Costo del lavoro: troppo alto, anche per i detenuti

“Creare un fascino attorno al mondo delle carceri per attirare le imprese”: il binomio non è impossibile. Ne parliamo in esclusiva con il provveditore regionale Carmelo Cantone.

Raggiungere Carmelo Cantone per parlare di rivoluzioni oltre le sbarre è avere ben chiaro di parlare con qualcuno che ha già preparato l’assedio ai luoghi comuni delle carceri italiane.

Le conosce più di casa sua.

È Provveditore per Lazio, Abruzzo e Molise e gestisce venticinque istituti penitenziari, ma in contemporanea è tornato a occuparsi nuovamente della Toscana che aveva diretto dal 2011 al 2016 dato che al momento la sede di Firenze è scoperta.

Di Italia dalle carceri ne ha vista parecchia, Carmelo Cantone. Le prime esperienze a Belluno e Trieste per un anno e mezzo come vicedirettore e poi, come si usava allora, gli diedero la direzione di un istituto: lo mandarono a Brescia, che ha diretto per undici anni. Poi la casa di reclusione di Padova per 5 e, da lì, il nuovo complesso di Rebibbia per dieci anni fino a essere nominato dirigente generale e occuparsi quindi dei provveditorati, partendo da Toscana, Puglia e Basilicata.

Carmelo Cantone: “Creare un fascino attorno al mondo delle carceri per attirare le imprese”

“Siamo sempre troppo distratti da sanità e sicurezza nel gestire le carceri e passano in secondo piano tutte quelle occasioni di vederlo come uno spazio capace di generare servizi collettivi o vere e proprie forme di lavoro e di impresa.

Il linguaggio che parlano le Amministrazioni Pubbliche è ancora troppo distante dal senso concreto delle cose, per non parlare dei gineprai burocratici che le imprese si trovano davanti quando entrano in contatto con gli apparati della giustizia. L’ostacolo riguarda tutte le amministrazioni: lo sforzo che facciamo ogni giorno coi miei uffici, coi colleghi, con le direzioni degli istituti penitenziari è anche quello di creare un fascino intorno al nostro mondo, alleggerendolo dalle pastoie e dagli intralci. Intorno alle carceri, ancora più che altrove, è urgente che le cose semplici vengano gestite in modo ancora più semplice e che le cose complicate vengano rese un po’ meno complicate.”

I progetti di progressiva riabilitazione, capaci di sfruttare le misure alternative, non sono affatto attrattivi per buona parte della nostra società civile. “Chi me lo fa fare?” è la risposta più istintiva, temendo i rischi che potrebbero ricadere sull’immagine reputazionale della propria azienda o della propria comunità in caso di errori o progetti finiti male. Ecco la ragione per cui le imprese più mature sono quelle di cui ha bisogno il Ministero della Giustizia che promuove con fermezza la spinta di attività lavorative e produttive dentro le carceri: mature per solidità finanziaria e per bilanci, ma ancor più per una centratura culturale interna all’organizzazione. Capire le resistenze che oppongono le imprese è il primo passo, nonostante dalla Legge Smuraglia (Legge n. 193/2000 e successivi decreti attuativi) siano previsti sgravi fiscali e vantaggi economici in termini di riduzione dei costi fissi di locazione.

“Cerchiamo imprese in crescita e desiderose di guardare con originalità al tema dell’inclusione riletto in un’ottica produttiva. Se realtà sane, con almeno cento dipendenti, si facessero carico ognuna anche di un solo detenuto, il nostro progetto vedrebbe una luce diversa. Non lo possiamo pretendere dalla piccola o piccolissima azienda di famiglia, per quanto siano benvenute anche loro. C’è grande interesse perché gli interlocutori avvertono subito il senso di novità, ma c’è un gap enorme da coprire tra il mondo dell’imprenditoria che ha voglia di investire e di crescere – anche in un periodo di recessione come questo – e il nostro mondo che non ha mai dialogato a sufficienza con l’esterno.”

C’è un settore o un mercato che prediligete nella scelta delle imprese partner?

Noi andiamo a collocare professionalità basse e medio basse, difficilmente abbiamo profili tecnici o laureati. Però abbiamo già risorse preziose pronte da impiegare, ad esempio nel campo dell’edilizia, così come sarebbe altamente fattibile improntare una formazione specifica se necessaria. Non a caso alcune settimane fa abbiamo chiuso l’accordo con la segreteria nazionale di ANCE (Associazione Nazionale Costruttori Edili) per Lazio, Abruzzo e Molise. Se parliamo di interventi all’esterno, ritengo che l’edilizia sia in assoluto il nostro bacino principe, tanto più se pensiamo all’avvio dei cantieri italiani in previsione dei fondi UE in arrivo. Mai come ora dobbiamo essere bravi a intercettare gli sviluppi dei territori e a cogliere gli incentivi per l’utilizzo della nostra manodopera che, seppure considerata per legge “svantaggiata” in base alla legge sul volontariato n. 381/1981, garantisce comunque altissime prestazioni.

Pochi sanno che proprio dalle carceri sono partiti anni fa i primi progetti pionieristici e sociali nel mondo dei call center.

Qui entriamo nel secondo filone che vorremmo potenziare per far comprendere che anche il mondo dei servizi può appoggiarsi a noi. Mi battei per l’esperienza fatta a Rebibbia nel 2006 e ancor prima a San Vittore con Telecom per il servizio 1257: avevamo strutturato veri e propri call center interni al carcere che collaboravano con quelli esterni; l’avvento dei cellulari aveva poi reso inutile quel servizio per gli abbonati e dopo alcuni anni non fu più ritenuto funzionale. Ma nel 2011, sempre a Rebibbia, facemmo un accordo con l’ospedale pediatrico Bambin Gesù: partecipavamo al servizio CUP e ci occupavamo di prenotare le prestazioni specialistiche per le famiglie dei piccoli ricoverati. Quel nostro CUP si affiancava al CUP dell’ospedale e nel giro di un mese permise l’abbattimento del 50% dei tempi di attesa a cui andavano incontro le famiglie: oggi, a distanza di dieci anni, quel CUP esiste ancora, si è rafforzato e accoglie anche persone in misure alternative che lavorano nel CUP esterno del Bambin Gesù.

La digitalizzazione del lavoro vi permette di oliare meglio le difficoltà?

Senza dubbio. Ma ci tengo anche a dire che il nostro lavoro non sottrae risorse al lavoro esterno, non c’è alcuna forma di cannibalismo.

Le resistenze italiane sono diverse rispetto a quelle di altri Paesi europei.

Nei Paesi a democrazia avanzata la grande differenza in progetti di inserimento lavorativo dei detenuti – e lo dico soprattutto per il lavoro interno alle strutture – è che in Italia il costo della manodopera è altissimo. Altrove si parla di piccoli emolumenti più a titolo di gratificazione, mentre in Italia la linea giurisprudenziale in materia lavoristica ha sempre ribadito che al detenuto si debba garantire un trattamento retributivo adeguato e in linea con l’art. 36 della Costituzione. Aggiungo: giustamente. Almeno in questo siamo un Paese che riconosce il valore del lavoro dei detenuti alla stregua di quello che accade per la stessa figura professionale all’esterno; l’altra faccia della medaglia è che questa garanzia rende meno appetibile il mercato dei detenuti da parte delle imprese nonostante possano avvalersi di tutti gli sgravi fiscali della Legge Smuraglia (Legge 193/2000). Non c’è dubbio che, se negli anni avessimo detto alle imprese che il costo del lavoro dei detenuti per 36 ore settimanali sarebbe costato un decimo come retribuzione netta rispetto a quanto viene quotato fuori, ci sarebbe stata la fila per creare attività lavorativa fuori dal carcere e infatti prima della riforma penitenziaria del 1975, che ha generato l’adeguamento del costo del lavoro, c’erano moltissime cosiddette “lavorazioni” portate all’interno da grandi gruppi industriali: per esperienza diretta posso citare le Officine Rizzato di Padova. In quegli anni il detenuto costava pochissimo alle imprese ma nel giro di pochi anni, con la riforma, le imprese hanno iniziato a sparire dai nostri circuiti.

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