Chi ha paura di Netflix?

Roma di Alfonso Cuarón è uno dei film dell’anno. Non lo è solo per il suo valore cinematografico o per i premi che ha già ottenuto e otterrà: Roma segna soprattutto l’apice dello scontro che si consuma in campo internazionale tra sala e streaming. Il film del regista messicano, infatti, prodotto da Esperanto Filmoj e Participant […]

Roma di Alfonso Cuarón è uno dei film dell’anno. Non lo è solo per il suo valore cinematografico o per i premi che ha già ottenuto e otterrà: Roma segna soprattutto l’apice dello scontro che si consuma in campo internazionale tra sala e streaming. Il film del regista messicano, infatti, prodotto da Esperanto Filmoj e Participant Media, è distribuito da Netflix, che ne ha garantito la proiezione in 600 sale nel mondo (100 negli Stati Uniti, 500 in più di 40 paesi, tra cui Honduras, Islanda e Sudafrica) prima del lancio in streaming del 14 dicembre. L’impegno nella distribuzione su grande schermo vuole sostenere la corsa di Roma agli Oscar che contano, e rappresenta un parziale cambio di rotta per la piattaforma guidata da Reed Hastings.

Una scena del film “Roma” Di Alfonso Cuaron

 

Fino a ora, Netflix ha privilegiato i propri abbonati optando per un’aggressiva strategia day-and-date, ossia un’uscita contemporanea in un numero selezionato di sale e streaming. La contrapposizione tra distribuzione theatrical e web già da qualche anno anima l’industria cinematografica, ma certamente il 2018 segna l’inasprimento del dibattito; anche in Italia, con il caso Sulla mia pelle di Alessio Cremonini.
I colossi del video on demand stanno rivoluzionando i modelli di consumo del prodotto audiovisivo (il cosiddetto binge watching), ma anche l’intera filiera cinematografica, scardinando il tradizionale sistema di finestre (window) di fruizione del film, ossia il suo rilascio temporale nei vari canali. Senza dimenticare il dibattito sempre aperto a Hollywood e dintorni sull’opportunità di premiare con importanti riconoscimenti un’opera che non ha come suo luogo d’elezione la sala cinematografica. Ma la rivoluzione ormai è avviata; resta da capire come affrontarla.

 

Cannes versus Netflix

Facciamo un passo indietro, ai primi forti segnali di attrito. Nel 2017 Netflix porta in concorso al festival di Cannes The Meyerowitz Stories di Noah Baumbachand e Okja di Bong Joon-ho. Gli organizzatori chiedono che i due titoli escano anche nelle sale francesi. La normativa dei cugini d’oltralpe è però molto rigida: devono infatti trascorrere tre anni fra l’uscita nelle sale di un prodotto e la sua distribuzione in streaming o per il download a pagamento.

Troppo per Netflix. I film restano in competizione, ma si scatenano polemiche e critiche, soprattutto tra gli esercenti, che in Francia esercitano un certo peso anche nel CDA di Cannes. A marzo 2018, Thierry Frémaux, delegato generale del festival, annuncia le novità per l’edizione numero 71: tra queste c’è l’obbligo per i film in competizione di uscire nelle sale. Alla piattaforma è concessa una parziale apertura: il fuori concorso. Ad aprile il capo dei contenuti Ted Sarandos rivela alla rivista Variety che Netflix diserterà completamente la Croisette: «Non ci sarebbe alcuna ragione valida per uscire dalla competizione. La regola è stata introdotta implicitamente in relazione a Netflix e Frémaux l’ha creata espressamente per il nostro caso quando ha l’ha annunciata».

A questo punto, Roma di Cuarón, 22 Luglio di Paul Greengrass e The Other Side of the Wind di Orson Welles approdano direttamente alla Mostra del Cinema di Venezia diretta da Alberto Barbera, che li accoglie a braccia aperte anche in concorso. Il resto della storia è nota: il regista messicano si porta a casa il Leone d’Oro, mentre a La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen, sempre distribuito da Netflix, va il premio alla sceneggiatura.

Anche in Italia scoppiano a questo punto le proteste degli esercenti. Barbera difende la scelta della Mostra: «Tutte le eventuali polemiche su questa vittoria sono effetto di una nostalgia che non si misura con la realtà di Netflix, la piattaforma più importante, ma che vede protagonista anche Amazon e sicuramente a breve altri soggetti. Sembra comunque che proprio Netflix stia per comprare una catena di sale cinematografiche negli Stati Uniti. Insomma, il futuro sarà tra sale e questa nuova realtà streaming. Difendere il passato oggi significa solo perdere opportunità».

 

Una scena del film “Sulla mia Pelle”

Un caso italiano

Se molti esercenti a dicembre boicottano Roma, portato comunque in circa 50 sale dalla Cineteca di Bologna (l’iniziale programmazione dal 3 al 5 dicembre è stata prolungata fino al 19), a settembre è stata la volta di Sulla mia pelle. Il film di Alessio Cremonini, che ricostruisce gli ultimi giorni di Stefano Cucchi, ha aperto la sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia, uscendo poi il 12 settembre in contemporanea in alcune sale e su Netflix, che lo ha acquisito. Diventa un caso mediatico, riaccende i riflettori sulla morte del geometra romano e viene proiettato “clandestinamente” in piazze, università, centri sociali.

L’amministratore delegato di Lucky Red (co-produttore) Andrea Occhipinti ammette di aver colto l’opportunità rappresentata da Netflix per l’opera prima italiana, e rassegna le dimissioni dalla presidenza dei distributori italiani dell’Anica dopo cinque anni: «La nostra scelta di distribuire Sulla mia pelle in contemporanea nelle sale e su Netflix ha creato molte tensioni tra gli esercenti che lo hanno programmato (pochi) e quelli che hanno scelto di non farlo (molti). II successo del film ha aumentato queste tensioni. Cinemaundici e Lucky Red – prosegue Occhipinti – hanno deciso di produrre questo film prendendosi interamente il rischio imprenditoriale, con il solo contributo del tax credit previsto dalla Legge Cinema. Tutto il resto è venuto dopo, a film finito». A scaldare gli animi il mancato rispetto della prassi che prevede una finestra temporale di 105 giorni tra l’uscita in sala e la distribuzione su un altro media, e la questione del contributo come opera cinematografica. «Sulla mia pelle non segna l’inizio di una nuova modalità distributiva: tutti i film Lucky Red rispettano e rispetteranno le finestre di sfruttamento», ribadisce Occhipinti.

 

Il decreto finestre

Ma proprio Sulla mia pelle sollecita il governo a intervenire al fianco delle sale con uno dei decreti attuativi della Legge Cinema n. 220 del 2016, varata dall’ex ministro Franceschini. Il decreto, firmato a novembre dal Ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli, afferma la sala come momento centrale dello sfruttamento dell’opera cinematografica e include la regolamentazione delle tempistiche di uscita dei film in sala e sui successivi mezzi di sfruttamento, piattaforme streaming incluse. «Penso sia importante assicurare che chi gestisce una sala sia tranquillo nel poter programmare film, senza che questi siano disponibili in contemporanea su altre piattaforme, per poter sfruttare appieno l’investimento che serve per migliorare le sale», annuncia il ministro.

Applaudono le associazioni di categoria dell’esercizio italiano Anec, Anem, Acec e Fice, insieme ai produttori e ai distributori dell’Anica. Il decreto sulle window interviene su un nervo scoperto, ossia i parametri delle opere cinematografiche nazionali per essere ammesse ai benefici di legge. La base è la certificazione della prassi finora adottata, quella dei 105 giorni, la stessa in vigore in Germania. Per chi viola i 105 giorni nessuna multa, ma nemmeno i benefici previsti per le opere cinematografiche. Sono però concesse deroghe. Le finestre diventano di 10 giorni se l’opera è programmata in sala solo per 3 giorni (o meno) feriali; di 60 giorni se l’opera è programmata in meno di 80 schermi e dopo i primi 21 giorni di programmazione ha registrato meno di 50.000 spettatori.

«Con le nuove regole – ha specificato il sottosegretario con delega al cinema Lucia Borgonzoni – applicate al periodo 1 gennaio 2013/30 settembre 2018, oltre 750 film italiani su circa 1000 avrebbero avuto la possibilità di essere visti su altre piattaforme molto prima dei 105 giorni previsti nelle prassi di mercato, con evidenti benefici sui ricavi complessivi. Si tratta, quindi, non di regole che vanno a restringere le possibilità di sfruttamento e visione dei film italiani, ma di regole che facilitano la vita dei film e le possibilità, per gli spettatori, di fruirne legalmente, senza snaturarne e anzi esaltandone la vocazione alla sala cinematografica».

Il decreto riguarda però solo i film italiani, con l’evidente volontà di lasciarsi il caso Sulla mia pelle alle spalle. Le “finestre” cambiano, ma le criticità strutturali restano: dalla mancanza di una stagione estiva alle condizioni – e localizzazione – delle sale, fino ai problemi distributivi e alla bassa frequentazione del pubblico (solo il 20% va al cinema due o più volte alla settimana secondo indagine Agis e Iulm). Il ministro Bonisoli e il sottosegretario Borgonzoni promettono a breve nuovi provvedimenti. Non ci resta che attendere.

 

Netflix nemico numero uno?

Con la sua potenza di fuoco economica e produttiva – 137 milioni di abbonati a livello globale in vertiginoso aumento e 12 miliardi di dollari investiti in contenuti originali nel 2018 (arriveranno i nuovi lavori dei premi Oscar Scorsese e del Toro) – Netflix è diventato il nemico numero uno anche per gli esercenti italiani.

Certo, preoccupano il calo di incassi e presenze che ha contraddistinto il 2017 e le basse aspettative per i numeri del 2018. Preoccupa il generale impoverimento produttivo del cinema italiano, che nel 2017 – senza i film di Checco Zalone – ha incassato circa 89 milioni di euro in meno rispetto al 2016, per un numero di biglietti venduti inferiore di 13.3 milioni. Opporsi però alla distribuzione dei titoli Netflix in sala per questioni di principio potrebbe rivelarsi un boomerang, alla luce del lusinghiero box office di Sulla mia pelle (583.000 euro incassati nelle prime 12 settimane di programmazione), che dimostra come in alcuni casi la programmazione in sala possa coesistere armoniosamente con quella in streaming.

Per Roy Menarini, critico cinematografico e docente presso l’Università di Bologna, «lo scenario è in trasformazione, anche rispetto alle dinamiche dei consumi; difficile quindi avere una posizione netta. È interessante la spaccatura tra gli esercenti; chi ha proiettato i due film, “disobbedendo” alle associazioni di categoria, ha deciso che di fronte ad alcuni titoli la distribuzione contemporanea o in breve anticipo rispetto alla piattaforma possa comunque rivelarsi positiva, anche in virtù dei differenti pubblici fruitori che non sempre coincidono, anzi. Piuttosto che agire per divieti, sarebbe utile cercare nuovi equilibri e accordi tra sala, e quindi associazioni di categoria, e piattaforme. Ci stiamo concentrando troppo su Netflix: altri operatori potrebbero entrare in gioco, ma con modelli economici diversi. Per questo serve una regola generale, ma flessibile».

Un atteggiamento conservatore delle sale rischia infatti di essere non solo datato, ma controproducente. «Capisco le preoccupazioni e l’esigenza di forme di protezione, che però non possono più essere quelle del passato». Del resto, fa notare il critico, le pubblicità di tv a pagamento prima dell’inizio degli spettacoli e la proiezione di eventi di tre giorni – tra cui il concerto di Vasco Rossi e prodotti per la tv come Fabrizio De André Principe libero e L’amica geniale – sono elementi contraddittori nell’ambito di una pretesa esclusività del grande schermo per il cinema, che testimoniano la ricchezza dei contenuti audiovisivi proposti oggi al pubblico. Alla luce di tutto questo, «il sistema delle sale – conclude Menarini – avrebbe bisogno di rinnovarsi culturalmente».

 

 

 Photo Credit: https://www.diregiovani.it

 

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