Oscar 2025, perché Netflix non ha vinto

Cinque statuette per “Anora” di Sean Baker, costato 6 milioni di dollari, e solo due per “Emilia Pérez”, la cui campagna di promozione ne è costata 40: la sala cinematografica batte lo streaming, almeno nei premi. E gli Academy Award si fanno più internazionali e meno politici

04.03.2025
Oscar 2025

“Long live independent film!”. Così Sean Baker ha celebrato la statuetta a Miglior Film di Anora, trionfatore della 97esima edizione degli Oscar con ben cinque statuette, tra cui quattro solo per Sean Baker che del film è regista, produttore, sceneggiatore e montatore.

È un nuovo record per gli Academy Award: solo Walt Disney ne aveva portati a casa quattro, ma per pellicole differenti. Costato 6 milioni di dollari, Anora è stato realizzato dalla indipendente FilmNation, che poi lo ha venduto allo studio Neon, distributore delle ultime Palme d’Oro di Cannes: Parasite, Titane, Triangle of Sadness, Anatomia di una caduta e, appunto, Anora, che condivide lo stessa parabola vincente con il film di Bong Joon-ho premiato nel 2020.

Oscar 2025: il cinema in sala batte lo streaming

Vincitore dei principali premi dei sindacati (produttori, registi e sceneggiatori; solo quello degli attori gli ha preferito Conclave), Anora ha rispettato i pronostici e si è imposto sugli avversari, primo fra tutti l’adattamento del romanzo di Robert Harris, che ha ottenuto un solo Oscar: quello per la sceneggiatura non originale di Peter Straughan.

L’affermazione di Anora coinvolge anche l’attrice protagonista Mikey Madison, che con il BAFTA in tasca supera al fotofinish la favorita Demi Moore per The Substance di Coraline Fargeat, che si aggiudica soltanto l’Oscar al Miglior Trucco. Mikey Madison interpreta l’Anora del titolo, giovane spumeggiante che lavora in un locale di spogliarelli di New York dove conosce il viziato figlio di un oligarca russo, con cui intravede la possibilità di cambiare vita.

L’attrice, 25 anni, non a caso nel suo discorso di ringraziamento ha voluto riconoscere e onorare la comunità delle sex worker, ricordata anche da Sean Baker, promotore della visione dei film nelle sale cinematografiche, che sempre più rischiano di scomparire. Non sono mancate, a questo proposito, stoccate del presentatore Conan O’Brien alle piattaforme streaming.

Il disastro comunicativo di “Emilia Pérez” e le prime volte di Brasile e Lettonia

Netflix è proprio uno dei grandi sconfitti della serata, avendo puntato almeno 40 milioni di dollari sulla campagna Oscar di Emilia Pérez (titolo distribuito dalla piattaforma in USA e Canada), trasformatasi in una débâcle. Forte di 13 candidature, con cui è diventato il lungometraggio non in lingua inglese più candidato di sempre, l’atipico musical di Jacques Audiard ne ha concretizzate solo due: quella per l’attrice non protagonista Zoe Saldaña (amata dall’industria per i suoi ruoli in franchise di grande successo come Avatar e I Guardiani della Galassia) e per la Migliore Canzone originale El Mal.

Troppe le polemiche: i controversi tweet che sono costati a un certo punto l’esclusione dalla campagna di Karla Sofía Gascón, prima attrice trans a ricevere una nomination all’Academy Award; le accuse della popolazione messicana, che si è molto risentita della rappresentazione del Paese, del trattamento riservato al tema del narcotraffico e delle sue vittime, così come della poca attenzione al casting e all’accento delle due attrici Saldaña e Selena Gomez.

Le feroci critiche alla qualità del film sono state francamente eccessive; la cancellazione della spagnola Gascón è stata un’operazione assai ipocrita, ma il merito o il buonsenso non sono mai stati fattori decisivi nelle politiche di assegnazione degli Oscar. La gestione delle crisi comunicative legate a Emilia Pérez è stata comunque dilettantesca da parte di Netflix, e il cast del film, a partire dal regista Audiard, autore di dichiarazioni assai infelici, si è auto-boicottato in maniera evidente.

Non sorprende, quindi, che a vincere il Best International film sia stato Io sono ancora qui di Walter Salles: un film convenzionale, ma di forte impegno civile sul dramma della famiglia Paiva durante la dittatura militare in Brasile all’inizio degli anni Settanta. È la prima vittoria storica per il Paese sudamericano nella categoria, affiancata da un’altra splendida prima volta: quella della Lettonia, che festeggia il suo primo Oscar con il film di animazione Flow – Un mondo da salvare, che batte i colossi americani DreamWorks e Pixar. È una piccola grande perla quella diretta da Gints Zilbalodis, senza dialoghi e senza antropomorfizzazioni degli animali protagonisti in un mondo post-apocalittico privo dell’uomo.

Tra gli sconfitti anche Bob Dylan e i blockbuster

Hollywood non premia più i biopic, e A Complete Unknown di James Mangold resta a mani vuote. Timothée Chalamet, che per cinque anni ha studiato da Bob Dylan, segue le orme di Leonardo DiCaprio nella strada irta di ostacoli verso l’agognata statuetta. Pur avendo avuto i colleghi attori dalla sua (ha vinto il Sag Award), Chalamet si arrende ad Adrien Brody, che conquista il suo secondo Oscar come Migliore Attore protagonista a 23 anni di distanza dal primo per Il Pianista di Polanski. Brody, con la sua forza espressiva, regge su di sé le oltre tre ore di The Brutalist, film anch’esso low budget (meno di 10 milioni di dollari) ma di grandi ambizioni di Brady Corbet, che oltre al premio per il Migliore Attore raccoglie anche i riconoscimenti per la fotografia di Lol Crawley e la musica di Daniel Blumberg.

The Brutalist, epopea di László Tóth, architetto ungherese sopravvissuto agli orrori del campo di concentramento che cerca di ricostruirsi una nuova vita negli Stati Uniti, affronta – tra gli altri – anche gli spinosi temi dell’immigrazione, della difficoltà dell’integrazione e della diaspora ebraica nel neofondato stato di Israele.

Anche A Real Pain, seconda regia di Jesse Eisenberg, parla di radici ebraiche, memoria e dolore ma in chiave contemporanea, raccontando il viaggio di due cugini ebrei molto diversi – Eisenberg e Kieran Culkin – in Polonia per visitare la città natale della nonna appena scomparsa, fuggita dall’Europa nazista per emigrare negli USA. Kieran Culkin ha vinto pressoché tutti i premi nella Award Season e si è riconfermato anche agli Oscar, dove ha ritirato la sua statuetta come Miglior Attore non protagonista.

I blockbuster escono inevitabilmente ridimensionati dalla cerimonia. Wicked ha ottenuto due statuette per Miglior scenografia e Migliori costumi, con Paul Tazewell che è diventato il primo uomo di colore a vincere in questa categoria. Attende il secondo capitolo a novembre per aspirare a premi più ambiti, soprattutto sul piano attoriale con Ariana Grande e Cynthia Erivo, che con le loro performance hanno aperto la serata al Dolby Theater.

Anche Dune: Part Two porta a casa due premi, per il Miglior sonoro e gli Effetti visivi, sognando in grande per il terzo capitolo che dovrebbe uscire a fine 2026.

Oscar e (poca) politica: si impone l'israelo-palestinese "No Other Land"

Durante la cerimonia non è mancato lo spettacolo, con il tributo musicale al leggendario musicista, autore e produttore Quincy Jones, e a James Bond, la cui proprietà intellettuale è stata appena acquistata da Amazon. Non è mancato neppure l’omaggio ai pompieri, gli eroi della città di Los Angeles devastata a inizio gennaio dagli incendi. È mancata la politica, se non per un paio di battute dell’host O’Brien (una delle quali con Adam Sandler in platea, vestito in maniera inappropriata per la serata, come Zelensky nello Studio Ovale) e uno slava Ukraïni pronunciato da Daryl Hannah, presentatrice di un premio. Zoe Saldaña nel suo acceptance speech rivendica con orgoglio le radici domenicane della madre e la sua identità di figlia di immigrati. Mai però viene nominato il presidente Trump, nonostante Sebastian Stan sia nominato come Miglior Attore protagonista per aver assunto i suoi panni nel film The Apprentice – Alle origini di Trump di Ali Abbasi.

Un bagno di realtà è stato offerto dalla vittoria, nella categoria Documentari, di No Other Land, prodotto, scritto e montato da un collettivo israelo-palestinese formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal, che ha conquistato l’Academy pur non avendo ancora trovato un distributore americano. Il film testimonia la drammatica situazione a Masafer Yatta, nella Cisgiordania occupata, negli anni dal 2019 al 2023.

In un momento complicato per Los Angeles, per l’industria cinematografica e, in definitiva, per tutto il mondo, gli Oscar lanciano un messaggio preciso di trasformazione. I due film più celebrati, Anora e The Brutalist, sono realizzati da filmmaker dalla precisa identità autoriale, che in maniera molto diversa delineano il collasso del sogno americano e le storture di un capitalismo violento e opprimente. Gli Oscar 2025 hanno soprattutto il merito di rilanciare la forza del cinema indipendente, fuori dalle logiche degli studios, e della sala come luogo privilegiato di visione. La lista dei nominati e dei premiati è, inoltre, sempre più internazionale, grazie alla globalizzazione dei membri dell’Academy. Per questo motivo, stona particolarmente che nel tradizionale In Memoriam siano assenti nomi come Alain Delon e Olivia Hussey.

 

 

 

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Photo credits: kudapoiti.by

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