Come vivere nell’anno spartiacque? Chiedetelo alla gente di frontiera

Alcune storie dal 2020 di chi è abituato a vivere su un confine: un luogo che è anche una prospettiva con cui interpretare il mondo.

Già si vedono i post ironicamente speranzosi sui social che puntano tutto sul 2021. Più ironici che speranzosi, perché – non ho ancora capito il motivo – ho notato che l’essere umano preferisce guardare il bicchiere mezzo vuoto. Certo, non bisogna essere scioccamente ottimisti, della serie “il migliore dei mondi possibili” stile Candido di Voltaire, ma nemmeno ostinatamente pessimisti come Leopardi.

Se ci pensiamo bene, come tutti gli estremi, nessuno dei due può davvero aiutare quando cerchi una soluzione: se il bicchiere è sempre mezzo pieno non considererai mai i fattori penalizzanti che ogni situazione o decisione porta con sé; se il bicchiere è sempre mezzo vuoto si vedranno solo le criticità, e si lasceranno scappare le opportunità che ogni situazione porta. Sembra che la soluzione sia l’immobilismo ma, e qui non devo di certo spiegare il motivo, l’immobilismo non porta da nessuna parte.

Tra questi tre modi di agire preferisco il quarto: il realismo, che considero il centro perfetto tra ottimismo e pessimismo, e al contempo un’istigazione a reagire all’immobilismo attraverso il moto perpetuo. Ma il realismo, per essere pungolo al movimento, ha bisogno di un atteggiamento analitico: pregi e difetti, opportunità e criticità, analisi, ponderazione, calcolo, azione. Solo in seguito si può scegliere una delle soluzioni a cui si è pensato.

Un ottimista, un pessimista, un immobilista e un realista vanno ad Avignone

Mentre scrivo mi viene in mente il viaggio in camper che feci per il Capodanno del 2000. Il millennio terminava e si apriva un secolo tutto nuovo, che portava con sé speranze, dubbi, paure e incertezza.

In barba al millenium bug e con l’incoscienza dei vent’anni, partimmo con destinazione Parigi. Arrivati ad Avignone, apprendemmo da altri camperisti che Parigi e il parco della Reggia di Versailles erano stati investiti dal maltempo, che aveva devastato tutto. Anche se il peggio, forse, era passato, avventurarsi con un camper degli anni Ottanta in una zona ventosa non era una scelta intelligente; avevamo attraversato la Liguria e le folate di vento ci avevano sballottato pericolosamente.

L’ottimista avrebbe proseguito in barba a tutto, perché “Dio vede e provvede”; il pessimista sarebbe rientrato, perché “puoi fare quello che vuoi, tanto la vita si mette di traverso”. L’immobilista sarebbe rimasto ad Avignone. Il realista avrebbe ponderato: analisi, sintesi, azione. Ci guardammo, aprimmo la cartina e il dito corse verso ovest: Barcellona. Non siamo andati a Parigi, ma fu comunque una bella avventura, di quelle che racconti a tutti una volta rientrato a casa.

Sono trascorsi vent’anni da quella vacanza (ahimè) e siamo di fronte a un altro bivio. Non si tratta di una vacanza, ma di qualcosa di molto più serio.

A proposito di bivi: che il 2020 non sia stato un anno fantastico lo sappiamo tutti, ma non credo che tutti abbiano capito che è stato uno spartiacque.

La frontiera come modo di vivere: quel senso di precarietà costante che insegna a stare al mondo

Vivo nel Nord Est d’Italia, una terra che da sempre è stata di frontiera. Chi doveva invadere la Penisola arrivava da est e passava da qui. Pensate a una popolazione o a un’etnia e di sicuro qualche suo rappresentante avrà calpestato il suolo friulano. Tedeschi, austriaci, cosacchi; da qui sono passati pure i maori: senza sparare un colpo il primo maggio 1945 fa il suo ingresso a Udine il 28° battaglione maori “Hikoi Maumahara”, prima avanguardia delle truppe alleate guidate dal generale Mc Creery. La città festante accolse le truppe alleate che erano venuti a liberare il Friuli – che nel frattempo si era liberato da solo.

Tutte queste invasioni hanno lasciato due cose nella popolazione del Nord Est: la prima è una totale diffidenza nei confronti del forest, lo straniero; la seconda è la consapevolezza che prima o poi qualcosa andrà storto, un pessimismo cosmico che Leopardi in confronto era un principiante. Ma vi è un’altra caratteristica che, a mio avviso, accomuna i territori di frontiera, ed è l’abitudine alla precarietà, che diventa parte della tua vita e si radica nel pensiero in modo così profondo che quasi non ci si fa caso, e diventa normalità. Una consapevolezza inconsapevole; come respirare.

La precarietà costante è così, non ci pensi fino a quando qualcuno non te lo fa notare, e quando te lo fanno notare pensi anche che ci hai convissuto da quando sei nato, e in fondo le cose non sono andate poi così male. Perché sotto il pessimista di frontiera in realtà si nasconde il realista ponderatore.

Storie di frontiera per superare il 2020

“Osservare, adattarsi e raggiungere lo scopo”, diceva il sergente maggiore Gunny nell’omonimo film di Clint Eastwood. Quel motto partorito da uno sceneggiatore hollywoodiano riassume molto bene lo spirito della gente di frontiera. Così, a conoscerli bene, scopri che quelle donne e quegli uomini dal carattere schivo e – a parole – rassegnato, se da un lato si lamentano quasi di tutto, dall’altro sono armati di una incredibile capacità di ponderazione e reazione a tutte le avversità che si presentano.

Quel motto hollywoodiano non lo si sente mai dire, ma lo si vede ogni giorno nei piccoli gesti che la gente di frontiera è capace di portare a termine. A scavare bene si trovano anche esempi concreti di questa loro capacità di reagire a qualunque situazione.

Lo vedi in Giulio, che dopo la chiusura del bar in cui lavorava come cameriere a causa dei DPCM non si è perso d’animo, ma si è rimboccato le maniche e ha messo subito in cantiere l’idea che da anni teneva nel cassetto, fondando una piccolissima azienda che produce sanificatori ambientali. Una capacità di reazione che stupisce, a volte, per la velocità con cui le soluzioni vengono introdotte. Come quella di Andrea, che racconta come in pochi giorni l’azienda che ha fondato è riuscita a impiegare soluzioni smart per garantire al personale la possibilità di lavorare da casa.

Potrebbe sembrare una soluzione come tante adottate in quei giorni bui del lockdown totale della primavera di quest’anno, ma che invece è diversa, perché diverso è il motivo per cui è stata adottata. Andrea mi dice che è stata pensata per tutelare la salute dei collaboratori prima di ogni altra cosa e, anche questa, potrebbe sembrare una dichiarazione di quelle che fai ai giornali per avere un articolo, ma Andrea sui giornali non c’è, e non sa neppure che sto parlando di lui in queste righe. Chi, come me, conosce l’azienda e le persone che ci lavorano sa che è tutto vero: il progetto di smart working è stato realizzato perché alle sue persone Andrea ci tiene, e questo lo si scopre proprio dai suoi dipendenti, che hanno fatto la loro parte, collaborando con lui e il suo socio per far sì che si potesse lavorare da casa, in sicurezza, accontentando i clienti e portando avanti i progetti.

L’anno spartiacque dei realisti di frontiera: imparare a pre-occuparsi degli altri

Viene quindi da pensare che la gente di frontiera, nonostante quello che dichiara, un cuore ce l’ha, ed è capace di pre-occuparsi degli altri; che tanto burberi in fondo non siamo, e che agli altri ci teniamo al punto di creare un progetto interno per migliorare il benessere del personale.

“Perché è nostra responsabilità occuparci di chi rientra”, dice Marco. “La paura è una brutta bestia e rassicurare loro e le loro famiglie, farli stare bene in un’azienda accogliente è una questione prioritaria”.

Analisi realistica, ponderazione, mani tese che sono un’estroflessione del cuore. Queste storie non si conoscono: Giulio, Andrea e Marco non trovano spazio sui quotidiani nazionali. Perché? Probabilmente perché le belle notizie non fanno notizia, ma di certo fanno bene all’animo.

Che questo 2020 sia uno spartiacque lo capisci da queste storie e dalle persone che te le raccontano.

Photo credits: www.touringclub.it

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