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Ci siamo bruciati i medici: 15.000 i sanitari in burnout
Medici vittime di sindrome da stress lavoro correlato, numeri impressionanti: gli “eroi” cominciano ad ammalarsi o a cambiare mestiere. E non è solo colpa del COVID-19. Le testimonianze di alcuni di loro e della psicoterapeuta Maura Manca.
Sono numeri non da poco conto, che vanno via via aumentando, quelli dei medici ospedalieri e non, vittime del burnout causato dallo stress pandemico: circa 15.000. Un esercito di camici bianchi reduci da una guerra invisibile e non ancora del tutto finita. Medici che già dalla prima fase emergenziale, sono stati chiamati in prima linea per fronteggiare qualcosa di sconosciuto e spaventoso.
Li hanno chiamati eroi, non considerando che dentro quelle tute bianche, dove anche andare in bagno diventava difficoltoso, nascoste da visiere in plexiglass e mascherine protettive, c’erano e continuano a esserci persone. Esseri umani che per onorare il giuramento di Ippocrate si sono sottoposti a turni massacranti per gestire una situazione che fin dall’inizio ha dimostrato la sua difficoltà. Hanno vissuto la paura del contagio, quella di infettare i propri cari. Hanno visto colleghi ammalarsi e altri purtroppo morire, ma non hanno mai fatto un passo indietro.
Ma tutto questo a che prezzo? Durante questi due anni e mezzo in cui il virus da SarS-CoV2 ha tenuto stretto ogni angolo del pianeta nella sua morsa di angoscia e paura, un enorme numero di operatori sanitari è stato travolto da questo fenomeno, tanto da farlo diventare un problema che ha spinto più di un medico o infermiere a chiedere aiuto, e nei casi più insostenibili a licenziarsi. Il COVID-19 però è stato solo la punta di un iceberg pronto all’impatto.
La pandemia ha slatentizzato tutta una serie di problematiche che il sistema sanitario attraversa da tempo. Criticità come la carenza di personale, che durante l’emergenza sanitaria ad esempio ha spinto il personale medico a turnazioni estenuanti; la mancanza di dispositivi medici – uno dei problemi maggiori, all’inizio del coronavirus, è stato quello di trovare un numero di mascherine sufficiente a permettere a chi lavorava negli ospedali di farlo in sicurezza; i continui tagli a un sistema già di per sé precario. Queste problematiche sono tutte venute alla luce, mettendo sotto pressione un sistema che per logica dovrebbe essere salvaguardato in ogni sua forma, trattando la salute dell’essere umano.
“Io, medico in burnout, lascio la professione per lavorare nell’azienda di famiglia”
“Il COVID-19 è stata un’emergenza senza precedenti. Ci ha colto impreparati e come medici abbiamo provato a gestirla al massimo delle nostre forze psicofisiche e delle competenze scientifiche”.
Inizia così il racconto di M., medico pediatra – preferisce mantenere l’anonimato – che dopo 26 anni di onorata carriera in un importante ospedale ha preso in seria considerazione di smettere di indossare il camice bianco e cambiare del tutto vita.
“Per me, ma non solo, la pandemia è stata un momento storico dove sia a livello professionale – pur non lavorando in emergenza, come ad esempio gli anestesisti o tutti coloro che lavoravano nel Pronto Soccorso mi sono vista stravolta il lavoro dal punto di vista organizzativo – sia a livello personale. Un giro di boa che, passata la tempesta, mi ha fatto fermare e riflettere. Quello che mi ha portato rendere questa idea una scelta concreta è stato il post coronavirus. Mi sono trovata a essere stanca, svuotata, priva di entusiasmo verso qualcosa – la mia professione – che ho sempre amato molto, a cui ho dedicato tutta la mia persona da quando ho iniziato a lavorare.”
“Durante il COVID-19 si è lavorato in una condizione complicata, dove la carenza di personale e la mancanza di dispositivi medici hanno aggravato il nostro lavoro, rendendo tutto difficile da gestire. C’è da dire una cosa però, che mi piacerebbe sottolineare: noi, come personale sanitario, siamo arrivati a gestire questa emergenza già in affanno. Il COVID-19 ha solo scoperchiato il vaso di Pandora che cercava di tener chiusi i problemi che la sanità attraversa da tempo. Una situazione già precaria, e il virus ha portato alla luce una serie di difficoltà preesistenti. Queste situazioni si sono connesse allo stress a cui siamo stati sottoposti, la paura di infettarci o tornare a casa e contagiare i nostri cari, pazienti che sono morti, medici che sono morti (non dimentichiamoci che le stime parlano di oltre 300 medici colpiti dal virus che purtroppo non ce l’hanno fatta): impossibile non soffrire di burnout.”
“Ho sempre dato il massimo. Sono arrivata a non farcela più. Non avevo orari, una vita sociale sacrificata insieme a quella famigliare; questo però anche prima dello scoppio della pandemia. Una situazione che mi ha portato ad avere un malessere interiore molto forte. Da qui ho detto basta. La mia fortuna è quella di avere un’azienda a conduzione famigliare, così da poter cambiare del tutto vita. Certo non è facile, ma ho preferito scegliere cosa davvero sentissi nel cuore”.
“Il paziente in quanto persona non esiste più”. Ma non è colpa del COVID-19
Diversa per scelta ma non dissimile nella sostanza è la storia di A., medico in trincea durante l’emergenza COVID-19 perché nella sua specializzazione, pneumologia, ha dovuto affrontare il maremoto pandemico in prima linea. Medico ospedaliero in una grande struttura, ha toccato con mano che cosa è stata la potenza deflagrante di questa emergenza sanitaria sotto il punto di vista più importante: quello della malattia.
“Parto dal presupposto che noi medici, insieme con il personale sanitario tutto, siamo stati e continuiamo a essere soggetti a burnout. Credo sia pressoché impossibile ad oggi trovare, nell’agosto 2022, un collega o un operatore della sanità che non abbia delle difficoltà oggettive nella propria vita lavorativa che poi si riflettono nella vita personale. C’è da dire, però che il COVID-19 non ha peggiorato la nostra attività lavorativa; ha portato a galla tutta una serie di problematiche preesistenti, perché le fondamenta del sistema sanitario erano e sono assolutamente fragili.”
Di fatto un medico o operatore sanitario colpito dalla sindrome di burnout vive una costante tensione nel riuscire a tenere in piedi un precario equilibrio psicofisico, a discapito anche del rapporto medico/paziente. E questo A. lo sa bene, tanto da specificare come “negli anni, nella sanità, i ritmi, le carenze croniche di personale, la scarsità di materiali, hanno creato un paradosso: il paziente in quanto persona non esiste più. Esistono dei numeri, esistono delle faccende da fare; tutto questo ha disumanizzato la professione per cause esogene”.
“Con quello che è accaduto in questi due anni, queste precarietà, aggiunte allo Tsunami che ci ha investito, hanno aggravato la nostra condizione. Personalmente ne ho risentito sia a livello psicofisico che a livello famigliare. Tutta la vita si è incentrata sul lavoro. Tornavo a casa a orari impensabili – quando tornavo. Le notti in ospedale trascorrevano tra il continuo studio per cercare di conoscere questo virus e gestire le continue emergenze che arrivavano in Pronto Soccorso. Nel 2020, prima fase coronavirus, mediamente riuscivo a dormire due, massimo tre ore a notte. Una situazione al limite del dramma.”
“Tra medici, sparsi su tutto il territorio, le notizie nei gruppi delle chat erano avvilenti: persone che morivano di ora in ora. In tutto questo marasma, dove il tempo si è letteralmente congelato, ho sentito un enorme sovraccarico di tensione. Non ne ha risentito solo la parte mentale ed emotiva: ho iniziato ad avere dei veri e propri problemi di salute fisica. Problemi che mi porto dietro ancora adesso, e come medico so esser nati dallo stress lavorativo che ho vissuto in questi due anni e mezzo, adesso quasi tre. Aggiungo però che, seppur ne pago le conseguenze, questa situazione mi ha portato ad amare ancora di più quel giuramento che feci come medico”.
Burnout dei medici, la psicoterapeuta Manca: “Stress emotivo e fisico, non se ne esce in maniera fulminea”
Che cos’è il burnout, questa sindrome che letteralmente significa “esaurito”, lo abbiamo chiesto alla dottoressa Maura Manca, psicoterapeuta, presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza.
“Il burnout è una sindrome definita anche stress lavoro correlato. Se analizziamo la parola, vuol dire esaurire le risorse psichiche e fisiche. Quindi è un discorso legato sia a sintomi psicologici che fisici”, sottolinea la dottoressa Manca. “Quindi una risposta del nostro corpo, di stress emotivo e fisico: ciò significa che devono esserci queste due componenti in maniera persistente. Ansia, depressione, disturbi del sonno, stanchezza cronica, sono tutte patologie che possono insorgere se si è colpiti da burnout”.
Un disagio del corpo che, essendo sempre in uno stato di attivazione, rilascia cortisolo, ormone legato allo stress, in una quantità così eccessiva da farlo andare in sofferenza. Una situazione che schiaccia tutto il motore della macchina umana, facendo perdere la capacità di ricorrere alle proprie risorse interiori, non avendo da dove attingere. Come se ne può uscire?
“Quando si arriva a questo stato, significa starci in maniera persistente. Purtroppo non se ne esce in maniera fulminea”, continua la psicoterapeuta. “Bisogna innanzitutto rendersene conto: ci si arriva pian piano, e quando ci si accorge del troppo affaticamento psicofisico, è in quel caso che bisogna intervenire. Per prima cosa è importante cambiare atteggiamento nei confronti di quello che genera burnout, cercando di capire cosa iniziare a togliere. Essendosi creato un forte sbilanciamento, è necessario riprendere il contatto con la parte più profonda del proprio sé, anche con il supporto di terapeuti e famigliari, e poi spezzare il problema come piccoli pezzi di un puzzle e iniziare ad agire per fasi. Un problema visto nella sua interezza spaventa, suddiviso in microaree permette il procedere verso la soluzione per tappe”.
È importante che, all’interno delle strutture sanitarie, ci siano luoghi appositi, dedicati all’ascolto e all’accoglienza psicologica degli operatori sanitari, così da garantire un supporto a tutte quelle figure che si prodigano per l’altro. Figure che, nel comparto della società, rappresentano una colonna portante.
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