Fimer, inverter solari: il governo parla di transizione ecologica ma non dirada la nebbia sugli 800 lavoratori

L’eccellenza delle rinnovabili di Terranuova Bracciolini, specializzata nella produzione di inverter, è stata spolpata dalle multinazionali nel silenzio della politica: vertenza per 800 lavoratori. La testimonianza di Alessandro Tracchi, segretario provinciale FIOM CGIL e dipendente Fimer.

“Essere qui significa difendere un patrimonio industriale, ma anche difendere una prospettiva di futuro che è assolutamente essenziale per avere lavoro di qualità, e per mantenere in Italia produzioni essenziali”.

Le parole erano di Andrea Orlando, ministro del Lavoro in visita alla Fimer di Terranuova Bracciolini. Il periodo era lo scorso febbraio. Siamo nel Valdarno, la provincia è quella di Arezzo. La Fimer del 2022 vuol dire una matrioska di proprietà e di nomi che si sono succeduti da sempre negli ultimi decenni: qui nel Valdarno basta nominare una delle tante sigle per farsi raccontare, da chi ha cinquant’anni in su, quanto fosse solida la fiducia delle famiglie che direttamente o di sponda avevano qualcuno in casa che ci lavorasse, e se non era un parente era un amico.

Il settore è quello delle energie rinnovabili, produzione di inverter per l’esattezza, e l’inizio della storia parte con la allora Power One, in assoluto il marchio di riferimento a livello mondiale nei primi anni Duemila.

Durante il suo passaggio allo stabilimento toscano, Orlando aveva annunciato l’imminente tavolo al Mise, il ministero dello Sviluppo economico, che in effetti poi c’è stato; un tavolo interlocutorio come tutti i primi incontri politici in cui ci si annusa, si spiega, si ascolta, si spera. In vista di quell’appuntamento del 10 febbraio al Mise, i sindacati FIOM, FIM e UILM avevano fatto sospendere il presidio al casello autostradale del Valdarno programmato in segno di protesta il giorno 11.

Il caso Fimer, orgoglio del fotovoltaico abbandonato dal governo della transizione ecologica

La prima domanda seria che c’è da porsi – mentre la politica e le conferenze stampa del Governo Draghi ricorrono costantemente a espressioni come “transizione ecologica” alternata a quella digitale, come se solo a pronunciarle di continuo si convincessero i cittadini che si sta davvero andando nella giusta direzione – è come sia possibile che un’impresa modello in campo ecologico come la Fimer sia finita in un tritacarne di scala internazionale, senza che i massimi vertici delle istituzioni nazionali si accorgessero della malaparata più volte segnalata da lavoratori, RSU e sindacato.

Solo nel 2019 lo stabilimento Fimer di Terranuova era considerato quello centrale nella strategia del gruppo brianzolo della famiglia Carzaniga che avrebbe voluto posizionarlo come quarto produttore al mondo di inverter fotovoltaici; Fimer era già anche il marchio internazionale di riferimento nella realizzazione di sistemi per la mobilità elettrica. Era stato lo stesso presidente Filippo Carzaniga, nel 2019, a ufficializzare la scelta di localizzare proprio nella fabbrica ex Power One valdarnese il nuovo Centro di Ricerca & Sviluppo per il segmento Utility in Italia (lo stabilimento produttivo di Terranuova è la seconda sede italiana della Fimer, oltre a quella di Vimercate in provincia di Monza Brianza che lavora al momento senza scossoni).

Il piano di crescita della Fimer sembrava lineare anche in Toscana, ma purtroppo tocca invece oggi una vertenza, nel Valdarno, per circa 800 persone: 450 solo i dipendenti dentro lo stabilimento, a cui vanno aggiunte altre 350 persone circa tra la provincia aretina e altre aree della Toscana. I numeri salgono ancora di più se si considerano tutti i fornitori di materia prima e semilavorati dislocati sull’intero territorio nazionale.

Alessandro Tracchi, FIOM CGIL: “La Fimer condannata dagli errori delle multinazionali proprietarie”

Riepilogando i tanti passaggi di mano, a marzo 2020 la Fimer aveva acquistato la divisione degli inverter solari di ABB senza che venissero mai sollevati dubbi o riserve sulle capienze di cassa del gruppo. Purtroppo.

Mi racconta la storia per filo e per segno Alessandro Tracchi, da poche settimane segretario provinciale per Arezzo della confederazione CGIL, ma da oltre vent’anni in quell’azienda dai tanti nomi e dalle tante facce dove lui ha tenuto traccia di ogni passaggio: lo ha fatto da lavoratore e da delegato sindacale. La premessa che mi chiede di fare rende bene l’idea dello stato d’animo con cui ha accettato di collaborare con SenzaFiltro per spiegare esattamente come sono andate le cose.

Me lo dice mentre si sposta da una sede a un’altra, e sale in macchina agganciando il bluetooth. Sono le 21.30 del 2 marzo: più volte, durante la giornata, tramite messaggi mi aveva garantito piena disponibilità ma chiesto di slittare l’orario, e di essere puntualissima perché ci saremmo sentiti tra una sua assemblea sindacale e un’altra.

Alessandro Tracchi, segretario provinciale per Arezzo della CGIL e dipendente Fimer.

“Mi serve spiegarti però tutto dall’inizio, senza tralasciare i dettagli che magari sono noti agli addetti ai lavori e alla cronaca locale ma che non si riesce mai a far arrivare alla ribalta nazionale. Sono invece proprio queste ricostruzioni indietro nel tempo che si rivelano utili per capire la gravità di certe crisi e individuare le responsabilità”.

Parte quindi dalle basi, vale a dire l’acquisizione della Power One, la vecchia multinazionale americana che a sua volta aveva rilevato nel 2007 un’altra multinazionale, americana anch’essa (era la Magnetek), e che fino a quel momento aveva avuto in proprietà lo stabilimento di Terranuova. Insomma l’azienda era pioneristica e in piena salute, avendo iniziato già nei primi anni Duemila a ideare prodotti per le energie rinnovabili, gli inverter appunto: lì si concentravano tutti i tasselli essenziali a livello industriale, dall’R&D al commerciale, dalla produzione al marketing, compresi il reparto campionature prototipi e l’assistenza clienti.

Le prime commercializzazioni della Power One sono datate 2008/2009: era a quel tempo la seconda potenza mondiale con un bilancio di 1 miliardo di dollari. È lì che va ricercata la genesi della crisi, perché è lì che scatta l’interesse di un’altra multinazionale, la ABB, nome di riferimento dell’elettronica che, passata già per altre acquisizioni, tentò direttamente il colpaccio con Power One: ABB nel 2013 mostrava un fatturato in leggera discesa ma sempre solido, intorno ai 750 milioni di dollari.

“ABB riscontra subito qualche problema qualitativo negli inverter Power One per errori progettuali, ma non è questo il punto iniziale della crisi. Il punto è che ABB, da multinazionale con la tipica logica di chi non capisce il valore delle peculiarità aziendali nei diversi territori e nelle diverse geografie produttive, inizia a rimodellare tutta sé stessa a sua immagine e somiglianza: lo fa nello stabilimento di Terranuova così come in quello americano, in quello in Cina, in quello in India, uniformando tutto sotto una stessa logica e togliendo strategie sia nella gestione dei clienti che nelle politiche di aggressione al mercato. Ma il grande errore è soprattutto quello di introdurre un elemento che in ABB era strategico, ma in questo settore meno, vale a dire stare in un contesto internazionale usando solo i propri canali di vendita. Un criterio fallimentare per un prodotto come gli inverter, che avevano ancora bisogno di un diverso margine operativo continuando su un rapporto diretto coi clienti.”

“Nel giro di due anni si arrivò subito a una forte riduzione di fatturato, al punto che già nel 2015, abbandonando completamente il mercato americano, da dove veniva la metà di quei 750 milioni di dollari grazie a tre o quattro grossi clienti, arrivarono le prime riduzioni di personale. In quel momento l’azienda occupava ben 1.000 persone, più i circa 200 dipendenti che arrivavano dal consorzio esterno che si era costituto.”

ABB lascia indietro gli inverter: l’inizio della fine

Tracchi prosegue nel racconto che fila liscio nei tre anni successivi al 2015, quando ABB in effetti risana alcune difficoltà di prodotto, mette in campo una ristrutturazione della gamma, fa ripartire con buoni risultati la parte solar della vecchia Power One. “Fino a quando però ABB, ricreato il gioiellino, non ritenendo più interessante per sé stessa la produzione di inverter, nel 2019 decide in modo scellerato di dividere lo stabilimento: da una parte gli inverter (che mette in vendita), e dall’altra il segmento che aveva fatto partire, relativo alla produzione di caricabatterie per la mobilità elettrica”.

Lo fermo a questo punto del racconto perché, come nei romanzi gialli, c’è un prima e un dopo a cui non si fa caso mentre lo si vive nel presente, ma l’intaglio di certi indizi la dice lunga sull’evoluzione delle cose.

E chiedo: quando ABB decide di mettere in vendita la linea solar, vengono investiti il territorio e la politica locale della decisione o non trapela niente della scelta imprenditoriale? Risposta: “ABB si muove da sola, noi avevamo sentito dei rumor che venivano però continuamente smentiti. A giugno 2019, dopo che la notizia circola già sui siti istituzionali di ABB dalla mattina alle 6, ci convocano per comunicare che la divisione degli inverter sarebbe stata messa in vendita. Parte lì il lungo contenzioso sindacale perché per prima rivendicavamo, e lo facciamo tuttora, la forza e il valore del nostro stabilimento che aveva sempre attraversato a testa alta anche tutti quei passaggi non facili: indipendentemente dalla proprietà, avevamo sempre dimostrato il nostro altissimo livello professionale e produttivo”.

“Il Mise non ci ha mai convocato: la nostra situazione non li preoccupava”

Orgoglio dei lavoratori, quindi, in cima alla lista delle rivendicazioni sindacali: e rimarco questa sottolineatura di Tracchi, ascoltando la storia, perché ci si dimentica quasi sempre del dolore dei lavoratori, che non è solo mancati stipendi, ma per prima cosa mancati riconoscimenti, mancati rispetti, negato buon senso tra esseri umani.

“La seconda nostra grande obiezione è stata fin da subito sul piano finanziario: i bilanci degli anni 2017-19 di ABB, pur essendoci stata di nuovo una buona crescita, si aggiravano intorno ai 45 milioni di fatturato annuo. Ci chiedevamo quindi come potesse Fimer esser messa improvvisamente nelle condizioni di reggere l’impatto di un sistema industriale così complesso. In quell’anno e mezzo di continue e concitate richieste di intervento da parte nostra, il Mise non ci convocò mai perché dicevano che la nostra situazione non lasciava presagire scenari preoccupanti; a tutti gli incontri in cui erano presenti sia ABB che Fimer, e durante i quali esponevamo le nostre perplessità, ci veniva sempre risposto che l’operazione avrebbe certamente portato a valorizzare le due divisioni monoprodotto, insomma una grande opportunità per entrambe.”

Chiedo se, anche solo in modo retroattivo, Tracchi e i suoi colleghi si siano mai dati una risposta su quella decisione subita da dentro il cuore dello stabilimento. “Mai. Di voci ne abbiamo sentite di ogni genere, dal gossip al complottismo, ma un perché che fosse realmente fondato non lo abbiamo mai né intuito né avuto”.

La spaccatura ufficiale dello stabilimento tra Fimer e ABB porta la data di marzo 2020, la pandemia bussava già alla porta e da lì a oggi sarebbe arrivata anche la carenza di materie prime. Appena entrata nella sua proprietà, nel giro di dieci giorni Fimer inizia a sostituire interamente il management e nomina un amministratore delegato: erano in piena pandemia quando ad aprile arriva appunto Alessio Facondo, ex dirigente di Finmeccanica, che presenta il piano industriale anche in Regione Toscana. Monta il disappunto soprattutto da parte della FIOM, di cui Tracchi a quel tempo era segretario generale (oltre che lavoratore distaccato in virtù della Legge 300/1970), perché era chiaro che la disponibilità di cassa non fosse all’altezza. Il Mise continua a snobbare le richieste dei lavoratori, ma per fortuna la Regione e il sindaco di Terranuova, Sergio Chienni, hanno sempre continuato ad attenzionare la situazione.

Fimer, il ministero se ne accorge solo adesso. E cerca un compratore

A che punto siamo oggi?

Arrivare al Mise lo scorso dicembre è stato il grande passo, e lì abbiamo voluto spiegare la nostra amarezza per questo paradosso tutto italiano della transizione ecologica e del PNRR: un nome di riferimento mondiale come la Fimer, che dovrebbe garantire occupazione e crescita in un momento storico che trova così tanta attenzione intorno all’ecologia dentro un mercato dal trend costante di un +10/12% annuo, rischia di temere persino un fallimento o comunque un forte ridimensionamento. Ora siamo in concordato, oltre che in stallo, e supportati dagli ammortizzatori sociali. Speriamo che la proprietà ceda la governance e faccia entrare investitori. L’ultimo CdA si è dimesso il 15 dicembre scorso ed è arrivato un amministratore unico, Claudio Calabi, dopo tre cambi di amministratori delegati. Il 30 dicembre è stato presentato il concordato: da lì in avanti dipendiamo dai commissari giudiziali nominati dal giudice del Tribunale di Arezzo”.

Ieri, 3 marzo, in azienda c’è stato un incontro interno in vista dell’appuntamento di venerdì 11 in Regione Toscana. Ne è emerso l’avanzamento di diverse offerte di acquisto, tra le quali l’azienda ha individuato un non meglio precisato “soggetto industriale” preferibile rispetto agli altri. A seguito della notizia, la FIOM CGIL ha indetto un’assemblea in presenza per l’11 marzo, subito dopo l’incontro in Regione.

Per metà marzo è fissato il secondo appuntamento al Mise dove si dovrebbe capire la concretezza dell’interesse del soggetto industriale o del fondo di investimento e, semmai, con quali somme e con quale piano industriale. Tracchi usa il condizionale e mi spiega tutta la portata simbolica di quel condizionale da cui dipendono vite, famiglie, storie personali e collettive, sussistenze, rivincite. Chissà se cambierebbe qualcosa tra l’ingresso di un privato o di un fondo magari straniero.

Il privato è sempre preferibile, per quanto ormai, nel mondo dell’economia, ci sono fondi vocati quasi esclusivamente a misure di sostegno o finanziamento. Non saprei dire, ormai le incognite sono ovunque nel mondo del lavoro: magari arriva il privato che sembra solido e ben intenzionato, ma poi rivela altre mire geografiche e dopo pochi anni delocalizza. Per noi la prospettiva adesso è vedere un piano industriale che riporti fiducia nello stabilimento del Valdarno.”

Dal Valdarno è tutto, per ora. In attesa del Mise, in attesa che torni il sole sugli inverter.

Leggi gli altri articoli del reportage 109, “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.


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