Automazione HR: risorse poco umane

1500 colloqui al giorno. Otto minuti per capire se un candidato è adatto a una posizione oppure no, e se vale la pena fallo colloquiare da un referente delle HR; non un secondo in più. E (incredibile!) un solo e unico referente, instancabile, a portare avanti la baracca: un robot. Parliamo di Vera, un’intelligenza artificiale […]

1500 colloqui al giorno. Otto minuti per capire se un candidato è adatto a una posizione oppure no, e se vale la pena fallo colloquiare da un referente delle HR; non un secondo in più. E (incredibile!) un solo e unico referente, instancabile, a portare avanti la baracca: un robot.

Parliamo di Vera, un’intelligenza artificiale messa a punto nello scorso anno dalla startup russa Strafory, che in questo 2018 sbarca nel mondo delle risorse umane per servire una delle più grandi aziende del mondo, Ikea. Fin qui, niente di nuovo: d’altronde, che l’automazione avrebbe recitato la parte del leone in questo e nei prossimi anni era risaputo. Gartner ad esempio sostiene in diversi studi come la tendenza tecnologica dei sistemi “connessi” e intelligenti acquisterà slancio nel 2018, fino a vedere aumentare del 70-80% delle iniziative IoT basate su AI nel 2019.

Come questo impatterà sulla vita di tutti i giorni e nei meccanismi sociali che regolano il nostro mondo, è tutto un altro paio di maniche. La notizia che un’azienda come Ikea affidi – almeno in una fase iniziale – l’attività di recruitment in mano a un’intelligenza artificiale è la spia che probabilmente con le conseguenze dell’automazione dovremo cominciare a misurarci molto presto. Rimanendo sul piano strettamente lavorativo, però, la domanda che rimane è: quanto e come questo passaggio rimarrà inosservato e quanto possiamo considerarlo l’inizio di qualcosa di più grande?

“Gli esseri umani rimangono i migliori valutatori, ma Vera può aiutare molto il loro lavoro abbattendo i tempi di selezione soprattutto nella fase iniziale, quando ad esempio devono essere esclusi tutti quei candidati che si sono iscritti per una determinata posizione, ma non sono più in cerca di lavoro”. Così Alexei Kostarev, uno dei “padri” di Vera, ha riferito all’Ansa il valore aggiunto per Ikea dell’Ai targata Strafory: il tempo risparmiato non grazie a una scrematura qualitativa, bensì quantitativa. Ok, ma ci limiteremo a questo?

Il futuro è la tecnologia “qualitativa”?

Il virgolettato di Kostarev colpisce, perché fin dalla prima frase emerge un tentativo abbastanza chiaro di rimarcare la necessità dell’uomo, tranquillizzando quanti si stiano chiedendo se il processo di scelta affidato a una macchina possa rispecchiare le scelte che farebbe un recruiter in carne e ossa.

Allargando il campo a tutta la struttura e la vita aziendale, emerge come vi sia ancora necessità di focalizzarsi sulla centralità dell’elemento umano nei nuovi processi aziendali. A sostegno di questa tesi citiamo il Global Talent Trend Study 2018, il quale si concentra molto sull’aspetto “relazionale” con la tecnologia.

Lo studio ha infatti identificato cinque tendenze che coinvolgeranno la forza lavoro nel 2018, e in tutte emerge l’elemento “qualitativo” dello sviluppo tecnologico nei processi di gestione delle risorse umane: un cambio di passo su innovazione e competenze (Change of Speed), lavorare con un obiettivo più alto (Working with Purpose), uno stato di flessibilità permanente (Permanent Flexibility), l’uso di modelli HR aggiornati con piattaforme per il talento (Platform for Talent) e una pervasiva presenza del digitale (Digital from the Inside Out). In ognuno emergono trend che confermano come debbano strutturarsi l’attenzione verso le nuove tecnologie e il match tra vecchie metodologie e nuove possibilità, ma anche come si stia verificando un cambiamento nella figura del dipendente, sempre più conscio delle sue possibilità e della necessità di costruirsi una dimensione lavorativa più su misura.

Tornando quindi all’incipit del nostro articolo, in questo scenario dove l’uomo ha ancora la titolarità per essere protagonista, come può l’elemento umano riuscire a integrarsi a sistemi così pervasivi e ottimizzanti? E quanto possiamo considerare l’introduzione di sistemi come Vera la spia di un’inversione di tendenza, in cui tutti i processi saranno governati dalle macchine con lo scopo di migliorare l’esistenza dell’uomo?

Sostituire l’esperienza umana con l’esattezza artificiale? Un passo azzardato

Sembrano domande distanti, apparentemente insensate: d’altronde tutti i processi in cui ci muoviamo sono mediati dalle macchine, o da algoritmi, o da intelligenze più o meno artificiali. Mentre scrivo, Spotify mi propone una playlist su misura per me; il software che sto usando per battere queste parole risponde a una logica integrata per cui il file locale può essere salvato in cloud; le pagine Web che visito per documentarmi mentre scrivo mi propongono contenuti pubblicitari pensati sui siti che ho visitato in precedenza, e così via.

Ma la questione, qui, è diversa: affidare un processo di selezione a un’intelligenza artificiale, settata per reagire a input misurabili, potrebbe essere il primo passo (almeno nella dimensione professionale e aziendale) per sistematizzare una serie di valutazioni che impattano direttamente sulla vita dell’uomo. Una trasformazione che probabilmente osserveremo in tutta la filiera del processo umano, non solo a livello professionale, ma che per certi aspetti può rivelarsi meno positiva e produttiva di quanto si potrebbe pensare.

Sappiamo infatti che con i dati raccolti online è possibile customizzare, partendo dal digitale, tutto lo spettro dell’esperienza umana, rendendo ogni momento di vita in un certo senso indirizzabile attraverso un bot. Lo stesso si potrebbe fare anche in azienda, appaltando tutto ciò che sia riconducibile a un elevato tasso di standardizzazione (quindi, facilmente scalabile da sistemi automatizzati), come farà Ikea con Vera.

Il problema sta nel dopo: l’esperienza umana è infatti già oggi altamente influenzata dalle macchine, ma ci sono precisi segnali che ci fanno pensare quanto in generale questa contaminazione possa non rivelarsi “migliorativa”. A maggior ragione se si traducesse in una logica in cui è proprio un’intelligenza artificiale a giudicare la qualità dell’operato umano. Citiamo, in questo senso, il caso della fabbrica Tesla, totalmente automatizzata, che lo scorso aprile è letteralmente andata in tilt, portando il fondatore Elon Musk a twittare che “l’uomo è sottovalutato”.

L’opinione di due HR manager

L’impressione è che si stia disperdendo una parte consistente del valore della persona, valore che è incommensurabile in termini empirici, ma solo empatici: la capacità di vivere il team, di leggere la situazione del proprio collega e di intervenire in suo aiuto, o anche lo spirito di relazione che si instaura con un brand e con l’impresa che rappresenta. Elementi che rendono l’uomo professionista prezioso per l’azienda.

Il progresso però continua ad avanzare, e la domanda rimane: alla fine il fattore umano riuscirà a superare il confronto con l’evoluzione dell’automazione, o dobbiamo attenderci un futuro (in particolare in azienda) in cui selezione, valutazione e comprensione della risorsa saranno affidate a una macchina?

Samanta Todaro, HQ Italy Bally

Samanta Todaro, HR Manager di HQ Italy Bally, al proposito ci racconta: “Da selezionatrice ritengo che, in caso di necessità legate a una prima scrematura di grandi volumi di cv ricevuti, l’utilizzo di sistemi settati e customizzati in modo molto accurato (questo è fondamentale) possa sicuramente agevolare la persona che dovrà poi fare le selezioni, nel contattare i profili che risultano in linea con la ricerca. Piccolo esempio: per esperienza personale, a partire da una semplice ricerca di una figura in stage per graphic designer pubblicata su LinkedIn, l’80% dei cv ricevuti non sapevano nemmeno di che cosa parlasse l’annuncio (per dare dei dati oggettivi, nessuno studio nell’ambito considerato, e magari facevano i camerieri/pizzaioli, senza nulla togliere a queste professioni, intendiamoci!). Su una media di 70/80 cv giornalieri ricevuti per due settimane di pubblicazione ero riuscita a trovare cinque cv in linea, dedicando almeno due ore al giorno a questo tipo di attività.”

“Quindi, se parliamo di volumi importanti in una fase iniziale, io credo che un supporto valido (che non siano i filtri di ricerca dello strumento Recruiter di LinkedIn o del sito Monster/Infojobs, per fare qualche esempio, legato ai famosi operatori booleani che non sempre garantiscono un risultato) possa essere un supporto utile.”

Un supporto valido, quindi. Ma è tutto rose e fiori? A rispondere è ancora Samanta, che condivide con noi un episodio recente: “Ti riporto anche una bruttissima esperienza avuta da candidata, in fase di selezione per una società ‘digital’ alla quale avevo mandato il cv, e con la quale l’unica modalità di contatto è stata via mail. Il colloquio è avvenuto attraverso un sistema chiamato Blue jeans. Mi sono collegata, è comparsa la prima domanda scritta, con tra parentesi il tempo entro cui dovevo rispondere, e così via per le domande seguenti. Sono state all’incirca dieci domande, nessun dialogo di scambio, nessuna interazione: parlavo da sola a una webcam che mi ha registrata (mi sono anche sentita ridicola, sembravo matta). Dopodiché, passati circa venti giorni, è arrivata una mail di ringraziamento in cui mi comunicavano che avevano optato per un altro candidato/a. Io mi auguro che nel futuro si ricerchi sempre di più la qualità; pertanto selezione, valutazione e comprensione della risorsa non possono essere affidati a una macchina. Il fattore umano vincerà il confronto, assolutamente”.

“Credo fermamente nell’utilizzo degli strumenti di supporto come possono esserlo gli assessment test (per esperienza personale, dopo averne provati diversi, trovo maggior risconto in alcuni piuttosto che in altri). Ritengo che possano rivelarsi un utile strumento neutrale che, utilizzato in modo corretto, restituisca una buona fotografia del candidato, soprattutto se associati a prove pratiche.”

Per questo, il messaggio che ci lascia Samanta è abbastanza netto: “Il mondo del lavoro è fatto di persone, e la differenza la fanno le persone: anche per questo tutto il processo di selezione non può essere affidato a una macchina. Certo, dobbiamo anche dire che per poter fare delle buone selezioni servono buoni selezionatori, non improvvisati; questo richiede tempo, preparazione, energia e serietà. In ultimo, per questo non meno importante, io rifletterei sull’importanza di trovare la persona giusta per quel ruolo in quel momento, in relazione all’ambiente in cui dovrà inserirsi, che non sempre è la persona con il curriculum migliore o con il titolo di studio più affine. Poche persone pensano ai danni di una selezione sbagliata, e questo una macchina non credo possa farlo”.

Sara Callegari, Engie

Abbiamo chiesto un parere anche a Sara Callegari, HR Manager di Engie, riguardo al possibile impatto “qualitativo” di tecnologie come Vera.

“Ci auguriamo un’evoluzione anche sull’aspetto qualitativo perché, sebbene sull’aspetto quantitativo l’intelligenza artificiale ci viene senz’altro incontro riducendo i tempi di screening, dal punto di vista qualitativo al momento l’intervento dell’uomo è ancora fondamentale. Pensiamo a come l’automazione industriale e la conseguente creazione della catena di montaggio abbiano rivoluzionato i tempi del lavoro in fabbrica, e a come abbiano permesso la creazione di economie di scala, alla base della maggior parte dell’economia moderna. Si è trattato di un processo rivoluzionario, eppure questa evoluzione ha richiesto continui riaggiustamenti e punti di controllo sulla qualità del lavoro svolto.”

“Ancora oggi la qualità dei prodotti è affidata all’uomo, seppure in maniera ridotta o campionata. Così immagino che sarà per Vera o per altre forme di Intelligenza Artificiale applicate al processo di selezione, per cui se da un lato ci permettono di vagliare più candidature in un tempo ristretto, dall’altro sarà sempre l’uomo a dover settare le domande giuste per individuare il profilo ricercato. Come sempre non sappiamo dove si nasconde il talento, e il rischio è quello di escluderlo inconsapevolmente solo perché non ha dato una risposta contemplata dal sistema. Tornando all’esempio della produzione: un conto è se ricerchiamo un abito standard, ad esempio una divisa da lavoro; un conto è se ricerchiamo un capo fatto su misura. È chiaro che, a seconda delle posizioni, l’efficacia di Vera può rivelarsi differente.”

Un buon capo, spiega Jo Owen nel libro Le qualità dei leader (Roi Edizioni), deve sempre tener presente una regola: “Diventare il meglio di ciò che siamo, celebrando i nostri punti di forza, senza sacrificare la nostra personalità”. Se è la personalità di ognuno a farci emergere in un team o nelle nostre mansioni, come possiamo pretendere che a valutarci sia un soggetto che di personalità è sprovvisto?

 

Photo credits: Robot Vera and Strafory

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