari

Nonostante il sarcasmo di certi giornali, “Il metodo Storari” è la dimostrazione che il sistema funziona, quando qualcuno ha il coraggio di applicarlo.

06.12.2025

Negli ultimi diciotto mesi, la Procura di Milano ha scoperchiato un vaso di Pandora che nessuno nel dorato mondo della moda italiana avrebbe voluto vedere. Opifici gestiti da imprenditori cinesi dove operai lavorano a ciclo continuo, h24, sette giorni su sette, Natale compreso, pagati 2,75 euro all’ora. Condizioni che il PM Paolo Storari ha definito di “para-schiavitù“: turni massacranti, paghe da fame, dormitori fatiscenti ricavati sopra i laboratori dove si producono capi destinati a essere venduti a centinaia di euro. Tutto questo non nei Paesi del Sud-Est asiatico che siamo abituati a immaginare, ma tra la Lombardia e le Marche, nel cuore pulsante del Made in Italy.

Da marzo 2024 a oggi, le inchieste coordinate dal sostituto procuratore Storari hanno portato all’amministrazione giudiziaria di Alviero Martini, Armani Operations, Manufacture Dior, Valentino Bags Lab e Loro Piana. L’ultimo caso, quello di Tod’s, ha segnato un’escalation: non più semplice agevolazione colposa, ma tre manager formalmente indagati per caporalato con l’accusa di aver agito nella piena consapevolezza delle condizioni di sfruttamento. Cinquantatré lavoratori cinesi trovati in sei opifici della filiera produttiva del gruppo marchigiano. La procura parla di “cecità intenzionale”: gli audit commissionati a società esterne segnalavano da anni gravi irregolarità, ma nessuno avrebbe mosso un dito.

Il "metodo" sbagliato

C’è qualcosa di grottesco nel modo in cui una certa stampa ha deciso di raccontare questa vicenda. Alcune testate, soprattutto quelle che godono di generose inserzioni pubblicitarie da parte dei grandi marchi del lusso, si sono affrettate a coniare l’espressione “metodo Storari“, con un’accezione vagamente dispregiativa. Come se il problema fosse il magistrato che indaga, e non il sistema che permette di produrre borse da cinquecento euro pagando gli operai due euro e mezzo l’ora.

Curioso, no? Non si legge mai delmetodo delle maison“: quel sistema consolidato fatto di filiere frammentate, subappalti a cascata, fornitori “critici” (sessantasette, secondo gli atti dell’inchiesta Tod’s) su cui nessuno vigila davvero. Un modello industriale che ha trasformato il caporalato in prassi, lo sfruttamento in vantaggio competitivo. Eppure, secondo alcuni commentatori, il vero scandalo sarebbe un PM che osa applicare l’articolo 603 bis del codice penale – la norma anti-caporalato – ai grandi brand, e non solo ai caporali di campagna.

La critica più ricorrente è che Storari “abusi” dei suoi poteri per fare un “utilizzo politico della giustizia”. Tradotto: come si permette di ritenere corresponsabili i committenti per ciò che accade nella loro filiera produttiva? Come osa pretendere che chi ordina migliaia di pezzi a prezzi stracciati si preoccupi delle condizioni di chi li produce? È un ragionamento che fa acqua da tutte le parti. Se un marchio commissiona la produzione di tomaie sapendo – o fingendo di non sapere – che quei prezzi sono incompatibili con il rispetto dei contratti collettivi e delle norme di sicurezza, sta di fatto autorizzando l’illegalità in modo implicito.

L'accorato appello e il soccorso governativo

Diego Della Valle, patron di Tod’s, ha reagito alle accuse con la delicatezza di un elefante in cristalleria. “Dire che c’è caporalato in gruppi come i nostri è una grossa stupidaggine” ha tuonato dal palco del convegno dei giovani imprenditori di Confindustria a Capri, moderato da un utilissimo David Parenzo. “Il caporalato riguarda un altro mondo, non noi. Non siamo quelle porcheriole”. Ha poi invitato Storari a visitare le sue aziende, “come fosse uno stage”, aggiungendo che “un po’ di modestia forse non guasta”. Parole che trasudano rispetto istituzionale.

Peccato che “quelle porcheriole” – per usare l’elegante espressione di Della Valle – siano esattamente ciò che la procura ha documentato: lavoratori pagati a cottimo, contributi versati per meno della metà del dovuto, materiale infiammabile accatastato, dormitori con dodici camere e due bagni in condizioni igieniche definite “degradanti”. Non negli uffici della casa madre a Casette d’Ete, ovviamente, ma negli opifici dei subappaltatori. Quelli che, secondo la difesa, Tod’s non avrebbe potuto controllare.

A raccogliere l’appello dell’imprenditore marchigiano ci ha pensato con solerzia il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Il giorno dopo le dichiarazioni di Della Valle, il ministro lo ha chiamato di persona, assicurandogli “l’impegno del Governo per tutelare la reputazione della moda italiana“. Nel giro di poche settimane è arrivato l’emendamento salvifico, subito ribattezzato “Salva Tod’s“: inserito nel disegno di legge sulle PMI, prevede che i brand della moda possano ottenere una “certificazione di filiera” da un ente terzo da loro stessi ingaggiato e retribuito. Una volta ottenuto questo bollino, le aziende sarebbero esonerate dalla responsabilità amministrativa per eventuali illeciti commessi dai loro fornitori e subfornitori.

“Dallo scudo fiscale per chi ha evaso siamo passati allo scudo penale per chi sfrutta” ha commentato Alessandro Genovesi della CGIL. I sindacati, peraltro, sono stati esclusi dall’incontro tra Urso e Confindustria Moda in cui si è discusso del provvedimento. La norma è passata al Senato ed è ora in discussione alla Camera. Se approvata in via definitiva, renderebbe di fatto inefficaci le inchieste come quelle condotte dalla Procura di Milano: basterà un foglio di carta firmato da un certificatore compiacente per mettersi al riparo.

Storari non si ferma

Mentre Governo e imprenditori si affannavano a costruire muri legislativi, il PM milanese ha proseguito imperterrito il suo lavoro. Nelle ultime ore è emerso che la procura ha chiesto a tredici grandi marchi del lusso di consegnare documenti relativi alle loro filiere produttive: Missoni, Dolce & Gabbana, Gucci, Prada, Versace, Saint Laurent, Adidas, Ferragamo, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Alexander McQueen e Off-White.

Non si tratta ancora di indagini formali sui marchi stessi, ma la procura parla di “condizioni di pesante sfruttamento” di manodopera cinese riscontrate in opifici che hanno lavorato per loro. I carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro hanno individuato lavoratori sfruttati nelle filiere di tutti i brand citati: nove nella filiera Missoni, nove per Off-White, undici per Adidas, altrettanti per Saint Laurent, trentasei per Dolce & Gabbana, ventisette per Ferragamo. In alcuni casi gli stessi lavoratori producevano per più marchi in contemporanea, negli stessi stabilimenti.

Ai tredici brand è stata chiesta la documentazione sui criteri di selezione dei fornitori, le prove delle ispezioni effettuate, i verbali degli organismi interni di vigilanza degli ultimi tre anni, le copie dei contratti con i fornitori, i bilanci. E, soprattutto, la lista dei dirigenti che si occupano dell’esternalizzazione della produzione. La “richiesta di consegna” è un atto che precede eventuali perquisizioni: un modo per dare alle aziende la possibilità di collaborare spontaneamente prima di procedere con misure più invasive.

È un approccio più morbido rispetto alle amministrazioni giudiziarie chieste nei mesi scorsi, forse una concessione alle polemiche delle ultime settimane. Ma il messaggio è chiaro: nonostante le pressioni della politica, gli attacchi degli imprenditori, l’informazione a lui avversa e i tentativi di delegittimazione, Storari non si è fatto intimidire. Mentre qualcuno lavorava allo “scudo penale”, lui allargava le indagini.

"Ha fatto più la Procura di Milano che il ministero del Lavoro"

Questa frase è apparsa (con tono ironico) sul Foglio, in uno dei molti articoli anti-Storari che il giornale ha prodotto negli scorsi mesi, fra i tanti che hanno definito – con grande ignoranza o forse solo incompetenza sui temi del lavoro – il lavoro di Storari una “crociata ideologica”.

In realtà è l’applicazione di una legge dello Stato – quella sul caporalato – a un settore che per troppo tempo si è ritenuto al di sopra di ogni controllo, con la compiacenza delle Associazioni di Categoria. A proposito di queste ultime: una in particolare, in preda a una rarissima patologia di MichaelBublite acuta, pare abbia dichiarato che “è inopportuno svolgere queste inchieste sotto Natale“.

Tornando all’ironia con cui Il Foglio ha descritto nel tempo le inchieste dei PM Milanesi, mai frase come “ha fatto più la procura di Milano che il ministero del Lavoro” è stata così vicina alla realtà. I risultati delle precedenti inchieste parlano chiaro: migliaia di lavoratori regolarizzati, filiere ripulite, aziende che hanno adottato modelli organizzativi più trasparenti. Armani, dopo il “percorso virtuoso” imposto dall’amministrazione giudiziaria, ha visto revocare il provvedimento. La dimostrazione che il sistema funziona, quando qualcuno ha il coraggio di applicarlo.

Se certi giornali italiani non sono capaci (o non possono permettersi) di essere obiettivi, c’è da dire che i buoi sono già scappati dalla stalla e il “modello fashion” ormai è sulla bocca dei più grandi giornali internazionali.

Il vero Made in Italy non è quello che si produce pagando gli operai una miseria in scantinati fatiscenti. È quello delle migliaia di aziende serie che rispettano i contratti, garantiscono condizioni di lavoro dignitose, investono in qualità e sicurezza. Sono loro le prime vittime del dumping praticato da chi sceglie la strada della concorrenza sleale. E sono loro che dovrebbero far sentire la propria voce contro chi, in nome della “tutela della reputazione”, vorrebbe di fatto legalizzare lo sfruttamento.

Nessuno intimidisca Storari. E nessuno si illuda che un bollino di carta possa cancellare la realtà di lavoratori trattati come schiavi nel cuore dell’Europa, a due passi dalle boutique scintillanti dove si vendono i frutti del loro lavoro.

Avanti, Storari.

 

 

 

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