Ammalarsi per assistere: caregiver senza tutele, lo Stato li sfrutta e li ignora

I caregiver familiari suppliscono alla mancanza di servizi di assistenza: sono fonte di risparmio per lo Stato e colonne portanti nella gestione di malati e disabili. Ma nessuno li tutela in caso di malattia, e sono spesso costretti a lasciare il lavoro. L’esperienza delle caregiver Serena Monti e Marula Furlan.

Le mura domestiche, complice la pandemia, sono diventate ormai un luogo di lavoro a tutti gli effetti, ma c’è chi vive questo tipo di situazione da ben prima del COVID-19: parliamo dei e soprattutto delle caregiver familiari, ossia chi presta assistenza familiare.

I e le caregiver sono ogni giorno chiamati a sostenere un carico gravoso, che oltre alla cura del familiare con patologie o disabilità gravi comporta la gestione degli aspetti burocratici, della manutenzione della casa, dell’iter delle terapie, del trasporto della persona. Al corollario di responsabilità e impegni purtroppo si aggiungono spesso la paradossale rinuncia al proprio lavoro remunerato e persino la messa a rischio della propria salute e sicurezza fisica.

La casa rappresenta infatti uno dei luoghi ad alto rischio per quanto riguarda gli infortuni, tanto che gli incidenti domestici costituiscono un forte problema per la sanità pubblica. Da tempo l’ISTAT quantifica un dato allarmante: più di tre milioni di infortuni tra le mura domestiche all’anno.

Inoltre, secondo diversi studi, lo stress quotidiano incide sulla salute fisica e mentale dei/delle caregiver, che presentano spesso disturbi del sonno, dolori dell’apparato muscolo-scheletrico, depressione e ansia, oltre all’aggravarsi di sintomatologie di patologie preesistenti. In altri casi le malattie si innescano a seguito della condizione di pressione e fatica costanti che possono provocare la sindrome del burnout, ossia uno stato di esaurimento emotivo, mentale e fisico. In tutti questi casi però non vengono garantiti periodi di riposo né di cura per i caregiver, che alla fatica del presente vedono aggiungersi preoccupazioni pressanti per il futuro.

“In assenza della legge che riconosca la figura del caregiver come lavoratore, mancano tutte le tutele: bisogna provvedere di tasca propria, se si è in grado, sia a stipulare un’assicurazione sia a finanziarsi un piano pensionistico”, commenta a questo proposito Alessandra Corradi, caregiver e presidente dell’associazione onlus “Genitori Tosti in Tutti i Posti” di Verona, attiva dal 2008 a livello nazionale nel promuovere il riconoscimento della figura dei e delle caregiver come lavoratori e lavoratrici.

A immergerci nel vivo di queste problematiche ci pensano due caregiver che le vivono da anni in prima persona, e che hanno scelto di raccontarci le loro storie senza reticenze.

I caregiver familiari sostituiscono servizi inesistenti al prezzo di carriera e salute

Dal mattino presto fino a sera, giorno dopo giorno, lo sforzo di un impegno continuo, di quelli che logorano al punto da mettere a repentaglio salute e sicurezza.

È questa la dura quotidianità che ci testimonia con la sua storia Serena Monti, giovane donna e caregiver residente in provincia di Bologna. Da tempo assiste il suo compagno, che a causa di un ictus cardio-embolico necessita di cure costanti e gestione su più fronti: “Mi sono rifiutata che venisse abbandonato in una casa di risposo e da otto anni a questa parte me ne occupo io”, racconta.

La giornata di Serena inizia presto e il programma non concede distrazioni o pause: “Mi sveglio alle sei e mezza e mi occupo di tutti gli aspetti: lo lavo, gli do da mangiare, lo vesto, lo porto fuori a prendere aria. Mi sono anche trasformata in fisioterapista e logopedista perché i servizi sono praticamente inesistenti e la sua condizione non può fare a meno di queste attività”.

Il destino dei e delle caregiver infatti prevede spesso di sostituirsi – non per scelta quanto per necessità – a servizi lacunosi o persino assenti, come ci conferma la nostra intervistata. “Basti pensare che in un anno lo Stato ci ha passato solo due sedute di fisioterapia che sono durate sì e no cinque minuti. In pratica si è trattato di una dimostrazione di che cosa avrei dovuto fare io con lui: la cura è stata finora sulle mie spalle”.

“Servono stipendio e tutele per ciò che facciamo noi caregiver”

Il compagno di Serena, proprio grazie ai suoi interventi costanti, ha avuto importanti miglioramenti che nemmeno i sanitari avevano previsto, ma nel frattempo è lei a fare i conti con le conseguenze di una fatica logorante vissuta giorno dopo giorno: “Non ce la faccio più, sento una stanchezza fortissima. Ho la schiena distrutta, le gambe sempre gonfie e la tachicardia, avrei necessità di farmi visitare e anche curare, ma i tempi di attesa della sanità pubblica sono lunghi e le cure mediche private non me le posso di certo permettere perché troppo costose. Non sto bene e ho rischiato più volte di farmi male: devo per caso rischiare di finirci io in carrozzina?”.

Quando l’impegno diventa estenuante Serena contatta le figure degli assistenti domiciliari forniti dal Comune in cui risiede, ma la situazione è allo stremo, a maggior ragione se pensiamo alle conseguenze fisiche e alle mancate tutele sul fronte della sicurezza. “Non posso lavorare e quindi avere uno stipendio perché devo gestire quotidianamente il mio compagno, e mancano tutele riconosciute per noi caregiver in caso di malattia”.

Una situazione da vicolo cieco allestita dallo stesso sistema, costellato da normative assenti, risorse bloccate e indifferenza. Serena sfata anche un mito che riguarda il territorio emiliano, spesso esaltato dal punto di vista dell’organizzazione dei servizi sociosanitari: “Le pecche ci sono anche qui. Purtroppo per chi assiste i familiari le mancanze riguardano un po’ tutta Italia”.

Che cosa potrebbe migliorare la situazione Serena Monti lo sa bene e lo afferma con schiettezza: “Servono un riconoscimento e uno stipendio per quello che facciamo e che ci tuteli a livello economico e di sicurezza, salute compresa, perché non possiamo davvero più andare avanti così. Se ci ammaliamo noi, a chi è invalido poi chi ci pensa?”.

“Sistema inesistente, lavoro una volta all’anno”: le rinunce dei caregiver

Un’altra storia emblematica proviene dal Veneto, precisamente dalla provincia di Treviso, con protagonista una coppia di genitori che ha adottato tre bambini provenienti da vicende di deprivazione e incuria, le quali hanno provocato problematiche di tipo comportamentale – oltre che, in due di loro, disturbi psichiatrici in aggiunta a disabilità come la sordità.

A raccontarci la sua quotidianità fatta di sfide e anche di tante conquiste raggiunte è Marula Furlan, madre e caregiver. Marula proviene da un’esperienza professionale importante come responsabile di progetti che riguardano l’ambito dei disturbi post traumatici che coinvolgono minori vittime di abusi, in particolare come coadiutrice di cani per interventi di assistenza dedicati proprio a queste problematiche. Un ruolo che ha dovuto ridurre, se non abbandonare, per seguire al meglio i figli, svolgendo senza alcuna tutela e riconoscimento il ruolo di caregiver: “Ne abbiamo affrontate tante e posso dire con certezza che il sistema da cui siamo circondati, tra penuria di servizi e figure non sempre preparate, è quello che scoraggia di più”, evidenzia.

La vita di Marula e suo marito ha dovuto riorganizzarsi del tutto, come ci spiega lei stessa: “Ci siamo trasferiti in campagna per avere uno spazio di sfogo per i ragazzi. Io ho dovuto rinunciare al lavoro se non seguendolo una volta all’anno in veste di coordinatrice perché era impossibile conciliare tutta la gestione quotidiana delle problematiche e delle necessità dei nostri figli con la professione”.

Come sempre l’assistenza familiare nel nostro Paese arriva a implicare la rinuncia totale o parziale del lavoro remunerato, senza che venga riconosciuta come tale.

Il timore dei caregiver familiari: chi si occupa degli assistiti in caso di incidente o malattia?

Focalizzandoci sul tema sicurezza, Marula Furlan mette in risalto alcuni aspetti chiave: “Gli incidenti e le criticità non sono mai prevedibili e noi caregiver lo sappiamo molto bene: nulla è dato per scontato. A maggior ragione servirebbero delle tutele relative agli incidenti domestici. Noi come famiglia abbiamo attivato un’assicurazione, ma oltre a essere di nostra iniziativa personale è tutta a nostro carico”.

Servizi zoppicanti e mancanza di tutele formano un cocktail micidiale per la vita quotidiana dei caregiver che devono gestire situazioni complesse: “Un’insegnante di sostegno di una delle mie figlie le ha provocato una regressione così grave che non sono mancati episodi in cui abbiamo dovuto contattare carabinieri e ambulanza: il recupero di nostra figlia l’abbiamo dovuto gestire noi”.

Il tema sicurezza tocca un altro terreno scottante, quello della salute di chi opera sul fronte dell’assistenza familiare: “Nel 2015 ho scoperto di avere una patologia rara che mi ha provocato due tumori”, racconta Marula. “Posso affermare che il nostro pensiero come genitori non era per la mia salute, ma come dare un’adeguata assistenza ai nostri bambini qualora mi fosse successo qualcosa perché spesso mancano figure preparate per sostituirci. I problemi non derivano dai bambini, bensì dalla disgregazione sociale e dalla mancanza di servizi”.

“Noi caregiver facciamo risparmiare allo Stato 350 euro al giorno”

Quando si parla di lavoro è inevitabile anche parlare di soldi: “Numeri alla mano, facciamo risparmiare allo Stato ben 350 euro al giorno di comunità. Noi non chiediamo così tanto, ma un riconoscimento sì, oltre a tutele che non siano a nostro carico”.

Ancora una volta il lavoro non riconosciuto del o della caregiver mette a repentaglio la sua stessa salute, come sottolinea Marula: “Io stessa ho rischiato più volte di farmi male in casa, e quando il bambino più piccolo si è ferito a causa del suo disturbo ho dovuto rinviare la mia operazione per stare in ospedale con lui. È anche capitato che rinviassi esami di controllo a causa di situazioni difficili subentrate in casa”.

Tante sfide, ma non sono mancate le conquiste: “In barba a chi non ci credeva, pur con fatica, siamo riusciti a far attivare un progetto di autonomia per i nostri figli, dimostrando che i miglioramenti sono possibili se si lavora uniti e con costanza”.

Photo credits: alzheimer-riese.it

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