Con l’oreficeria in subaffitto nei polmoni

Può capitare, a chi vive da questa parti, che un medico forestiero dica, con meraviglia: “Signora, non mi crederà, ma lei ha tracce di polvere d’oro nei polmoni!”. In realtà, qualche anno fa, la signora gli aveva creduto al volo; perché non è strano, se si lavora nel settore dell’oreficeria per quattro decenni.   La […]

Può capitare, a chi vive da questa parti, che un medico forestiero dica, con meraviglia: “Signora, non mi crederà, ma lei ha tracce di polvere d’oro nei polmoni!”. In realtà, qualche anno fa, la signora gli aveva creduto al volo; perché non è strano, se si lavora nel settore dell’oreficeria per quattro decenni.

 

La storia di Giuliana Burrini e Beppe Pasciutti, orafi valenzani

Giuliana Burrini, lombarda di adozione, oggi ha 64 anni, è in pensione e fa volontariato per Spi, il sindacato dei pensionati Cgil; ha iniziato a lavorare quando ne aveva 14. Racconta a Senza Filtro, nella sua casa di Sartirana Lomellina (Pavia): “Abitavo nei dintorni di Casale Monferrato, qui vicino ma in Piemonte. A quei tempi i ragazzi della mia età andavano a studiare a Casale oppure a lavorare a Valenza Po, dove il settore orafo macinava già un sacco. Io andai a Valenza e cominciai subito a imparare”. Da allora è stata un’operaia specializzata nell’industria orafa valenzana: nonostante la cittadina abbia appena 19.000 abitanti, è – con Arezzo, Vicenza e Marcianise – uno dei quattro poli del settore, che ultimamente in Italia fattura oltre 8 miliardi di euro l’anno.

Valenza è in Piemonte, nell’Alessandrino. Giuliana, da quando si è sposata nel 1975, vive in Lombardia, subito dopo il ponte sul grande fiume padano. Soltanto 16 km dividono la città piemontese dal piccolo paese, Sartirana, in cui da allora abita con la sua famiglia. Anche il marito lavora nel settore da quando era ragazzino e proprio grazie all’oro si sono conosciuti. Il sartiranese doc Beppe Pasciutti, 68 anni, disegna gioielli come libero professionista da una vita: realizza dal progetto su carta al modello in cera. Ora che anche lui è pensionato torna al design orafo solo su richiesta; per il resto si dedica alla sua vita parallela di artista e scultore. “Dopo la scuola di avviamento, nel 1965 mi iscrissi all’Istituto professionale d’oreficeria di Valenza. Già allora anche in Lomellina si capiva che era un settore promettente. Bastava avere voglia di lavorare. E io ho amato e amo tantissimo il mio lavoro, perché mi ha fatto scoprire la bellezza, l’arte, la pittura e la scultura”.

 

Il polo lombardo dell’oreficeria

Sartirana fa parte, con Mede, del dorato polo dell’oro in territorio lombardo, nato per gemmazione (è il caso di dirlo) da quello valenzano, molto più grande. Le due sponde del fiume sono unite anche da radici piemontesi comuni. Fino al 1859, 150 anni fa, la Lomellina (lembo di pianura padana compreso tra Ticino, Sesia e Po) era nel Regno di Sardegna; solo in quell’anno fu unita, con l’Oltrepò, al Pavese appena tolto all’Austria, per formare la Provincia di Pavia.

La bella storia orafa di questa zona a cavallo tra due regioni è iniziata nel 1817, quando giunse nella cittadina piemontese Francesco Caramora, che nella vicina Voghera aveva con lo zio un negozio per il commercio di oggetti in oro. Aprì la sua bottega, con due apprendisti. Dopo la sua scomparsa tutto fu rilevato da Pietro Canti, uno degli apprendisti, che a sua volta prese con sé quattro giovani. Uno di loro era Vincenzo Morosetti, nella cui bottega più tardi finì per imparare il mestiere anche il valenzano Vincenzo Melchiorre. Nel 1873 Melchiorre – dopo aver fatto esperienza a Torino, Parigi, Firenze e Roma – aprì nella città d’origine un suo laboratorio orafo. Ed ecco il boom: nel 1887 le aziende orafe erano 19 con 304 operai; un secolo dopo, nel 1990, al massimo dell’espansione, 1.200 con 6.500 addetti; oggi, duecento anni dopo Caramora, sono 800 con 4.500 i lavoratori.

Molte aziende e molti professionisti del settore, formatisi a Valenza, nell’ultimo Dopoguerra hanno messo radici anche tra Mede e Sartirana, comuni lombardi confinanti con meno di diecimila abitanti in tutto. Nel castello di Sartirana c’è tuttora il Museo per l’Oreficeria contemporanea (MOC), con un centinaio di gioielli. E sul sito del comune si legge: “L’economia del paese da qualche anno ha trovato sbocco grazie all’artigianato orafo. Infatti sono sorti molti laboratori con vendita diretta al pubblico. Prodotti di ottima fattura che stanno riscontrando successo anche oltre i confini italiani”. I laboratori erano 25, ora sono tre o quattro. Nel 2008 era nato anche il progetto della Cittadella dell’oro, nell’area di espansione artigianale di Mede, ma poi la crisi economica ci mise lo zampino. Come tutto il Made in Italy, anche l’oreficeria, minacciata da Stati emergenti che producono cose più semplici ma a minor costo, già negli anni Novanta aveva iniziato a soffrire. Nel 2011 le aziende valenzane e lomelline erano diminuite del 40% rispetto al 1990.

 

Il settore dell’oro, oggi

Ora l’acquisto di gioielli, considerati un bene rifugio, è in aumento. A Valenza, per esempio, da marzo del 2017 troneggia uno strano bunker, nero e griffato. È la nuova manifattura di Bulgari, la più grande d’Europa, inaugurata da Jean-Christophe Babin, CEO del gruppo, e dall’allora ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda. “Bulgari ha scelto Valenza per la sua lunga tradizione orafa e in particolare per la Cascina dell’Orefice”, disse Babin. La Cascina dell’Orefice è nientemeno che la casa-laboratorio del pioniere ottocentesco, Francesco Caramora, recuperata e integrata nello stabilimento. Oggi la manifattura ospita anche la Bulgari Jewellery Academy, scuola di formazione per maestri orafi, e garantisce 700 posti di lavoro.

Bello. Però è tutto oro quel che luccica? In realtà Giuliana e Beppe, come tanti altri della vecchia guardia, hanno nostalgia dei vecchi tempi. “È cambiato tanto”, dicono. Che cosa? Il contesto sociale, culturale e produttivo in cui i gioielli sono realizzati. Ed è cambiato anche il mercato. Prima il comparto di Valenza e il suo satellite lomellino, raccontano, puntavano “su una clientela di altissimo livello e su un lavoro artigianale dalla A alla Z, svolto da aziende medio-piccole; ora stanno puntando sempre di più sulla produzione su vasta scala. Ne escono gioielli fatti in serie e in migliaia di esemplari tutti i uguali, il cui prezzo dipende soprattutto dalla firma prestigiosa che li accompagna piuttosto che dall’unicità del pezzo”.

Aggiunge Giuliana: “Ora si punta sui grandi numeri. Un’operaia è pagata meno di dieci anni fa; in compenso magari è incaricata soltanto di fare un buchino in un anello, sempre e solo quello. È invece ormai minoritario il prodotto che fece la fortuna dell’oreficeria di questa zona, contrapposta a quella più industriale di Vicenza e Arezzo”. Quale? “Il gioiello prodotto a mano, dalla progettazione alla realizzazione, in meno di dieci esemplari e rivolto alle élite mondiali (fino alla prima guerra del Golfo spiccavano i Paesi arabi più ricchi, N.d.R.). Questa perdita ha prodotto un fenomeno preoccupante: non c’è un ricambio generazionale tra gli artigiani dell’oro della vecchia guardia. Un patrimonio di cultura e di esperienza sta svanendo. Anche perché i vecchi – operai specializzati e designer orafi – non sono messi nella condizione di insegnare ai giovani”.

 

“Beppe, sei finito”: gli artigiani contro il digitale

Suo marito Beppe è d’accordo. Racconta a Senza Filtro: “Ho lavorato dal 1969 in poi con i più grandi produttori. Ho realizzato collezioni tematiche che hanno fatto il giro del mondo. I miei progetti ispirati a Pinocchio sono esposti a Collodi. Mi hanno pure chiamato a New York, per realizzare progetti lì, e ci sono stato un mese. Avrebbero voluto che andassi a vivere laggiù con la famiglia, ma io amo l’Italia, le mie radici, senza le quali non saprei fare quello che faccio”. Pasciutti progetta i suoi gioielli su carta, creando vere opere d’arte; poi li realizza in cera, a caldo, sul classico banco concavo da orefice, lavorandoli a grandezza naturale per mezzo di piccoli strumenti metallici realizzati da lui (magari riciclando chiodi o stecche di ombrello) e scaldati su una fiammella. Nasce un prototipo che può essere usato nelle fabbriche per realizzare lo stampo da cui esce il gioiello grezzo, poi completato con la lucidatura e l’inserzione di pietre preziose. Quest’ultimo era il lavoro che faceva sua moglie Giuliana.

“Poco tempo fa sono andato in un’azienda importante, a Valenza, per proporre alcuni miei lavori”, ricorda Pasciutti. “Il proprietario mi ha guardato e mi ha detto: ‘Beppe, tu sei finito. Ora i gioielli li progettiamo con i CAD’. I che?, dissi io”. Per chi è a digiuno di informatica: CAD è un acronimo inglese usato per indicare due concetti collegati ma diversi; Computer-Aided Drafting, cioè “disegno tecnico assistito dall’elaboratore”, per i progetti in 2d, e Computer-Aided Design, “progettazione assistita dall’elaboratore”, per la creazione di modelli in 3d. Pasciutti, dall’alto della sua manualità, ci rimase un po’ male. Però lui resta, nella vita e nel lavoro, un inguaribile ottimista.

Infatti, alla domanda “Come vedi il futuro dell’oreficeria artigianale?”, risponde inaspettatamente: “Bene!”. Bene in che senso? “Oggi chi ha meno di 40 anni non sa più lavorare come me e altri miei colleghi. Ma io sono sicuro che presto si tornerà alla produzione artigianale in piccole botteghe. Perché la catena di montaggio non si stanca, però appiattisce tutto. Anzi mi candido”. Per fare cosa? “Per realizzare quello che serve: scuole in cui noi cosiddetti ‘vecchi’ potremmo insegnare ai giovani il mestiere vero, quello che usa le mani. Ma voi lo sapete che le mani ci guidano? Giuro!”. Ci crediamo, caro Beppe e cara Giuliana. Forza!

 

Foto di copertina: http://footage.framepool.com

 

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