Casi di scuole chiuse anche per gli alunni disabili: come ti escludo la didattica in presenza

In tutta Italia si rincorrono testimonianze di diritti all’inclusione disattesi e di educatori lasciati nel limbo, a discapito dei bambini con disabilità e bisogni educativi speciali. Ne abbiamo raccolte alcune.

La pandemia quasi tutta l’inclusione si porta via. Purtroppo ci risiamo: parliamo di scuola e di diritti fondamentali come quello all’istruzione e appunto all’inclusione, ai quali viene contrapposto quello alla salute, quasi che si trattasse di aut aut obbligatorio, senza nessuna possibilità di convivenza.

Parliamo in particolare di bambini e bambine, ragazzi e ragazze con bisogni educativi speciali (in acronimo BES), e con disabilità che ancora una volta si scontrano con forti strumentalizzazioni, contraddizioni e lacune in periodo Coronavirus, anche se già prima non ne erano esenti. Un numero in crescita, quello degli alunni con certificazione, secondo i dati ISTAT: per l’anno scolastico 2019-2020 (ultima rilevazione disponibile) si registra un aumento di +13.000 (il 3,5% degli iscritti).

Bambini disabili e inclusione messa all’angolo: un film già visto

Se con il primo contenimento della primavera 2020 i ragazzi con certificazione erano stati totalmente dimenticati e anche presi in giro con assurde proposte di didattica a distanza, nella maggior parte dei casi inadeguate e ingestibili, in questa occasione – per chi ne facesse richiesta – è prevista la possibilità, come da nota MIUR, della didattica in presenza. La richiesta viene fatta dai genitori tramite modulo da compilare e da inviare all’istituto di riferimento.

La didattica in presenza è un’opzione, oltre che un diritto qualora la DAD non sia adatta al tipo di disturbo o disabilità dell’alunno in questione. La nota afferma: “Resta salva la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia necessario l’uso dei laboratori o in ragione di mantenere una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali”.

Sembrerebbe tutto chiaro. Eppure anche stavolta i problemi non mancano, e danno parecchio filo da torcere.

Didattica in presenza? In diversi casi una farsa con poche ore da “contrattare”

Diritti gettati sotto il tappeto, come la polvere, cercando di far passare l’idea che ci si debba accontentare di un surrogato, se non addirittura ringraziare. La nostra indagine percorre non solo le note istituzionali, ma anche e soprattutto le testimonianze che hanno il sapore amaro di un nuovo affronto, anche se una mappatura precisa sul numero dei casi non riusciamo a fornirla per ovvie ragioni. Ne scegliamo alcune tra le tante che abbiamo intercettato.

Cominciamo dando voce a una testimonianza proveniente dal territorio mantovano. “Prima della fase di chiusura mio figlio frequentava la scuola dal lunedì al venerdì compreso, con due rientri, per un totale di trenta ore settimanali”, racconta la mamma di un bambino con disabilità cognitiva che va alla primaria. E sottolinea: “La didattica in presenza, attualmente, è invece prevista per la metà delle ore, e non si capisce il perché”.

Chiediamo riscontro anche a un’altra mamma la cui figlia frequenta un’altra scuola tre ore al giorno, togliendo il sabato: “Sembra che sia già tanto così e che dobbiamo accontentarci, ma non ci sono state date motivazioni rispetto a questa scelta”.

Quello che è sicuro è che ogni istituto ha facoltà di scegliere come organizzarsi in totale autonomia, come evidenziato dal MIUR. Non mancano casi in cui la possibilità della didattica in presenza viene addirittura sconsigliata, o anche più o meno esplicitamente osteggiata dalla scuola. Ricordiamo inoltre che durante il primo lockdown erano stati aumentati i giorni di permessi 104 per i genitori con figli disabili, provvedimento stavolta non adottato proprio per il discorso della scuola in presenza: “Una fregatura”, lamentano in diversi, costretti magari a prendersi delle ferie per tamponare queste lacune.

Un nodo focale della questione è racchiuso nella lamentela di un papà di un bambino con disturbo dello spettro autistico che frequenta la primaria in Lombardia: “A mio figlio volevano togliere ancora più ore, rispetto a quelle già tagliate, per motivi di organizzazione interna. Così mi è stato detto. Mi sono sorpreso nel sentirmi dire che avrei dovuto chiedere ai docenti se potevo lasciarlo a scuola fino alle ore 13, pur con giorni della settimana tolti di netto e orario d’ingresso slittato. Le 13 sono l’orario di uscita tradizionale: forse il virus va a fasce orarie? Lo stipendio degli insegnanti è rimasto invariato e non fanno didattica a distanza perché inconciliabile con l’iperattività di mio figlio: come mai nella scuola, luogo di lavoro, tutto questo è possibile?”.

Le stesse dinamiche le ritroviamo su vari territori da Nord a Sud. A onor di cronaca, ricordiamo che al contempo in diverse scuole l’orario garantito agli alunni con BES e disabilità rispecchia quello tradizionale o si avvicina di molto a esso, senza nessuna o eccessiva decurtazione, e con esempi virtuosi di inclusione concretizzati da parte di tutto il team docenti. Insomma, sono le persone a fare la differenza, o come insinua qualcuno anche le risorse?

Il ministero tutela l’inclusione, ma alcune scuole disattendono

Le famiglie chiedono motivazioni alla scuola rispetto alle scelte adottate sul monte ore e su dinamiche organizzative che qualitativamente lasciano a desiderare: è un loro diritto. Quando la risposta arriva – e se arriva – una delle motivazioni date ad esempio per la riduzione oraria è di non far sentire esclusi i bambini stando “troppe ore” senza compagni. Una risposta che stride. In pratica si possono lasciare “esclusi” più ore a casa, ma non a scuola.

Inoltre, proprio per contrastare la mancata inclusione o peggio ancora “ghettizzazione”, è recente l’indicazione data dal ministero sulla possibilità di coinvolgere altri alunni nella didattica in presenza: “Laddove per il singolo caso ricorrano le condizioni tracciate nel citato articolo 43 le stesse istituzioni scolastiche non dovranno limitarsi a consentire la frequenza solo agli alunni e agli studenti in parola, ma al fine di rendere effettivo il principio di inclusione valuteranno di coinvolgere nelle attività in presenza anche altri alunni appartenenti alla stessa sezione o gruppo classe – secondo metodi e strumenti autonomamente stabiliti e che ne consentano la completa rotazione in un tempo definito – con i quali gli studenti BES possano continuare a sperimentare l’adeguata relazione nel gruppo dei pari, in costante rapporto educativo con il personale docente e non docente presente a scuola”.

Ci sono stati raccontati casi di genitori che, quando hanno fatto presente questa possibilità ai referenti all’inclusione degli istituti scolastici di riferimento, hanno seccamente ricevuto in risposta che la situazione di emergenza non poteva prevedere questa soluzione.

Contrasti sui social, gli insegnanti: “Pensate alla nostra salute e a quella dei vostri figli”

Sui social non mancano nel frattempo contrasti e reazioni anche all’interno di pagine dedicate al tema inclusione, che dovrebbero essere finalizzate all’informazione corretta su questa situazione.

Chi pone domande circa le ore di didattica in presenza, oltre a risposte educate, ne riceve anche di stizzite o addirittura aggressive da parte dei docenti, con frasi del tipo (le riassumiamo togliendo le uscite volgari): “Siamo in trincea!”, “ci ammaliamo per fare gli insegnanti di sostegno perché i bambini disabili non tengono la distanza”, “pensate di più alla nostra salute e a quella dei vostri figli e teneteli a casa, la variante è molto pericolosa!”, “la scuola dovrebbe restare chiusa per tutti!”, eccetera.

Frasi pericolose che prestano il fianco a derive discriminatorie in cui la figura dell’insegnante, anziché promuovere l’inclusione e far sentire a loro agio alunni e famiglie, induce colpevolizzazioni e stereotipi;ma soprattutto inquietanti correlazioni tra i bambini disabili, che già devono convivere con difficoltà, e gli untori, quando la realtà è tutt’altra. Tutto questo screditando in modo implicito anche il MIUR, che passa come istituzione sprovveduta nel dare indicazioni invece sostenibili.

A questo proposito chiediamo un riscontro a chi effettivamente opera in ambito medico: Rino Agostiniani, primario di Pediatria e vicepresidente della Società Italiana di Pediatria: “I bambini con fragilità, concetto ampio che comprende anche i disturbi dello spettro autistico e disabilità sia cognitive che fisiche, sono quelli che più stanno soffrendo la pandemia: sono semmai vittime, non untori”. Agostiniani sottolinea un passaggio in particolare: “I danni indiretti determinati dalla perdita del loro ritmo di vita e, purtroppo, la riduzione dei servizi a loro dedicati”.

Nel Lazio casi di educatrici escluse e didattica in presenza sconsigliata alle famiglie

Mentre ci occupiamo di queste dinamiche che ledono bambini con fragilità e le loro famiglie ci arriva la segnalazione di un episodio che riguarda anche figure importanti che lavorano per l’inclusione dei bambini con disabilità: gli educatori e le educatrici.

Piove sul bagnato rispetto a una situazione già complessa, come ci racconta C. – assistente per l’autonomia e la comunicazione e che fa parte di CAOS – Coordinamento AEC OPERATORI SOCIALI auto-organizzati che stanno denunciando le mancanze sull’inclusione, da Roma: “Lavoro in una scuola del XIV Municipio. Venerdì 12 marzo il Lazio diventa zona rossa, chiudono le scuole e il nostro servizio resta sospeso in un limbo indefinito esattamente come un anno fa. Lunedì 15 le due classi nelle quali lavoro iniziano la DAD, ma noi non siamo inclusi. Martedì non sappiamo se lavoreremo, ma, cosa di fondamentale importanza: ci sarà, come indicato nel decreto ministeriale, un gruppetto di bambini che affianca il bambino con disabilità? Per ora a nessuna famiglia è stato chiesto”.

C. ci spiega che la dinamica non è isolata: “In alcune scuole sappiamo di presidi che addirittura sconsigliano alle famiglie la didattica in presenza, o la negano per mancanza di fondi, come se poi gli stessi fondi non fossero già stati stanziati. Una società che non ha tra le sue priorità una scuola pubblica inclusiva, e che tratta i suoi lavoratori come merce da prendere a ore, come fossimo materiale da cancelleria, va rifondata dal principio”.

Restano domande tuttora senza risposta. Quando arriverà una normativa che valorizzi il merito di chi lavora bene, che tuteli il diritto allo studio senza strumentalizzazioni e le risorse pubbliche? Quando l’inclusione sarà veramente difesa e non contrapposta al resto?

Stiamo ancora attendendo risposte. O forse stiamo aspettando da troppo tempo Godot.

Photo credits: disabiliabili.net

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