Gig economy: il lavoro on-demand dà un vantaggio alle donne?

Non è un mistero che ai lavori on-demand nati grazie ai modelli di consumo “digitali” sia stata associata una generale accezione negativa. Questi nuovi professionisti figli della gig economy, incarnati per antonomasia dalle figure dei rider in bicicletta (simboli dei lavoratori sfruttati e non tutelati), pur rimanendo centrali nella vita del consumatore medio, sono anche […]

Non è un mistero che ai lavori on-demand nati grazie ai modelli di consumo “digitali” sia stata associata una generale accezione negativa. Questi nuovi professionisti figli della gig economy, incarnati per antonomasia dalle figure dei rider in bicicletta (simboli dei lavoratori sfruttati e non tutelati), pur rimanendo centrali nella vita del consumatore medio, sono anche vittime dell’assenza di una regolamentazione del settore univoca.

Fra le tante sfaccettature del fenomeno dei gig worker, certamente una di quelle che ancora deve essere analizzata in maniera più approfondita riguarda il rapporto fra queste nuove modalità d’impiego nate con il digitale e le donne.

Se nel mondo del lavoro persistono ancora forbici importanti fra il valore reale generato e riconosciuto per ciò che riguarda il genere femminile, può esserci qualcosa di buono in una dimensione che apparentemente si sostiene sul livellamento verso il basso delle tutele e delle condizioni? Non è semplice rispondere al quesito: lo scenario è ancora magmatico e incerto, e risulta difficile trovare dei segnali positivi da cogliere e fare propri, a maggior ragione se si vuole provare a dare una lettura polarizzata su determinate fasce della popolazione o secondo una logica di genere.

 

Ma quanto si guadagna in media con la gig economy?

Quello che sappiamo e che i dati ci confermano è che il fenomeno sia in crescita.

Secondo una ricerca svolta dalla Fondazione Debenedetti nel 2018 per conto dell’INPS, il numero dei gig worker sarebbe attorno alle 750.000 unità in Italia, circa il 2% della popolazione lavorante (18-64 anni).
Di questi, secondo il Rapporto, il 42% sono donne. La retribuzione è variabile: chi si affaccia alla gig economy secondo lo studio guadagna mediamente 346 euro, che è la media fra chi ci arriva da disoccupato (139 euro) e chi lo svolge come occupazione primaria e unica (570). In mezzo, 350 euro di salario per chi ha una seconda occupazione in tali ambiti. La ricerca però non ci dice se le donne siano pagate di più o meno.

Un aspetto forse che può essere utile alla trattazione riguarda i tipi di lavoratori che orbitano intorno al mondo digitale: i gig worker possono essere web-based, cioè lavorano essenzialmente grazie al web tramite cui svolgono la propria prestazione, e location-based, cioè usano dispositivi digitali e un software (generalmente un’app) per offrire e gestire il loro servizio “fisico”.
Di questa seconda categoria fanno parte i già citati rider, lavoratori del settore più forte in ambito gig in Italia, quello del food delivery, che ha un fatturato di circa 600 milioni di euro nel 2019, +56% sul 2018 (fonte: Osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano e di Netcomm). Seguono, molto distanti, i servizi di trasporto e di somministrazione di lavori domestici, come le babysitter o le colf. Della prima invece fanno parte i lavoratori più di concetto, come art director o social media manager.

 

Le aspettative dei lavoratori on-demand

Queste condizioni rispondono ai bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici?

Prova a rispondere Elena Amistà, ricercatrice freelance, curatrice del sito Find Your Data e associata di Rete al Femminile: “Sembra che i lavoratori della gig economy siano piuttosto soddisfatti (il rapporto INPS ce lo conferma), ma altri dati ci raccontano che la prima ragione per cui si lavora così poco (ovvero così poche ore a settimana) è che non c’è un’alternativa migliore. A tal proposito consiglio di leggere il report dal titolo Social Protection for Independent Workers in the Digital Age a cura di Tito Boeri, Giulia Giupponi, Alan B. Krueger e Stephen J. Machin. Questo certamente sottolinea un gap tra aspettativa e realtà e possiamo pensare che sì, di per sé i lavoratori siano felici di studiare da casa un nuovo logo; ma vorrebbero qualcosa di più”.

“In altre parole, e tralasciando le misurazioni della soddisfazione, probabilmente la felicità di essere un lavoratore della gig economy dipende da un fattore che ha due facce, ovvero l’aspettativa. Il lavoretto occasionale, la piccola consulenza ottenuta al ribasso sono un ‘meglio di niente’ oppure lasciano un amaro in bocca perché ‘avrei sperato di meglio?’”.

 

Gig work: i vantaggi per le donne

La questione è complessa e può lasciare spazio a diverse riflessioni relative alle differenze di genere e alle opportunità. Rimanendo sulle donne, infatti, il tema delle aspettative sembra essere centrale.

In un articolo del maggio 2018, pubblicato sul blog Tecno-Logica e ospitato su La Stampa, l’analista di Creative Strategies Inc. Carolina Milanesi scriveva: “Considerando quanto poco sono progrediti le normative e l’atteggiamento delle aziende in materia di assistenza all’infanzia e congedo parentale e tenendo conto dei cambiamenti che il luogo di lavoro sta subendo per attrarre i millennial, per le mamme che si sono prese una pausa dalla carriera rimettersi in gioco è scoraggiante. La gig economy potrebbe offrire loro nuove opportunità, non solo in termini di flessibilità, ma anche per riscoprire che cosa vogliono fare davvero, e per guadagnare un po’ di più.

Dal marketing ai metodi di pagamento alla fornitura di servizi, grazie ai progressi della tecnologia non è mai stato così facile essere il capo di sé stessi”.

La riflessione nasce dalla consapevolezza che il divario retributivo e di mansioni fra uomini e donne è in tutto il mondo ancora molto ampio, e dalla considerazione diffusa della maternità in ambito lavorativo, trattata ancora troppe volte come un problema per la donna in carriera. La flessibilità insita nel meccanismo on-demand dell’economia gig, invece, potrebbe favorire le donne nell’inserimento (o nel re-inserimento) nel mondo del lavoro, nonché migliorare il bilanciamento tra sfera privata e lavorativa, partendo non tanto dalle logiche contrattuali quando dalle competenze. In effetti, il modello della consulenza gig sembrerebbe perfetto per valorizzare quanto resta invece trascurato nel mondo del lavoro “classico”.

Elena Amistà su questo è concorde: “Esistono piattaforme digitali, come Starbyte e AddLance, nate per agevolare l’incontro tra piccole imprese e professionisti (dalla grafica, ai website designer, ai traduttori): possiamo immaginare che siano molte le donne che le utilizzano per ottenere piccole commesse. Il fatto di poter lavorare un numero limitato di ore – e magari poter rifiutare all’occorrenza un’assegnazione – ha la parvenza di essere il classico metodo che permette di conciliare vita professionale ed esigenze famigliari. È la solita frase che intende dire che sia una questione esclusivamente femminile e forse davvero questo tipo di collaborazioni può aiutare”.

Un discorso di valore, ma parziale, considerando come ci siano aziende con cui si costituisce una relazione stabile (il modello One Contractor) e in cui è necessario trovare una visione imprenditoriale che sostenga le donne.

 

Uber e Domino’s pizza, aziende women-friendly

A tal proposito Uber è un esempio interessante. Nella stessa azienda è come se abbiano convissuto (o convivano) più anime: quella molto attenta alle proprie collaboratrici, che si propone di “mettere in contatto, incoraggiare e supportare l’avanzamento delle donne” costruendo una policy interna in grado di tutelare e proteggerle da ogni problema possa sorgere (per esempio, le molestie subite durante il servizio) o da qualsivoglia limite di carriera proveniente dal genere, e quella oseremmo dire più “maschilista”, che in barba a tutti i pregiudizi ha tollerato negli anni passati votazioni partite dagli utenti per “l’autista più bella” (la famosa ragazza filippina Joyce Tadeo, salita agli onori della cronaca nel 2017). Anche situazioni come queste possono aiutare a far crescere una consapevolezza diversa per la relazione fra gig economy e donne, mostrando come ci sia ancora molto da fare.

Gli esempi virtuosi nel settore fortunatamente però ci sono. Oltre a Uber, che ha comunque avviato un processo interno “women-friendly”, citiamo Domino’s Pizza, dove le donne sono una fetta della forza lavoro ancora minoritaria ma ugualmente di riferimento. Ci racconta il CEO per il mercato italiano Alessandro Lazzaroni: “A oggi le donne che lavorano con una modalità ‘gig’ (in Domino’s Italia, N.d.A.) sono circa il 16% del totale della popolazione femminile degli store. Inoltre, a differenza di altri player che operano sul mercato con queste forme di collaborazione, noi offriamo a tutti una copertura assicurativa contro gli infortuni, oltre a garantire un contratto che è ben definito e certificato. Abbiamo inoltre anche altre modalità di lavoro elastiche, come lo smart working e orario di ingresso flessibile, che vengono offerti non solo al 100% della popolazione femminile, ma alla totalità dei dipendenti e collaboratori di sede”.

Il lavoratore (e le lavoratrici) possono approfittare di un trattamento che le agevoli? Risponde così Lazzaroni: “La nostra ottica è quella di dare la scelta a ogni nostro lavoratore di poter trovare una forma contrattuale a lui confacente, ovviamente sempre nei limiti richiesti dalla mansione. Quando è una scelta libera del lavoratore, la possibilità di operare con modalità di lavoro più flessibili, non ci sono rischi ma solo opportunità: ovvero quella di gestire un corretto work-life balance, in linea con le proprie aspettative. Il rischio è quello di ritrovarsi ad avere un mercato del lavoro che invece sia fatto di un’unica alternativa, magari flessibile, ma più aleatoria. Questa non è senz’altro la scelta che abbiamo fatto noi. Non andiamo a offrire una posizione che sia contrattualmente vantaggiosa per noi, ma andiamo ad offrire dei contratti che possano consolidarsi in un percorso duraturo poiché impegniamo tantissime forze nella formazione e nella crescita delle risorse. La speranza è che queste persone possano evolversi professionalmente all’interno della nostra azienda, fino ad arrivare a diventare loro stesse imprenditrici, aprendo o magari acquistando direttamente uno degli store in cui hanno iniziato la loro carriera. Questo non è un sogno o un’utopia. La dimostrazione è che negli Stati Uniti, il 90% dei franchisee Domino’s è partito facendo il driver e questa è anche la nostra ambizione”. Un discorso quindi che sposta il focus sul collaboratore in generale, e mostra come nei nuovi modelli di lavoro “digitale” la flessibilità della relazione sia pensata per essere alla base di qualsiasi rapporto.

 

Le gig worker si accontentano. Per ora

Rimane il quesito di fondo: le donne possono trovare il proprio spazio in un modello ancora in formazione, dove le certezze sono poche e ogni giorno è buono per costruire una cultura condivisa convenzionalmente?
Facciamo nostre le parole di Elena Amistà, che suonano profetiche pur lasciando aperti dei quesiti basilari: “Un piccolo impegno saltuario, a chiamata, è ciò che serve alle donne per continuare ad assolvere ai compiti famigliari e – intanto – riuscire ad avere qualche spicciolo per farsi un regalo, oppure è la mortificazione di chi vorrebbe invece lavorare a tempo pieno e delegare a qualcun altro le faccende domestiche?”.

“Probabilmente, il momento storico in cui siamo porterà a uno scontro tra le nuove esigenze di

empowerment femminile e la resistenza degli stereotipi di genere che vogliono le donne vicine ai figli e alla famiglia. La gig economy, per alcuni lati, può sembrare il compromesso ideale, ma certamente non basterà – viste le nulle prospettive di indipendenza e carriera che offre. Per il momento, contribuire al bilancio famigliare con piccoli lavoretti può evitare di cadere nei due estremi stereotipati femminili: la donna in carriera e la donna angelo del focolare. Sicuramente, ciò non potrà bastare – e non solo per le donne – soprattutto se leggiamo in prospettiva i dati dell’indagine di Boeri, che mostra come i titoli di studio di questi lavoratori siano alti (talvolta più dei lavoratori autonomi propriamente detti)”.

La parola alle aziende. E alle donne.

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