Torniamo alla presentazione di AppLI e alle sue funzioni fondamentali – ascoltare, orientare, accompagnare e avvicinare al lavoro. Quattro verbi che tendenzialmente suonano bene, ma che rischiano di nascondere limiti reali: l’accesso richiede SPID o CIE, un’esclusione implicita per chi ha difficoltà digitali o burocratiche; i percorsi formativi sono suggerimenti, non garanzie; il contatto con i servizi pubblici non è diretto, dipende dall’iniziativa del singolo. Come abbiamo capito attraverso le interviste di persone iscritte ai CPI, il lato umano non è un fattore da sottovalutare, soprattutto perché spesso sono persone deluse e disilluse.
La ministra Marina Calderone lo definisce uno strumento “nato con i giovani e per i giovani”, ma AppLI può essere un compagno digitale che funziona soltanto se il sistema che lo ospita – Centri per l’Impiego, rete territoriale, incentivi – è già efficiente. E sappiamo che al momento non è così.
C’è da considerare anche un fattore rilevante: i divari educativi stanno aumentando e alimentando la percentuale di NEET. Al contrario di quanto si può pensare, le aree rurali contengono un tasso inferiore di neet rispetto alle aree metropolitane (dati Eurostat), ma non va sottovalutato anche lo spopolamento dei paesi, che potrebbe alterare questo fenomeno. Un dato che restituisce realtà alla situazione attuale è quello delle città che contengono il maggior numero di non occupati e non in formazione: Catania, Palermo e Napoli formano il podio di questa situazione non incoraggiante. In generale, il Sud Italia detiene la percentuale più alta di NEET nel Paese, con la regione Sicilia che si colloca ben oltre la media nazionale.
Laura Ressa, operatrice per le politiche attive del lavoro con un’esperienza pregressa nei centri per l’impiego, ha evidenziato che, se AppLI promette di ridurre il mismatch di competenze, c’è anche da considerare che “un chatbot, così come qualsiasi altro strumento tecnologico o di IA, non può risolvere un problema strutturale. E il motivo è semplice: un chatbot è appunto un mezzo che esegue quello che noi lo istruiamo a fare” spiega, e aggiunge: “Come altri strumenti IA, e non solo, esso è utile nella misura in cui chi lo utilizza sa cosa sta maneggiando, ne conosce rischi, limiti e potenzialità, sa cosa vuole farne e a cosa può davvero servirgli, e lo utilizza in modo etico”.
Per Ressa c’è bisogno che chi ha il potere di risolvere i problemi strutturali lo faccia attraverso leggi a favore dei lavoratori, in modo che le aziende non considerino la forza lavoro solo utile al profitto. Sottolinea come la tecnologia venga usata dall’uomo ancora per sostituire, e non per facilitare delle azioni faticose che esauriscono le energie dei lavoratori. A suo avviso serve un cambiamento culturale, prima ancora di un progresso tecnologico. Non è scettica a priori sull’utilizzo dell’IA: anche un lavoratore umano è in grado di sbagliare, tanto quanto la macchina. Il punto per lei è un altro: va ripensato il nostro sistema di benessere all’interno della società, e questo lo si risolve soltanto attraverso un lavoro dignitoso (e quindi non volto solo al risparmio di denaro) e con ammortizzatori sociali.
C’è poi un discorso di empatia. “Il mio parere, per la mia particolare esperienza e per quello che ho potuto intercettare finora dai racconti delle persone, è che le persone hanno bisogno di essere ascoltate” osserva. Questo per Ressa non vuol dire che l’IA non possa farlo bene, ma apre a una riflessione importante: se ciò dovesse verificarsi, succederà che molleremo gli ormeggi proprio sulle attività a più alto valore aggiunto e a maggior coinvolgimento umano, con il risultato che il lavoratore continuerà a impiegare il tempo in attività a basso coinvolgimento intellettivo.
In ultimo, essendo i NEET soggetti appartenenti a contesti sociali fragili, più che delle competenze digitali, per Ressa ci sarebbe bisogno di acquisire la capacità di osservare con occhio critico la realtà.