Un referendum può salvare il lavoro?

La nostra analisi sulle tematiche referendarie di giugno: che impatto avrebbero su stabilità, sicurezza e salari? Che effetti hanno avuto le leggi che si propongono di abrogare? Massimo Bussandri, segretario CGIL Emilia-Romagna: “Un referendum contro la svalutazione del lavoro, dalla legge Biagi al Jobs Act”

15.05.2025
La campagna per il referendum dell'8 e 9 giugno 2025: ragazzi con dei cartelli colorati

“Oggi è un giorno atteso da molti anni, nel quale noi rottamiamo e superiamo un certo modello di diritto del lavoro. Allo stesso tempo superiamo l’articolo 18 e superiamo i co.co.co e i co.co.pro. I governi precedenti se la sono presa con i precari, noi ce la prendiamo con il precariato”. È il 2015, e a esprimersi in toni tanto trionfalistici è l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, all’indomani dell’approvazione del Jobs Act, la riforma del lavoro venduta al popolo italiano come la ricetta vincente per sconfiggere il precariato.

Oggi, a oltre dieci anni di distanza, a insinuare il dubbio che la fanfara fosse in malafede ci sono alcuni dei quesiti referendari sui quali siamo chiamati a esprimerci l’8 e il 9 giugno prossimi, che chiedono di modificare alcuni dei capisaldi di quella riforma. Si tratta del “contratto a tutele crescenti”, che ha eliminato la possibilità del reintegro in caso di licenziamento illegittimo, prevedendo solo un indennizzo economico; dei limiti massimi di risarcimento oggi previsti in caso di licenziamento senza giusta causa nelle piccole imprese (sottratti alla discrezionalità del giudice e fissati a 6.000 euro); della possibilità per i datori di lavoro di stipulare contratti a termine della durata massima di dodici mesi senza vincolarli a una motivazione precisa. Ma anche il quarto quesito in materia di lavoro, che non fa riferimento al Jobs Act, è legato alla liberalizzazione del mercato, ossia l’esonero della responsabilità delle aziende committenti in caso di incidenti sul lavoro negli appalti o subappalti.

Referendum 8 e 9 giugno: “Contrastare il Jobs Act per restituire dignità al lavoro”

I referendum chiedono di esprimersi a favore o contro l’abrogazione di queste specifiche norme. La convinzione dei promotori è che si tratti di grimaldelli sui quali si è spinto per smantellare in modo definitivo le tutele dei lavoratori in nome di una liberalizzazione del mercato del lavoro che, lungi dal risolvere il problema del precariato, lo ha invece cronicizzato moltiplicando il ricorso a forme contrattuali a termine, rendendo più ricattabili i lavoratori, abbassando i salari e le garanzie di sicurezza sui luoghi di lavoro.

Tra il 2015 e il 2024, secondo l’INPS, le assunzioni a tempo indeterminato sono calate quasi del 35%.

“Questo è un referendum contro punti fondamentali del Jobs Act, ma quella riforma rappresenta solo l’approdo di un processo di svalorizzazione del lavoro iniziato con la Legge Biagi del 2003, che ha moltiplicato le forme di lavoro atipico. La riforma di Renzi ha fatto passare del tutto l’idea che il lavoro si garantisca, abbassando le tutele dei lavoratori, e questa impostazione è stata raccolta e perpetuata anche dal Decreto Lavoro del Governo Meloni, con la liberalizzazione delle causali dei contratti a termine e stagionali”. Ce lo riferisce Massimo Bussandri, segretario generale della CGIL Emilia-Romagna.

“I referendum proposti dalla CGIL parlano al presente, ma anche al futuro, perché intervenendo su aspetti specifici della materia giuslavoristica, vogliono contrastare l’idea liberistica che ne è alla base, ossia che i diritti si possano estendere comprimendoli. È una visione miope, perché solo restituendo dignità al lavoro si può uscire dalla crisi industriale. La produttività si aumenta facendo sentire i lavoratori partecipi del processo produttivo, non persone da sfruttare per il profitto.”

Negli ultimi dieci anni, secondo i dati INPS, i contratti a tempo determinato sono cresciuti del 56,6%.

Lo sostiene anche il Fondo Monetario Internazionale che, in uno studio recente sulle conseguenze delle riforme del mercato del lavoro nel periodo 1985-2016, definisce “sconcertante” la debole crescita della produttività del lavoro nel nostro Paese, individuandone la responsabilità proprio nella diffusione di lavori atipici e precari, che riduce la spinta delle imprese a puntare sulla formazione soprattutto dei giovani, con conseguente riduzione dell’accumulazione di capitale umano.

Allora vediamolo, come è cambiato questo mondo del lavoro nell’ultimo decennio, partendo proprio dai dati sulla precarietà.

Come il lavoro è diventato precario

I dati sulla situazione del mercato del lavoro in Italia, raccolti sia dall’INPS che dall’ISTAT nelle loro rilevazioni periodiche relative all’occupazione, sono concordi nel fotografare una realtà molto distante dalle promesse renziane.

Cresce l’occupazione, ma a tutto vantaggio dei contratti precari, soprattutto a tempo determinato, quelli che la riforma Renzi avrebbe dovuto disincentivare a suon di liberalizzazione del mercato e di decontribuzioni per le aziende; ma anche stagionali, di somministrazione, a intermittenza. A dimostrazione del fatto che parcellizzare le forme contrattuali, spalmando la deprivazione di diritti, non è servita a garantire più lavoro buono, stabile, equamente remunerato per tutti, ma solo più profitti per le imprese.

Tra il 2015 e il 2024, secondo l’INPS, le assunzioni a tempo indeterminato sono calate quasi del 35%, mentre i contratti a tempo determinato sono cresciuti del 56,6%, una percentuale che sale al 58,6% se consideriamo anche le altre forme di contratti a termine, come quelli di apprendistato, stagionali, di somministrazione e intermittenti.

Secondo i dati dell’Osservatorio JobPricing, più di 5,7 milioni di persone percepiscono meno di 11.000 euro lordi all’anno, e oltre due milioni non arrivano ai 17.000.

E non è solo una questione di numeri. Se aumentano i lavoratori precari aumenta anche il numero di chi è costretto a fare più lavori contemporaneamente per arrivare a fine mese. Sempre l’ISTAT ci dice infatti che nel 2022 quasi il 20% dei lavoratori ha ricoperto più di una posizione, con un incremento di due punti percentuali rispetto all’anno precedente, e che oltre tre milioni di persone si trovano a dover svolgere più di un lavoro. Questo significa che, da una parte, molti lavoratori sono stati costretti a cambiare impiego di frequente, passando da un contratto all’altro senza garanzie di continuità e stabilità economica, e dall’altra che si adattano a svolgere più lavori per arrivare a un numero sufficiente di ore da retribuire, colmando le lacune create dalla ridotta offerta di lavoro stabile a tempo pieno.

Più flessibili, più poveri: l’effetto della precarietà sulle retribuzioni

Poi c’è il tema dei salari italiani, tra i più bassi d’Europa. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Italia è l’unico Paese del G20 in cui i salari reali – ossia quelli depurati dall’inflazione – sono diminuiti tra il 2008 e il 2024. E non di poco, perché il calo è stato dell’8,7%. Secondo i dati dell’Osservatorio JobPricing, più di 5,7 milioni di persone percepiscono meno di 11.000 euro lordi all’anno, e oltre due milioni non arrivano ai 17.000. Ciò significa che in Italia il lavoro non salva dalla miseria, tanto che, secondo Eurostat, un lavoratore italiano su quattro è a rischio povertà.

La grande diffusione dei contratti a termine e dei part time involontari, oltre che delle altre tipologie di lavoro parcellizzato, ha consentito la redistribuzione delle ore lavorate su un numero più alto di persone, con effetti tombali sui salari. Secondo le stime dei sindacati, negli ultimi vent’anni in Italia si sono persi due miliardi di ore lavorate, a sostanziale parità del numero di occupati.

“La precarietà del lavoro incide negativamente anche sulle retribuzioni, perché è uno strutturale gioco al ribasso” dice ancora Bussandri. “L’Italia è l’unico Paese europeo in cui dal 1990 i salari sono diminuiti. Per portare solo un esempio – quello dell’Emilia-Romagna, che rappresenta comunque una realtà ricca e produttiva del Paese – chi si trova in una condizione di piena occupazione, ossia lavora dodici mesi l’anno, otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana, rappresenta solo il 50% dei lavoratori, mentre il 30% non arriva ai mille euro netti al mese”.

Se gli appalti fanno sconti sulla sicurezza dei lavoratori

Ma la precarietà non toglie solo il lavoro: uccide. Il 16 febbraio 2024 cede una struttura portante in un cantiere per la costruzione di un supermercato: i morti sono cinque, tutti operai in appalto. Così come in subappalto sono i sette lavoratori annegati il 9 aprile 2024 a Suviana, durante i lavori di adeguamento della centrale idroelettrica. O i cinque saltati in aria il 9 dicembre scorso a Calenzano, mentre caricavano le autocisterne di gas del deposito dell’ENI.

“I quattro referendum sul lavoro sono di uguale importanza, ma quello relativo alla sicurezza li riassume politicamente tutti.”
Massimo Bussandri, segretario generale CGIL Emilia-Romagna

In Italia i numeri parlano chiaro, ed è come un bollettino di guerra: circa 142.800 infortuni solo nel primo trimestre 2025, con quelli mortali cresciuti del 9,9% rispetto allo stesso periodo del 2024 – anno che, lo ricordiamo, si è concluso con un bilancio di 1.041 decessi e un incremento di oltre il 4% rispetto all’anno precedente. Se è vero che la piaga degli infortuni sul lavoro, di frequente mortali, colpisce in modo trasversale tutti i settori produttivi, è anche vero che la criticità aumenta là dove prolifera il ricorso ad appalti e subappalti, e che la maggioranza dei decessi riguarda lavoratori precari e avviene in piccole imprese, in subappalto per definizione.

Ogni volta che si affida un lavoro a ditte esterne, terze, si abbassa il suo costo, con un risparmio che viene scaricato sul lavoratore. Senza tenere conto della logica del massimo ribasso per farsi assegnare le commesse, che può favorire il ricorso ad appaltatori non in regola con le norme antinfortunistiche. Dunque, la sicurezza passa anche dalla responsabilità: estenderla anche alle imprese committenti significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro, non permettendo loro di ignorare ciò che potrebbe succedere quando le norme non vengono rispettate.

“I quattro referendum sul lavoro sono di uguale importanza, ma quello relativo alla sicurezza li riassume politicamente tutti,” spiega Bussandri. “Il fatto che in Italia più tre persone al giorno muoiano lavorando ci parla del livello di svilimento del lavoro cui si è arrivati nel nostro Paese. I numeri sugli infortuni si spiegano non solo con la mancanza di formazione, controlli e finanziamenti per la sicurezza, ma anche con un modello di sviluppo che precarizza il lavoro a favore del profitto. Non è un caso che le vittime siano soprattutto lavoratori di piccole aziende, precari e ricattabili. La sicurezza sui luoghi di lavoro passa prima di tutto dal lavoro stabile”.

È allora la dignità a essere chiamata in causa da questi referendum. La dignità di avere un lavoro che garantisca stabilità, sostentamento, realizzazione personale. E la dignità, ancora prima, di non morire di lavoro.

 

 

 

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Photo credits: cgil.it

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