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I musei esibiscono il precariato: il caso del MUSE di Trento
La cultura non paga, anzi sfrutta. Uno dei più importanti musei scientifici d’Italia è al centro di numerose controversie da parte dei dipendenti: turni impossibili, stipendi vergognosi e abuso di lavoratori con formazione di alto profilo. Abbiamo raccolto le testimonianze di quattro di loro
Questo articolo fa parte del reportage Gioventù Sfruttata, che verrà pubblicato nel corso delle prossime settimane su SenzaFiltro: realizzato da giovani giornaliste e giornalisti, fa il punto sullo sfruttamento dei professionisti che si affacciano in diversi settori del mondo del lavoro, dagli Ordini professionali alla gig economy, passando per i social media.
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All’inizio dell’anno molti giornali mostravano gli strabilianti numeri delle aperture museali straordinarie durante le feste. Per il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano l’iniziativa è stata un successo, ma secondo alcune organizzazioni, tra cui l’associazione culturale Mi Riconosci – che con l’aiuto di sindacati, lavoratori e follower hanno ricostruito i dati degli accessi – i numeri non tornano.
Ma c’è di più: la questione ha evidenziato come le condizioni dei lavoratori museali sono allarmanti, e non solo nei giorni di festa. Nelle pieghe del sistema museale italiano si annidano, infatti, criticità che destano preoccupazione: carenze gestionali, condizioni lavorative precarie e sfruttamento minano il benessere dei lavoratori.
Il prezzo delle aperture (stra)ordinarie dei musei
La questione delle aperture straordinarie in particolare è significativa perché riflette la condizione precaria dei lavoratori museali.
L’articolo 36 della Costituzione italiana stabilisce che il lavoro subordinato deve avere “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ma il lavoro non pagato, o sottopagato, è una prassi piuttosto diffusa nei grandi e piccoli musei italiani.
Dietro le quinte della bellezza e della cultura, i musei nascondono un’inquietante realtà fatta di disagi e precariato. I problemi principali riguardano la gestione inefficiente e le carenze organizzative che gravano sul personale museale, con turni che minano la salute e il benessere dei lavoratori.
È bene chiarire che si tratta di problemi endemici al sistema museale, diffusi in tutta Italia, da Nord a Sud: turni non rispettati, contratti di guardiania stipulati in luogo di quelli di settore, gestioni paternalistiche del personale. E paghe che, nel peggiore dei casi, arrivano a 5 o 4 euro lordi, anche se riguardano personale che nei fatti garantisce le aperture e il funzionamento dei musei.
Portare alla luce queste dinamiche è necessario. La raccolta di queste testimonianze non è volta a screditare alcuna associazione o museo, ma è finalizzata a migliorare il settore museale italiano e a tutelare il benessere di chi vi opera.
Malagestione e turni sfiancanti: il caso del MUSE di Trento
Un esempio emblematico riguarda il MUSE, il museo delle scienze di Trento, uno dei più importanti d’Italia nella sua categoria, che alloggia in una struttura futuristica e non di semplice gestione progettata da Renzo Piano. La testimonianza di quattro lavoratori ha portato alla nostra attenzione le difficili condizioni professionali presenti all’interno della struttura museale.
L’assenza di una visione strategica e di adeguate risorse umane all’interno del museo trentino ha generato un clima di frustrazione e demotivazione, compromettendo la qualità del servizio offerto al pubblico.
Francesca (nome di fantasia), che ha lavorato come guida al MUSE anche durante la pandemia, contribuendo a mantenere attivo il museo e la sua offerta culturale nonostante le restrizioni e le difficoltà, ricorda quel periodo come davvero estenuante.
“Siamo stati letteralmente lanciati in mezzo a gruppi abbastanza numerosi di persone (fino a 20) da gestire con nessuna o pochissima esperienza di visite guidate, per trasmettere contenuti scientifici a 360° per sei piani in sole due ore.”
Gestire i gruppi risultava piuttosto impegnativo, in quanto le visite partivano prima ogni quindici minuti, per un totale di quattro visite in un’ora; poi hanno ridotto i tempi, facendo partire una visita ogni dieci minuti, dovendo gestire gruppi numerosi, tenendoli lontani tra loro, ma vicini, affinché sentissero bene e non andassero in giro per il museo.
“In più, – prosegue – capitava spesso di dover fare due o tre visite a distanza di quindici minuti l’una dall’altra, per cui anche il minimo ritardo significava perdere quei pochi minuti per riprendere letteralmente fiato, oltre che uno sforzo non indifferente a livello fisico (per via della mascherina) e mentale.”
Una situazione che non è mai tornata alla normalità, perché una normalità vera e propria non esiste.
Allegra, un’altra guida che ha lavorato al MUSE dopo la pandemia, ci ha raccontato che non esisteva una giornata tipica nel lavoro in museo e che i turni erano molto variabili: un turno poteva durare due come sei ore, o anche di più di tredici ore (considerando i serali, mai pagati come straordinari).
“Il più delle volte il turno di sei ore non era continuativo. Funzionava così: un’ora e mezza la mattina, poi pausa non retribuita fino all’ora di pranzo, senza agevolazioni per il pranzo che era a carico nostro, poi un turno di due ore dopo pranzo, e magari dopo altre tre ore di ore di buco non retribuite, fino a fine turno. In pratica, per sei ore retribuite e sottopagate, uno veniva impegnato per l’intera giornata e gli orari rendevano impossibile la coesistenza con un secondo lavoro per mantenersi in condizioni di vita più decenti.”
“Cambi o aggiunte di turni dalla sera alla mattina”
Francesca racconta che in alcune settimane estive le è capitato di lavorare anche fino a 25 ore in più rispetto al suo monte ore settimanale.
“Venivo contattata per cambi o aggiunte di turni a qualsiasi ora del giorno. Una volta ho ricevuto dei messaggi alle 22 di un martedì dove mi si chiedeva la disponibilità per coprire una visita guidata alle 9 del mattino seguente (le visite guidate con le scuole possono iniziare anche prima dell’orario di apertura al pubblico). Rispondo dando la mia disponibilità e non ricevo più notizie fino alla mattina seguente, in cui mi dicono di aver risolto in altro modo, mentre io mi stavo già dirigendo in museo.”
Un sistema confusionario che le creava frustrazione, non permettendole di staccare:
“Ricordo un altro episodio – prosegue Francesca – in cui mi sono mostrata più restia ad accettare l’ennesimo cambio di turno e mi è stato detto in un messaggio vocale, cito testualmente: ‘Dai, se mi fai questo turno ti offro un caffè’. Per me è stato il momento più basso di tutto il periodo lavorativo al MUSE.”
Da 18 ore dichiarate a 30 effettive: come il museo mangiava giornate intere ai dipendenti
Il precariato dilagante, con contratti atipici e salari inadeguati, rende il lavoro nei musei un’incognita, spingendo molti talenti ad abbandonare il settore. Le retribuzioni basse non garantiscono dignità e stabilità ai lavoratori, favorendo turnover elevato e carenza di professionalità.
Ilaria ha lavorato come guida al MUSE per circa due anni e ci ha raccontato come funzionava la reperibilità il fine settimana: “Per il sabato e la domenica ci veniva chiesto di essere attivi dalle 7 alle 9, orari in cui potevamo essere chiamati a sostituire un collega assente. La reperibilità aveva una retribuzione di 3,15 €”.
Francesca racconta che uno dei principali argomenti di cui i lavoratori si lamentavano nel periodo ancora considerato pandemia riguardava il fatto che, chi aveva un contratto a 18 ore settimanali, “in realtà passava in museo più di 30 ore a settimana (weekend compresi)”.
Più avanti aveva sperimentato il periodo delle fasce orarie, che aveva l’obiettivo di garantire a tutti i lavoratori la certezza dei propri giorni liberi, modulando le fasce in base al monte orario settimanale: “Nel mio caso, pur avendo un contratto da 24 ore settimanali, mi vennero assegnate fasce orarie da 36 ore”.
Ciò si traduceva in lunghe giornate in museo, spesso intervallate da ore di inattività non retribuite. Francesca passava l’intera giornata lavorativa in sede, per poi svolgere effettivamente solo quattro ore di lavoro, con la retribuzione corrispondente.
“La situazione mi insospettì quando, parlando con una collega con lo stesso monte ore (24 settimanali), scoprii che lei lavorava solo due giorni interi a settimana. A quel punto feci presente la discrepanza al coordinamento, che ammise di aver commesso un errore. Come ‘risarcimento’ per il disguido mi venne promessa una settimana libera. Tuttavia, questa promessa non fu mai mantenuta”.
Il museo prende tutte le prenotazioni, e i lavoratori devono adattarsi: lo “stallo alla messicana” del MUSE
Il turnover alto non riguardava solo le persone che lavoravano al MUSE, ma anche chi gestiva i turni, una cooperativa esterna il cui coordinamento era più instabile dei turni stessi: “Il personale cambiava anche con una frequenza trimestrale” come spiega Allegra.
Il vero problema non era il coordinamento che organizza i turni, ma il museo che prende le prenotazioni. “Le suddette prenotazioni vengono tutte accettate, senza considerare gli orari dei dipendenti (e delle guide), i loro giorni liberi o l’esistenza della pausa pranzo” prosegue Allegra. “Il coordinamento si barcamena tra queste prenotazioni, e di conseguenza i turni sono ridicoli, al limite della sopportazione, senza pause nemmeno per andare in bagno. Dico per forza perché, essendo un appalto, se il coordinamento non soddisfa le prenotazioni prende una multa salatissima”.
Come conferma Aldo (nome di fantasia), che ha lavorato nel coordinamento per quasi un anno, “le attività sono ‘prenotabili senza limite’; cioè, a discapito della cooperativa, se non ho operatori per coprire le attività, o ci si organizza nella formazione repentina di qualcuno, o si trova un accordo con il museo cambiando l’orario dell’attività, altrimenti il museo può procedere per mora sia per attività non svolta che per cambio attività”.
“La mala gestione della turnistica derivava spesso dalla grande quantità di attività richieste e prese in carico dal museo, e il poco personale formato a disposizione per erogarle” conferma Ilaria. “In momenti particolarmente critici la turnistica arrivava a coprire solo una parte della settimana, e veniva comunicata all’inizio della settimana stessa, non con l’anticipo (massimo cinque giorni prima) garantito da contratto. Nei periodi di minore affluenza, invece, la turnistica veniva consegnata con un anticipo di anche dieci giorni, che permetteva a chi aveva un altro lavoro di organizzarsi al meglio”.
C’è sempre stato un rimbalzo di colpe e responsabilità che ha rimandato una concreta riorganizzazione del personale all’interno del museo: “La questione mi è sembrata essere sempre in una fase di stallo alla messicana” prosegue Ilaria. “Sono stati indetti concorsi pubblici per stabilizzare 30 posti all’interno dell’organico, ma nessuno riguardava la figura del divulgatore/animatore/educatore museale. Soltanto otto concorsi (uno per ogni area di specializzazione) potevano essere equiparabili al nostro lavoro, comprendendo anche la progettazione delle attività, ma a fronte di 33 pilot/coach che lavoravano nelle sale ci è sembrato soltanto una magrissima consolazione”.
Difficile lavorare così, anche per chi, come Aldo, si occupava dei turni: “Quando eravamo in tre in ufficio, era un lavoro tranquillo. Da solo, nella gestione della reperibilità, era ossessivo. Non ci si poteva nemmeno ammalare. Il mio contratto era pari a quello dei pilot/coach, cioè non avevo una responsabilità retribuita”.
Costretti a contrattare per i permessi: “Se fai questo turno te lo concedo”
“Aldo era forse l’unico empatico del coordinamento che ho incontrato. Riusciva davvero a comunicare con noi operatori e a capire le nostre esigenze e problemi”, spiega Francesca. “Purtroppo la sua permanenza nel settore coordinamento è stata breve, in quanto il lavoro era insostenibile. Ricordo di averlo incontrato dopo un suo periodo di assenza e di averlo trovato smagrito e provato dall’esperienza. Mi ha comunicato in quell’occasione che sarebbe andato via, perché non riusciva a lavorare in quelle condizioni”.
Allegra ci ha parlato anche di qualche assemblea sindacale fatta davanti al museo, per chiedere maggiori diritti: “Di non fare sparire le ferie dal nulla dalla busta paga, per chiedere che venisse annullata la banca ore negativa (del tutto fuori legge e mai regolamentata tra sindacato e cooperativa e museo). Una mobilitazione necessaria a non costringerci a licenziarci da un lavoro che era prima di tutto passione finiva poi a suon di minacce la mattina dopo”.
Un ambiente di cultura, di inclusione, di progressione sociale che nasconde i disagi sotto il tappeto. “Esaurimenti, attacchi di panico, pianti prima di fare le attività, questo è ciò che nasconde. E licenziamenti forzati: chi fa la guida lì dentro non vorrebbe mai licenziarsi, ma deve farlo per vivere e avere una vita normale. Il museo parla di Family audit? Come si fa a fare la mamma o il papà se non si sa che turni si hanno il giorno dopo? Con uno stipendio da fame? È un vero specchio per le allodole. Tante mie colleghe hanno dovuto licenziarsi per diventare mamme, perché altrimenti era impossibile” spiega Allegra.
“Se accetti questi turni ti accetto le ferie, altrimenti sarai costretta a non fare le ferie” si è sentita dire Allegra. Anche Francesca ci rivela che ci sono state situazioni in cui si è sentita quasi ricattata: “Molto spesso mi veniva chiesto di coprire un turno extra o fermarmi di più in museo, e in molte occasioni la richiesta era seguita da frasi tipo ‘se lo fai, poi ti accetto quei permessi che avevi chiesto’. Si trattava di permessi previsti dalla legge 104, potevo usufruire di tre giorni al mese che spesso legavo all’unico weekend libero del mese per tornare a casa, anche per un’organizzazione personale del viaggio in aereo; non erano mai richieste improvvisate”.
Lo ripetiamo: il MUSE di Trento è “solo” un brutto esempio di un quadro compromesso a livello nazionale. Una rappresentazione che è tanto più inaccettabile, se riferita a un Paese che si definisce una superpotenza della cultura, ma che quella cultura non è in grado di tutelarla in ambito lavorativo.
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