A che serve un bilancio sociale tutto muscoli?

Per quanto l’intuizione della Corporate Social Responsibility rappresenti un passo fondamentale, e il cambio di paradigma dal concetto di shareholder a quello di stakeholder costituisca per certi aspetti un “passaggio di stato”, mi pare che, in fin dei conti, ciò che continua a mancare per offrire qualcosa di più all’impresa italiana sia una interpretazione olistica […]

Per quanto l’intuizione della Corporate Social Responsibility rappresenti un passo fondamentale, e il cambio di paradigma dal concetto di shareholder a quello di stakeholder costituisca per certi aspetti un “passaggio di stato”, mi pare che, in fin dei conti, ciò che continua a mancare per offrire qualcosa di più all’impresa italiana sia una interpretazione olistica e globale dello strumento Bilancio sociale, capace di far compiere un salto di qualità al report in questione, a migliore compiutezza rispetto al tradizionale approccio dualistico bilancio sociale – bilancio economico.

Non intendo trattare né qui né altrove di one report o di modelli (fondamentali, intendiamoci: di mappa e bussola abbiamo e avremo sempre bisogno). Vorrei invece accennare a quello che potremmo definire “supplemento d’anima”. La libertà di pensiero e di azione, nonché l’angolazione umanistica, che non può a mio parere mancare in uno strumento – il bilancio sociale – davvero capace di descrivere l’impresa italiana con le sue peculiarità, la sua storia, le sue storie, i suoi valori. La sua unicità e genialità.

 

Oltre gli schemi

Il bilancio sociale non può essere vissuto come un mero obbligo legale o relazionale. Questa visione conduce troppo spesso a non affrontare il percorso di costruzione del documento, a evitarlo o a non ripeterlo. Oppure ad affrontarlo vivendolo come un percorso troppo aderente a un dettame o addirittura (può accadere anche questo) come una operazione di facciata o comunque in qualche misura fine a se stessa.

Come aneddoto (non per forza a morale negativa) potrei raccontare di un breve confronto di diversi anni fa con il manager di una grande azienda: passeggiando insieme verso una cena che seguiva la presentazione del bilancio sociale dell’impresa di cui lui faceva parte mi disse senza mezzi termini che quelle che dicevamo erano tutte belle cose ma (cito testualmente) “in un’azienda ci devono essere le pecore e i leoni”. Fuor di metafora: nel bilancio sociale mi avete parlato di belle intenzioni, di un mondo che non esiste o che esiste solo in parte. Ascoltando questo manager ho capito con chiarezza che dovevamo abbassare la pretesa valoriale, direi ideale, che avevamo inserito tra le pieghe del documento. Al contempo che, probabilmente, avremmo dovuto (o potuto) aumentare il livello di ascolto degli stakeholder interni per arrivare poi, con pazienza e metodo, a delineare con una migliore fedeltà l’azienda vera e non quella ideale, appunto.

 

Il coraggio necessario

Il bilancio sociale – per definizione leva per il cambiamento, per il miglioramento – richiede il coraggio dell’investimento. Non soltanto di budget, non soltanto di tempo, ma di intelligenze. Occorre crederci. Ricordo bene come questo crederci fosse evidente, per esempio, quando ci si avventurava nelle prime sperimentazioni, a inizio anni Duemila, e noto con piacere e stupore come possa ancora oggi essere così. Pena l’inevitabile buco nell’acqua.

Coraggio e motivazione devono muovere dalla volontà di trovare, oltre la scommessa, nell’ottica dell’impresa sana e sostenibile, un ritorno dell’investimento. Coraggio e motivazione devono essere alimentati – da parte di chi offre la consulenza all’impresa o di chi direttamente dall’interno dell’organizzazione si occupa di CSR e di bilancio sociale – da una tensione continua: quella di ricercare gli effetti benefici profondi di questo strumento, che sono avvicinabili (e nei casi migliori raggiungibili) soltanto se si punta a oltrepassare il muro dell’esecuzione piatta di un compito dato.

 

Per arrivare al punto: il racconto attraverso il bilancio sociale

Ricapitoliamo: lo strumento bilancio sociale rappresenta un consistente investimento in tempo, in denaro, in intelligenze interne ed esterne all’impresa. Il bilancio sociale può rappresentare una importante e mai convenzionale leva per il cambiamento, per il miglioramento. Per ottenere risultati capaci di risuonare intorno a queste frequenze è necessario cercare gli elementi di fertilità, di vita.

Dal mio punto di vista – è questo più di ogni altro aspetto che qui intenderei introdurre – l’elemento del racconto può avere grande peso, estrema rilevanza. La mia esperienza e sensibilità mi spingono ad affermarlo, con tutta l’umiltà che mi è possibile, ma con fermezza, anche di fronte ai possibili detrattori che distrattamente potrebbero interpretare queste mie parole come un inno alla scapigliatura della CSR. Quel che intendo affermare è molto semplice, forse fin troppo.

Analisi e capacità di raccontare possono essere oltremodo affini (molto dipende dagli attori in campo). Possono stimolare la capacità di vedere: le peculiarità, la ricchezza e non di rado le potenzialità degli stakeholder (dagli interni agli esterni); possono renderci capaci di descrivere l’impresa nella sua unicità, oltre le forme di comunicazione della CSR, magari senza sbavature, ma anche senza cuore, sterile, incapace di colpire l’attenzione (internamente ed esternamente all’organizzazione), non generativa. Troppo spesso purtroppo la conseguenza di questo tipo di approccio rischia di essere inesistente.

Ma il bilancio sociale è un investimento che deve, lo ripeto, deve generare motivazione, interesse, pianificazione, azione. Conseguenze strategiche, organizzative, relazionali a tutto tondo. Inserendo, anche questo lo abbiamo già detto, l’elemento del racconto: racconto a sé stessi, racconto agli altri.

 

Valorizzare l’esistente

Manca spesso la valorizzazione dell’identità e della storia. La capacità di raccontare come si era e come si è diventati, che cosa si fa, come ci si è arrivati e con chi. Troppo spesso tutto viene ridotto alla presentazione del prodotto finito, della data di inizio dell’attività, delle certificazioni.

Ma il valore, i valori che hanno portato l’impresa a nascere, a svilupparsi, a mutare nel corso del tempo: dove sono? Il lavoro sull’identità deve partire non tanto da ciò che il consulente impone dall’esterno, bensì dallo studio, che richiede tempo e ascolto. Davvero l’approccio è talvolta simile a quello della psicoterapia, oppure dell’antropologia, o della sociologia. Che dire, per esempio, della “osservazione partecipante” di chi si pone all’interno dell’azienda a osservare, a raccogliere interviste. Tutto questo per evitare di esprimersi con idee magari fortemente originali e caratterizzate, ma forse non sufficientemente aderenti alla realtà che intendono rappresentare, non rispettose del terreno umano e culturale reale.

Come partire con il piede giusto? Come osservare con rispetto e umiltà? Come spingersi verso una identità sostenibile in quanto rappresentativa della realtà? Un passo può essere quello di utilizzare gli investimenti che in molti casi si stanno già facendo in ambito di RSI e di bilancio sociale.

Rispettando i modelli e la rigorosità da essi suggerita, propongo di potenziare il valore comunicativo e generativo del bilancio sociale: provare a uscire dalla “zona asettica” semplicemente aprendo le porte e le finestre, consentendo alla luce di penetrare e mostrare anche altro. Tendere a un bilancio sociale capace di offrire un racconto dell’impresa completo, avvincente, leggibile. Godibile. Un bilancio sociale capace di raccontare l’impresa attraverso aspetti quantitativi e qualitativi in senso ampio.

 

Aspetti qualitativi in una nuova chiave

Elemento qualitativo – capace di “far accomodare” il visitatore (il lettore, ovvero lo stakeholder in senso globale) all’interno dell’organizzazione – può essere la componente valoriale esplicita e, per così dire, canonica. Per esempio: valori, vision, mission, storia, che contribuiscono nel loro insieme a definire l’identità.

E già su questi aspetti, purtroppo, non è rara la modalità “mettiamoci meno tempo possibile”. Anche se chi ha lavorato seriamente su questi aspetti può testimoniare che non è così. Chi si è concesso il lusso di guardarsi dentro attraverso le più semplici domande esistenziali (chi siamo, cosa facciamo, dove andiamo) può testimoniare che un lavoro serio su questo capitolo del bilancio sociale, ma in generale della vita dell’azienda, crea un patrimonio che funge da solida base. Fondamentale, alla lettera. L’identità ben costruita entra nel vocabolario e nel pensiero di chi opera con e per l’organizzazione, senza forzature, con il rispetto del tessuto dell’impresa. Sostenibilità è anche questo.

 

Alcuni piccoli grandi esempi

Ma ci sono altri aspetti che, in questo senso, sono capaci di descrivere oltre ogni schema dato e prevedibile, di scalfire la crosta del già detto e del già visto. Per esempio, guarda un po’: le persone! Le persone vere, con le loro storie vere.

Certo, in questi tempi di stoytelling forzato, di “persone oltre le cose”, di “artigiani della qualità” sembra tutto talmente ovvio. Da parte mia mi trovo ancora e sempre più convinto: se, quando incontri una persona che si muove all’interno di un’organizzazione, hai la fortuna di incontrare davvero una persona (e questo naturalmente dipende poco dal fato e molto da te e dal tuo approccio: predisposizione naturale all’ascolto, sensibilità, cultura, esperienza, umiltà) ebbene: accade qualcosa. Accade che incontri al contempo frammenti di umanità e frammenti di organizzazione. All’interno di un bilancio sociale può così accadere di:

  • raccontare in forma scritta la storia di un imprenditore che ha reagito al terremoto insieme a chi lo ha saputo-voluto-potuto seguire;
  • documentare con un video (fruibile grazie a un semplice QR code sul bilancio sociale cartaceo) la testimonianza toccante di un lavoratore disabile (toccante nella sua disarmante semplicità, oltre le ovvietà e i buonismi, oltre le musiche banali, oltre gli stereotipi);
  • attraverso un obiettivo di miglioramento delineato a partire da una criticità emersa, attivare un progetto di valorizzazione delle storie dei lavoratori con un archivio d’impresa;
  • inserire un apparato iconografico capace di descrivere l’impresa con immediatezza, trasparenza, in un colpo d’occhio. Scatti fotografici di qualità. Anche in questo caso qualità narrativa, quindi, capace di descrivere e qualificare ciò che l’impresa fa, come lo fa, i suoi attori (protagonisti e non protagonisti).

Penso a questo ultimo esempio, che poi è una mia convinzione profonda: l’apparato iconografico di qualità. Tante volte mi accade di assistere al primo approccio da parte di un interlocutore (a eventi, a incontri con qualche tipologia di stakeholder) al bilancio sociale. Spesso vedo scorrere velocemente, sfogliare il documento cartaceo, gustandolo proprio seguendo questa via semplice, istintiva, naturale perché umana: le immagini delle persone. Altre volte comprendo quanto sia importante per il lavoratore vedere rappresentato il proprio lavoro con dignità, qualità estetica. O per il fornitore comprendere che cosa accade dentro l’impresa grazie a un buono scatto (affiancato a una infografica corretta, magari, o a un benchmark non ovvio). La responsabilità sociale dell’impresa.

È così semplice, se ci si pensa! Eppure occorrono – da parte dell’impresa committente, dei gruppi di lavoro, della consulenza – predisposizione, cultura, dedizione, capacità e volontà di approfondimento, istinto anche. Fiducia in questo tipo di approccio. Coraggio e cultura. Oserei dire sensibilità umanistica. Ecco, forse, qualcosa che davvero manca o stenta a palesarsi.

 

 

Foto by rawpixel-unsplash

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