Niente visto, siamo inglesi

Nuova tegola per i lavoratori stranieri nel Regno Unito: Nigel Farage, a capo del partito ultraconservatore Reform UK, propone di cancellare i visti in modo retroattivo. Un’idea irrealizzabile, che tuttavia lascia intravedere un’ulteriore svolta xenofoba e classista trasversale nella politica inglese

18.11.2025
Brutte notizie per i lavoratori stranieri in UK: Nigel Farage propone di cancellare i visti retroattivamente

Fino a non molto tempo fa, fra i trapiantati nel Regno Unito come me, dire di avere ottenuto il Settlement Status suscitava più o meno la stessa invidia di chi annuncia di aver vinto alla lotteria o di aver ereditato una villa da un parente sconosciuto. Introdotto nel 1971, il Settlement Status – o Indefinite Leave to Remain (ILR) – garantisce ai lavoratori stranieri il diritto di restare nel Regno Unito dopo cinque anni di residenza continuativa. Dal 2016, con il referendum sulla Brexit, lo status è stato esteso anche ai cittadini europei, venendo meno il principio di libera circolazione sancito dall’UE.

Ricevere l’ILR è quindi da anni una delle massime ambizioni di chi vive e lavora nel Regno Unito, perché consente di restare senza limiti di tempo e, in seguito, di accedere alla cittadinanza – cosa tutt’altro che semplice nel panorama post-Brexit.

Ma il mese scorso Nigel Farage, leader del partito di estrema destra Reform UK, ha scosso le fondamenta di questa certezza, minacciando, se eletto alle prossime elezioni, di revocare l’ILR in modo retroattivo. Una proposta che, oltre a togliere il sonno a me e ad altri 4,5 milioni di stranieri che ne godono e che pensavano di non doversi più preoccupare per il loro visto, ha sollevato un allarme democratico: rimuovere un diritto già acquisito violerebbe il principio di legittima aspettativa, cardine del diritto britannico.

La mossa di Farage ha sentori in netto contrasto con i valori della democrazia inglese, se non totalitari. Che si tratti poi solo di una provocazione o di una proposta seria, è un tema che sta occupando il dibattito politico da settimane. Ma il solo fatto che un membro del parlamento, leader di un partito in crescita vertiginosa e favorito per le prossime elezioni amministrative, possa anche solo pronunciare una minaccia – perché di questo si tratta – di tal genere, dovrebbe preoccuparci tutti, stranieri o no. Ecco perché.

Che cosa è successo al Regno Unito (e a chi ci lavora) dalla Brexit a oggi

Lasciatemi prima fare una veloce ricapitolazione del ciclone che ha travolto il Regno Unito dopo il famoso, o famigerato, referendum sulla Brexit.

David Cameron, che aveva chiamato il referendum, lasciò il posto a Theresa May, che cercò, senza grandi successi, di gestire la situazione, fino a essere poi sostituita da Boris Johnson. Johnson ora viene accusato dallo stesso Farage – che aveva orchestrato, insieme ad altri, l’aggressiva e fuorviante campagna dietro la Brexit – di aver adottato politiche migratorie troppo permissive dal 2019 al 2021.

È in questo contesto che nasce il termine “Boris Wave”, neologismo che Farage ha rubato dai forum di estrema destra e che usa per indicare l’ondata di immigrati giunti nel Paese prima della chiusura delle frontiere nel 2020. Tantissimi stranieri, specie europei, hanno infatti visto l’arco temporale tra il 2016 e il 2020 come l’ultima occasione per stabilirsi in UK, e hanno quindi colto la palla al balzo.

I cittadini europei residenti in UK prima del 31 dicembre 2020 hanno potuto richiedere l’ILR. Chi invece è arrivato dopo deve ottenere un visto Skilled Worker Visa, vincolato a un’offerta da parte di un datore di lavoro con licenza di sponsorizzazione, che attesta un’occupazione qualificata e una retribuzione minima di £41.700 – ben sopra la media nazionale.

Restare in UK è “una truffa” per i lavoratori

Lo Skilled Worker Visa è una truffa” mi dice Xinni, originaria della Repubblica Ceca, che da poco ha dovuto lasciare il Regno Unito per tornare a Praga, dopo aver studiato e lavorato nel Paese per tre anni. “Sembra che tu debba essere un raccomandato o avere un talento eccezionale e indispensabile per ottenerlo”.

Xinni lavora nel settore tech e, dopo aver frequentato un master nel Regno Unito, ha iniziato a lavorare per una compagnia in questo campo. La pandemia ha però portato la sua azienda a licenziare grosse fette di personale, lei compresa. I seguenti anni li ha passati a cercare un lavoro che la sponsorizzasse, permettendole quindi di rimanere nel Paese. Senza successo.

Il sistema è profondamente ingiusto: se il criterio per ottenere il visto è il salario, si parte già svantaggiati. Servono anni di esperienza, contatti, e una nicchia. Per un neolaureato è impossibile.”

Sponsorizzare un lavoratore straniero infatti costa caro anche ai datori: tra licenze, certificati e imposte, la spesa varia da £2.000 a £5.000 per tre anni, secondo quanto previsto dall’Immigration Act 2014 e 2016 e dalle Immigration Rules. E Xinni non è la sola a pensarla così.

Nik ora vive in Olanda, ma ha frequentato un master in Inghilterra, dove si è trasferito dal suo Paese natale, la Slovenia. Lì ha studiato finanza, uno dei settori considerati più proficui e sicuri dal punto di vista dell’assumibilità.

“Oltre al fatto che il numero di posti nel settore (nella City) si è ridotto negli ultimi due anni – soprattutto per i neolaureati – le selezioni sono durissime” mi dice, raccontando il periodo successivo alla laurea, prima che decidesse di lasciare il Paese e cercare lavoro altrove. “Anche se provengo da un’università prestigiosa, con una laurea di primo livello e un visto per neolaureati, è stato impossibile ottenere qualcosa. Le società di investimento a cui ho fatto domanda mi hanno detto con chiarezza che non potevano assumermi per via della situazione che si sarebbe creata due anni dopo, una volta scaduto il mio visto, quando non avrebbero potuto tenermi”.

Il motivo? “Sostengono di voler evitare problemi futuri, in cui non riuscirebbero a dimostrare alla propria direzione o al consiglio di amministrazione che io, come candidato giovane, meriti più di un candidato britannico o con pre-Settled Status, giustificando così il pagamento di una tassa aggiuntiva per sponsorizzare il mio visto — che di fatto aumenterebbe il mio costo salariale di oltre il 20%”.

Dai deliri di Farage alla rigidità di Starmer

Se si ha la fortuna di trovare un datore di lavoro che, una volta scaduto il visto per neolaureati della durata di due anni, abbia intenzione di accollarsi tali costi aggiuntivi e sponsorizzare il lavoratore, dopo cinque anni si può richiedere l’ILR, che prevede test di lingua e conoscenza della vita britannica.

Il governo di Keir Starmer ha però proposto di raddoppiare il periodo di residenza a dieci anni e introdurre nuovi criteri, come laurea obbligatoria e attività di volontariato, irrigidendo ulteriormente il percorso. Nel frattempo, ieri è stato annunciato un pacchetto di cambiamenti alle leggi immigratorie che il governo ha definito “il più grande della storia moderna”; tra le altre cose, richiederà ai rifugiati e ai richiedenti asilo di risiedere nel Paese per vent’anni prima di poter richiedere l’Indefinite Leave to Remain. Una misura volta a scoraggiare l’immigrazione irregolare, che però lascerà migliaia di rifugiati in uno stato di incertezza ancora più prolungato, con accesso limitato all’impiego, agli alloggi e al ricongiungimento famigliare.

Farage, intanto, continua a cavalcare la retorica del “reset migratorio”, accusando chi possiede l’ILR di aver “tradito la democrazia britannica”. Propone di abolire lo status permanente e sostituirlo con visti di cinque anni rinnovabili, riservati a chi guadagna al di sopra di £60,000. Nella sua prospettiva, questo viene giustificato dal fatto che tali individui sono lavoratori che si possono permettere assistenza privata, e non graverebbero sul sistema di welfare, che – ironicamente – si sorregge su immigrati di prima o seconda generazione.

Basti pensare che nel 2018-19 le persone nate all’estero erano quasi il 20% dei lavoratori del settore assistenziale, che arrivava al 23% negli ospedali. Il 17% degli assistenti sociali erano stranieri, ma il dato si alza fino al 40% nella capitale, Londra.

Tempi ancora più cupi per i lavoratori stranieri in UK

Intervistato da Laura Kuenssberg per la BBC, il primo ministro Keir Starmer ha definito la proposta di Farage di revocare l’ILR “razzista e immorale”. Starmer, che è un avvocato di professione, sa benissimo che dal punto di vista giuridico l’idea di Farage è irrealizzabile. Revocare in modo retroattivo un diritto già acquisito violerebbe il principio di legittima aspettativa, tutelato dalla giurisprudenza britannica e dal diritto europeo ancora recepito nel sistema.

Chi ha ottenuto l’ILR ha costruito la propria vita, casa, lavoro e famiglia nel Regno Unito sulla base di una promessa legale. C’è chi ha studiato, comprato casa, aperto un’attività economica, o addirittura avuto figli, che magari hanno solo la cittadinanza inglese, essendo che non tutti i Paesi danno la cittadinanza per discendenza o concedono ai propri cittadini di avere un doppio passaporto.

Revocare l’ILR a queste persone sarebbe come riscrivere le regole del gioco a partita finita, ed è difficile pensare che un tribunale possa approvare una tale riforma. Ma, sebbene debole dal punto di vista giuridico, la proposta fa paura perché normalizza l’idea che anche i diritti più stabili possano essere messi in discussione per guadagnare qualche elettore.

Se prima ottenere il Settled Status era un traguardo di integrazione, oggi ilBritish Dreamsembra svanire dietro un muro di burocrazia, punteggi e salari minimi.

Quando le chiedo se sceglierebbe di nuovo di trasferirsi nel Regno Unito, Xinni si commuove. “Me lo chiedo sempre. Ho amato la mia esperienza a Londra. Ma trasferirsi nel Regno Unito oggi è finanziariamente irresponsabile. È stato un periodo turbolento, mi ha tolto fiducia e mi ha fatto perdere anni di carriera. Non lo consiglierei a nessuno, a meno che non si voglia solo vivere un’esperienza culturale e godersi la città per un periodo. Ma non se si spera di costruire lì una carriera. Oggi, no”.

Se l’impero coloniale diventa xenofobo

Da Paese delle opportunità, il Regno Unito si sta trasformando in una fortezza amministrativa dove il valore delle persone si misura in punti, redditi e, inevitabilmente, colore della pelle e accento. E anche se Farage con tutta probabilità non potrà cancellare l’ILR, la sua retorica ha già fatto danni: l’Inghilterra non costituisce più il sogno di un tempo, ma un miraggio sempre più lontano per chi ancora guarda oltre la Manica in cerca di futuro.

Le nuove politiche mettono in atto un sistema su livelli, divisi e definiti dai salari recepiti, dal settore in cui si lavora e dall’istruzione.

Un sistema che stride fortemente con la storia di immigrazione del Paese, tempo fa un impero che si è sorretto per secoli sulle spalle di lavoratori immigrati, i quali, oggi, verrebbero classificati come “low skilled workers”, senza la concessione di alcun visto.

Un sistema che stanno cercando di vendere come più meritocratico, ma che chiunque dotato di spirito critico avrà la lucidità di riconoscere come xenofobo e, soprattutto, classista.

 

 

 

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Photo credits: la foto in copertina proviene dalla pagina Facebook di Nigel Farage

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