Un esempio emblematico riguarda il MUSE, il museo delle scienze di Trento, uno dei più importanti d’Italia nella sua categoria, che alloggia in una struttura futuristica e non di semplice gestione progettata da Renzo Piano. La testimonianza di quattro lavoratori ha portato alla nostra attenzione le difficili condizioni professionali presenti all’interno della struttura museale.
L’assenza di una visione strategica e di adeguate risorse umane all’interno del museo trentino ha generato un clima di frustrazione e demotivazione, compromettendo la qualità del servizio offerto al pubblico.
Francesca (nome di fantasia), che ha lavorato come guida al MUSE anche durante la pandemia, contribuendo a mantenere attivo il museo e la sua offerta culturale nonostante le restrizioni e le difficoltà, ricorda quel periodo come davvero estenuante.
“Siamo stati letteralmente lanciati in mezzo a gruppi abbastanza numerosi di persone (fino a 20) da gestire con nessuna o pochissima esperienza di visite guidate, per trasmettere contenuti scientifici a 360° per sei piani in sole due ore.”
Gestire i gruppi risultava piuttosto impegnativo, in quanto le visite partivano prima ogni quindici minuti, per un totale di quattro visite in un’ora; poi hanno ridotto i tempi, facendo partire una visita ogni dieci minuti, dovendo gestire gruppi numerosi, tenendoli lontani tra loro, ma vicini, affinché sentissero bene e non andassero in giro per il museo.
“In più, – prosegue – capitava spesso di dover fare due o tre visite a distanza di quindici minuti l’una dall’altra, per cui anche il minimo ritardo significava perdere quei pochi minuti per riprendere letteralmente fiato, oltre che uno sforzo non indifferente a livello fisico (per via della mascherina) e mentale.”
Una situazione che non è mai tornata alla normalità, perché una normalità vera e propria non esiste.
Allegra, un’altra guida che ha lavorato al MUSE dopo la pandemia, ci ha raccontato che non esisteva una giornata tipica nel lavoro in museo e che i turni erano molto variabili: un turno poteva durare due come sei ore, o anche di più di tredici ore (considerando i serali, mai pagati come straordinari).
“Il più delle volte il turno di sei ore non era continuativo. Funzionava così: un’ora e mezza la mattina, poi pausa non retribuita fino all’ora di pranzo, senza agevolazioni per il pranzo che era a carico nostro, poi un turno di due ore dopo pranzo, e magari dopo altre tre ore di ore di buco non retribuite, fino a fine turno. In pratica, per sei ore retribuite e sottopagate, uno veniva impegnato per l’intera giornata e gli orari rendevano impossibile la coesistenza con un secondo lavoro per mantenersi in condizioni di vita più decenti.”