Diagnosi a distanza, ma non solo. Il digitale sbarca nel mondo della sanità: quali conseguenze per il Servizio sanitario nazionale, e che rischi corrono sanitari e pazienti?
Daniele Francescon, Serenis: “Il well-washing delle aziende contro il disagio di un dipendente su due”
Dal management alla salute mentale: intervistiamo il fondatore del secondo più grande servizio di assistenza psicologica online in Italia, con dati inquietante sul disagio psicologico dei lavoratori italiani e la scarsa cultura aziendale sul tema.
“Ho fondato Serenis perché ero un lavoratore stressato. Guidavo un grande progetto che fatturava cifre importanti; dal mio lavoro dipendevano molte persone. Questo ha avuto un impatto sulla mia salute”.
Seduto in quella che pare la cucina di casa, maglietta rossa, occhi che variano dal verde al nocciola. Dopo aver guidato con successo lo spinoff Nen di A2A fino all’acquisizione di Poste Italiane, Daniele Francescon, 34 anni, ha creato il secondo più grande servizio di assistenza psicologica online in Italia: Serenis.
Daniele, come e quando è nata Serenis?
Eravamo nel 2021, subito dopo i lockdown da pandemia. Io e Silvia, l’altra fondatrice, eravamo entrambi nel mondo digitale, entrambi con grosse responsabilità imprenditoriali ed entrambi ansiosi e stressati. Cercando supporto abbiamo notato non solo quanto era difficile scegliere lo psicologo giusto, ma anche come mancasse un servizio semplice e ben organizzato per rispondere a queste esigenze. Insomma, mancava un approccio da centro medico: un posto dove sai che si prenderanno cura di te. Abbiamo voluto crearlo noi; digitale, ovviamente. Il tema era già caldo; anzi, caldissimo. Abbiamo raccolto subito un milione di euro di finanziamenti e siamo partiti.
A che punto siamo quasi tre anni dopo?
Oggi Serenis ha già facilitato mezzo milione di sedute di terapia psicologica e coinvolto più di 1.300 psicoterapeuti. Siamo cresciuti così rapidamente perché abbiamo potuto e voluto investire subito in una struttura solida e scalabile, sia da un punto di vista amministrativo che di infrastruttura digitale. E poi ovviamente è cresciuta la sensibilità verso il tema della sofferenza psicologica: era già più che maturo nel 2021, quando iniziammo, e in seguito non ha fatto che crescere.
Su questo avete appena presentato uno studio fatto in collaborazione con l’Università di Padova.
Sì. Con loro abbiamo pensato a un questionario e l’abbiamo promosso online. Hanno risposto 1.435 persone. Ben la metà ha mostrato un malessere psicologico di gravità crescente, mentre un altro 29% è risultato avere moderati segnali di ansia e stress. Il 42% ha dato un “voto” di soddisfazione rispetto al proprio lavoro inferiore al 6, e una persona su due ha identificato nello stress accumulato sul lavoro un fattore cruciale d’impatto sul proprio benessere psicofisico.
Chi ha risposto al questionario, esattamente?
In grande maggioranza donne (72%) under 35 (56%) e con laurea magistrale (46%), attive soprattutto nel marketing e nella comunicazione (24%) o in altri settori del terziario avanzato o dei servizi. Un campione a mio parare influenzato dal metodo di promozione e raccolta del questionario, cioè tramite la pubblicità online. Nonostante questo, però, rimane uno specchio piuttosto rappresentativo della nostra utenza generale.
C’è ancora uno stigma verso la psicoterapia, in particolare tra i maschi?
Sì, di sicuro. È ancora diffusa l’idea che il maschio deve mostrarsi forte, e che se chiede aiuto per un disagio si rivela debole. Invece a mio parere è esattamente il contrario: ci vuole coraggio per guardarsi dentro e accettare di farsi dare una mano. Ma c’è ancora un enorme sommerso, inutile negarlo. Lo dimostra il fatto che tre su quattro dei rispondenti al questionario aveva già avuto esperienza di percorsi di psicoterapia o di counseling. Segno forse che chi affronta il tema è quasi sempre qualcuno che ha già accettato di doverci avere a che fare.
E invece il lavoro quanto impatta sul benessere psicologico?
Moltissimo. Abbiamo deciso di fare questa ricerca con l’Università di Padova proprio perché registravamo che moltissimi dei nostri utenti, circa una persona su cinque, dichiarava apertamente e fin da subito che la fonte principale del proprio disagio era il lavoro. Un altro segnale è che Serenis è nata come servizio rivolto alle persone, ma sempre più spesso lavoriamo con le aziende. Non le abbiamo nemmeno cercate: sono loro che hanno cominciato a venire da noi. Segno che il problema si fa sempre più evidente.
Nella vostra ricerca però risulta che le persone non ritengono affatto che i loro datori si stiano occupando del problema.
Infatti. Sebbene due persone su tre pensino che il tema del benessere mentale sul lavoro sia estremamente importante, una su due indica un livello estremamente basso di interesse al tema da parte della propria azienda. Stiamo parlando di una media di “voto” di 3,9 su 10, col 31% dei rispondenti che ha dato addirittura 1. Vero che si tratta di persone che sono già state esposte e molto sensibili al tema, ma è anche segno che c’è ancora moltissimo da fare su questo fronte.
A cosa è dovuto questo ritardo?
Secondo me è un argomento molto caldo ma anche molto recente. Tipicamente le aziende inseguono il dibattito pubblico. Pensiamo per esempio al tema della sostenibilità ambientale: ci sono voluti anni perché se ne dibattesse pubblicamente e perché le aziende lo prendessero davvero sul serio. Quindi in parte c’è un ritardo fisiologico. D’altronde però c’è anche uno stigma tra le aziende a parlare apertamente di questo tema, perché farlo vorrebbe dire mostrare di non avere una forza lavoro davvero serena e soddisfatta.
Oggi le aziende fanno a gara nel parlare di “purpose”.
C’è molto “well-washing”, cioè il corrispettivo del green-washing rispetto al tema della cura delle persone. Ma così come una cosa è dirsi sostenibili e un’altra è esserlo, una cosa è dire che le persone sono importanti e un’altra è fare qualcosa per loro. Ma rimango ottimista, perché quello che interessa al pubblico, o meglio ancora ai clienti, alla lunga interessa anche alle aziende. Prima o poi saranno costrette ad affrontare con serietà la questione – e sarà avvantaggiato chi lo avrà fatto prima.
Il problema di attrarre e trattenere le persone sarà sempre più centrale?
Sì, è sicuro. Negli ultimi anni avrò fatto 500-600 colloqui. Mi sembra evidente che le nuove generazioni hanno un approccio al lavoro del tutto diverso. Il sacrificio, i soldi, la carriera sono tutte leve che gli interessano meno. Questo sta alimentando una discussione molto sana nelle aziende riguardo ai loro principi e valori. Però è molto difficile e oneroso cambiare o creare una propria cultura del lavoro. Per questo le iniziative in proposito incontrano a volte resistenze più o meno esplicite o fanno fatica ad avere un vero impatto.
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Photo credits: 01health.it
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